Primiera è l’ambizioso titolo, ma a giusta ragione, che accompagna la collettiva curata da Bruno Corà, che vede protagonisti quattro fondamentali figure dell’arte italiana: Gilberto Zorio, Eliseo Mattiacci, Vittorio Messina e Nunzio organizzata presso i nuovi spazi (un moderno open space dalle fattezze industriali) della Galleria Adalberto Catanzaro di Via Monaco 1 a Bagheria (PA).
Perché Primiera? Il geniale riferimento di concetto si associa alla nota combinazione di un tradizionale gioco a carte qual è la Scopa dove, la Primiera che vale un punto, si ottiene sommando il punteggio della carta più alta per ciascuno dei quattro semi. Dal francese prime: ossia giudice supremo, il termine è per la rosa di artisti in mostra, quindi e pertanto, utilizzato per indicare ambivalentemente una sentenza sul loro lavoro e il loro stare insieme dove, la loro combinazione è, in questo caso e per quel che concerne il mondo dell’arte in generale, sinonimo ed esemplificativo di personalità e linguaggi indiscutibilmente essenziali (primari) nel discorso sul contemporaneo.
Si potrebbe dire che, l’ipotetica partita a carte messa in scena da Catanzaro, è già vinta sul nascere poiché le coppie di artisti di due consequenziali generazioni in dialogo, rappresentano tasselli imprescindibili nella narrazione artistica del nostro Paese e non solo.
Da un lato abbiamo Gilberto Zorio, maestro dell’Arte Povera con due caratteristiche stelle: una, è un tondo di ferro appartenente a un ciclo realizzato negli anni Novanta, l’altra in gomma (Stella gommosa) dei primi Duemila; opere cui fanno da sponda dall’altro lato i cinque elementi in alluminio intitolati Sospensionedi Eliseo Mattiacci.
Il raccordo energetico fra i due è palese: le stelle di Zorio da un lato, i pianeti di Mattiacci dall’altro inscenano intorno alla materia un discorso atavico che ha a che fare con l’origine sconosciuta dell’uomo. In entrambi la materia capta e rivela pulsazioni profonde e ancestrali che irradiando luce in ogni dove, trattenendo nella forma un’immagine irreale – ma concreta, simbolica e significativa tanto alla vista quanto a un senso di empatico sentimento – all’interno della quale si addensa tutta l’immaginazione millenaria che accompagna l’esistenza. L’attesa e la rivelazione che si accompagnano allo spiazzante senso di sconosciuto, si misurano nelle opere di Zorio e Mattiacci come forze invisibili, tensioni psicologiche, eventi energetici di situazioni fluide e universali.
La Primiera in seguito si completa con le opere di Vittorio Messina e Nunzio. Due artisti di una generazione successiva che sull’onda del dettato poverista e materico hanno portato avanti un discorso intorno alla scultura intensificando la strada dell’antiestetico che, improntata dalla fine degli anni Settanta, ha fatto dell’arte italiana una sorta di scuola internazionale. Tuttavia, le differenze con i linguaggi poveristi della prima ora si ravvisano in entrambi gli artisti in ricerche sul rapporto opera e luogo, spazio, pieno e vuoto molto più incisive e determinate. Ricerche che, tuttavia, non tralasciano quel senso di sprigionamento di energia sotteso all’opera ereditato dai maestri della generazione precedente, ma che si riorganizza in un senso di monumentale e grandioso capace nel disconoscimento dell’estetica di generarne una totalmente nuova e inattesa. Allora abbiamo in Nunzio la visualizzazione di quella forza che rende tale lo scultore e si materializza in una tensione fra esso e la forma finale dell’opera, e parimenti in Messina, osservando Uno scranno per san Gerolamo lo sdoppiarsi di direttrici in momenti temporali e spaziali distanti ma allo stesso tempo non scindibili, sicché l’effetto finale restituisce al tutto una grandezza di fronte alla quale lo spettatore non può esimersi da un silenzioso colloquio fra il suo animo e il circostante.
In conclusione, pertanto, Primiera è innanzi tutto un omaggio alla storia dell’arte italiana dove, i quattro artisti, protagonisti di questa piccola ma intensa esposizione, si mostrano primari per la contemporaneità. Senza una riflessione sul loro lavoro, senza valutare l’apporto concettuale e formale delle loro opere, non sarebbe in alcun modo comprensibile l’arte del presente.