Per chi ha avuto la possibilità di essere presente all’inaugurazione della personale di Vincenzo Scolamiero, per il Bilotti di Villa Borghese, la prima forte impressione è data dalla vetrata che separa il Ninfeo dalla sala; questa sembra ripercuotersi con la sua forma curva nel dittico della parete di fondo della monumentale aula al pian terreno. Apice conclusivo di una lunga fuga prospettica generata dalla parete perpendicolare, appena varcato l’ingresso.
Il dittico, intitolato “Come un mutevole canto” (2018), insieme all’infilata di opere che ritmano la parete rettilinea, sembra raccogliere queste due spinte convergenti in un unico grande gesto che pervade per intero lo spazio. Due pure geometrie, una retta e una curva, tradotte in una somma di traiettorie che finiscono per attraversare le due tele, trattate come un’unità, con inchiostri e pigmenti ocra, bianco e bruni.
Una diagonale larga e piatta che mentre traccia la sua forza si diparte sulle due superfici, e inclina contemporaneamente il piano parietale per proseguire la sua corsa smaterializzandosi nell’oro del fondo. Un’atmosfera in quel momento scossa dell’azione reale degli elementi.
Il vento e il suo suono perfino, il canto, la poesia, la musica si riverberano nella pittura di Scolamiero. Con un nesso emotivo e sentimentale, consapevolmente scelto e trattato, che emerge sottile e conduce lo spettatore costantemente.
Proprio la musica è il corpo portante di una raffinata e toccante ricerca sviluppata con la compositrice Silvia Colasanti. Scaturita poi nel libro-opera dal titolo: Ogni cosa ad Ogni cosa ha detto addio.– tratto da un verso del poeta Zeichen, e allestito nei corridoi del piano superiore del museo.
Le note della composizione per archi di Silvia Colasanti sono trascritte sulle pagine dipinte da Scolamiero, instaurando un rapporto fra musica e pittura, storia e movimento. Cuore di una speculazione elegantissima fra immagine e suono, che risale all’idealismo tedesco, alle teorie calssico-romantiche, ai diari di Delacroix e ai suoi colloqui con Chopin, forse. Sicuramente fino a quel formalismo di derivazione kantiana, intriso di quelle componenti neoplatoniche, che proprio nella musica videro il mezzo per giungere al valore mistico della creazione. E svincolare la pittura verso le alte sfere dell’etere, dei corpi celesti, e approdare finalmente nel territorio dei concetti puri, nel luogo sovrastante dell’idea, al pari della religione.
Ora, la pittura di Scolamiero percorre evidentemente tutti i principali paradigmi dell’astrazione – gestualità, materia, segno, e ogni grado di lirismo espressionista -, eppure vi è in essa l’evocazione proprio di una realtà oggettiva che si muove continuamente fra due grandezze: una concreta, di prossimità, terrena, tangibile, e una assoluta, spirituale, alta, immateriale. E non c’è conflitto. Come se l’astrazione si servisse dei suoi assunti, per approdare a conclusioni opposte ma complementari, e generare una possibile coincidenza fra figurazione e astrazione. Tanto che lo spazio umano e lo spazio cosmico convivono senza estraneità.
Così, nel passaggio da un ambiente all’altro della mostra, la sensazione, – seppure si è difronte a una pittura “non-figurativa” -, è quella di vivere una osmosi con la natura circostante. E si avverte la presenza fisica del parco dentro gli spazi per lo più chiusi del museo. Come se le opere ne avessero assorbito i vapori acquei, l’impronta, lo spessore organico proprio di una massa viva. E mentre la tela si bagna nelle densità circostanti date dalla vegetazione, dal fogliame, dalle essenze arboree che sembrano balenare nelle forme dipinte, il riquadro come un grande tassello geometrico, al contempo, definisce lo spazio. E lo fa dentro un limite matematico, ordinato, composto da leggi severe. Come fossero frammenti radiografici, lastre di una microscopìa ottica, entro cui il campione di spazio analizzato si muove, e l’osservatore rispetto ad esso, in un processo cinetico incessante.
Vincenzo Scolamiero è un maestro dello spazio. E sembra operi alla regia di una rappresentazione complessiva, che dall’interno del quadro fuoriesce, o sprofonda, dipende.
Si serve di una pennellata larga di superficie, trasparente, spesso su fondo scuro, nero assoluto. Un nero profondo. Come nel ciclo della project room, ritmata come uno spazio sacro, di una sacralità aconfessionale ma evidentemente cercata. E che si trova nella disposizione stessa delle tele, simmetriche rispetto a una grande opera centrale e verticale. La pennellata costruisce con una funzione architettonica le tele. Ma se da una parte la pittura struttura lo spazio interno del quadro, contemporaneamente agisce sugli ambienti circostanti e ne amplifica gli effetti.
Nelle opere di Scolamiero lo spazio sembra dondolare, oscillare e moltiplicarsi fino ad assumere la qualità estetica di un diagramma che traccia un piano, o più piani, in un reciproco movimento che a tratti assume il tono di una meditazione.
Ma sono anche gli impianti scenografici dei grandi registi del barocco, sono gli spazi curvilinei e le forme aperte dalle diagonali, sono i moti ascensionali. E’ l’infinito, la forma ovale. O forse un semplice lento scivolare di carte spazzate dal vento. O forse sono le stringe che disegnano sottili architetture, che si susseguono secondo le linee andamentali, aprendosi in forme a ventaglio, nella forza che l’autore imprime con la lieve pressione del braccio a cui segue la materia pittorica sulla superficie. Forse è quel che resta della Deposizione Vaticana, quell’unico e solo ritmo diagonale e curvilineo di quelle membra, di quei piedi, di quelle gambe, e delle braccia ma in cui si flette tutta la sequenza del corpo intero della natura, e dell’umanità inclusa, fra loro legate, dal buio alla luce. Perché tutto inizia solamente dall’infinita potenzialità del linguaggio musicale, quando il suono diventa visione: “Come il cielo alla terra legati”.
Vincenzo Scolamiero vive e lavora a Roma. E’ docente di Anatomia Artistica presso l’Accademia di Belle Arti di Roma.
La sua tavolozza tende al monocromo, usa prevalentemente il bianco e il nero, meno frequentemente il rosso, e talvolta il rosa.
Vincenzo Scolamiero, Della declinante Ombra, curata da Gabriele Simongini per il Museo Carlo Bilotti, Roma.
– visitabile fino al 09/06/2019 –