Stare in fila per ore al gelo della ventosa West Side solo per immergersi nelle tre ambientazioni di Yakoi Kusama, e solo per 45 secondi per volta, culturalmente parlando rientra in una di quelle esperienze che si situano tra il vivere l’attesa di pattinare sotto l’albero di Natale del Rockefeller Center e il rimanere tutta una notte fuori da un club nella speranza di vederne uscire Grace Jones. È stancante, un po’ da turisti, e probabilmente non ne vale la pena; ma è comunque Yayoi Kusama. Quando questo fenomeno di più di 88 anni scrive il suo nome seguito da virgola e dal titolo regale di Avant-Garde Artist (Artista di Avanguardia) – come fa nella nobile dichiarazione “Message to the people of the world from Yayoi Kusama” che l’ha accompagnata nell’esposizione di David Zwirner, a New York – lo fa con tutta precisione. Che importa se è anche grandiosa?
Con Avant-Garde, termine d’altri tempi, l’artista evoca i primi anni della sua carriera – la sua solitaria “rivoluzione nell’arte”, come la chiamò – nei quali teorie idiosincratiche di trascendenza, liberazione e “auto-cancellazione” spiegavano la sua maniera, fatta di gesti e forme ripetuti ossessivamente. Negli anni Sessanta Kusama creò un’estetica unificante dell’eccesso che posizionò la sua opera multidisciplinare nel punto in cui Minimalismo e Pop si intersecano. È una maniera che ha per così dire addomesticato le forme delle allucinazioni di tutta una vita, dilaganti e senza limiti. Oggi quegli stessi concetti e processi psicologicamente lenitivi non producono più le opere complesse che associamo all’avanguardia, ma la serialità ben collaudata di un celebre marchio di fabbrica – dai monocromi e le invenzioni di eleganti oggetti a pois, fino alle sapienti installazioni di specchi “Instagrammable”. E ciò è comunque interessante.
In due mostre parallele – “Festival of Life”, due spazi della galleria sulla West Nineteenth Street e “Infinity Nets”, in città – non ha conquistato nuovi territori ma al contrario ha esercitato la sua prerogativa di riciclare opere datate in nuovi allestimenti e nuovi schemi cromatici (sebbene un paio di nuovi quadri della serie “Infinity Net”, basi scure sui cui giocano piccoli archi bianchi, richiamino direttamente i lavori rivoluzionari presentati nel 1959 presso la Brata Gallery sulla East Tenth Street). L’ossessione di Kusama per le forme cellulari, così come la visione puntiforme, vengono dalle ore della sua tormentata infanzia passate osservando i ciottoli sul letto del fiume nella città natale, Matsumoto, in Giappone. Le originali reti di infinito acquisiscono così un valore singolare e un nuovo status: è pittura figurativa nella guisa di astrazione, nata dal gesto automatico. I dipinti pieni di colore, realizzati a partire dal 2017 – archi verdi su fondo arancio, o gialli sul viola – sono più felici dei modelli originari. Si gonfiano e si contraggono in forme di densità variabile, nello stesso modo accattivante e collaudato, ma sembrano derivare da raffinamento meditativo piuttosto che da tormentoso delirio. E le luminose palette li collegano ad altri dipinti che Kusama trova comunque il tempo di sfornare, già esposti a Chelsea.
Le 66 tele quadrate della serie “My Eternal Soul”, cominciate nel 2009 e tuttora in lavorazione, irradiano esuberanza maniacale con le loro combinazioni di colori vibranti e le composizioni affollate. Incorporando forme serpeggianti e floreali, pois (ovviamente) e immagini giocose, ogni dipinto è unico. E ancora, il parlare in grande, espresso attraverso la quantità dei dipinti esposti e il loro allestimento a tutta parete (in due sale e sui quattro lati), traduce uno dei suoi assunti principali: che la sua arte è senza fine.
Kusama, riferendosi alle sue sculture di “Accumulazione” e “Aggregazione” degli anni Sessanta – nelle quali poteva coprire un sofà o una barca a remi con falli cuciti a mano o a forma di tubero, o lavorare con pittura spray o pasta secca – una volta scrisse “Il pensiero di mangiare continuamente qualcosa come per esempio i maccheroni, che escono dalle macchine, mi riempie di paura e repulsione, così faccio sculture di maccheroni. Le faccio, le faccio ancora e continuo a farle, fino a che mi seppellisco in questo processo”.
La strategia di affrontare l’orrore della produzione di massa imitando i suoi procedimenti, e usando il suo sforzo controllato così da mitigare gli effetti psichici del capitalismo, è stato forse abbandonato con gli anni, o si è talmente radicato da perdere i suoi contorni. Allo stesso tempo, il tema dell’eccesso è stato assorbito da temi più grandi e onnicomprensivi.
Ci sono poi i suoi grandi progetti, come ”Infinity Mirrored Room” fatto di sfere d’acciaio inossidabile, “Let’s Survive Forever” e “Longing for Eternity”, entrambi del 2017: quest’ultimo è una sorta di bara verticale, ci sono luci scintillanti al LED con cui puoi sbirciare dentro, così che la tua faccia riempie uno spazio buio in un mosaico prospettico caleidoscopico.
Kusama è sincera nel suo desiderio di evocare stupore e delizia, il che è, credo, l’apice filosofico dell’auto-cancellazione momentanea. Anche se forse le piace, come piace a me, la perversione di ricompensare la lunga attesa del pubblico e poi la breve contemplazione dell’infinito solo concedendo a ogni selfie-seeker un’immagine personalizzata di Droste, scattata con un iPhone che segna il punto di fuga, e che rimane per l’eternità, totalmente, nel momento che viviamo.
Articolo originale apparso su
© February 2018, “Yayoi Kusama” by Johanna Fateman.
Traduzione di Cristina Rosati