Assassinio del pittore Che ci fanno due bambini di colore rosso sangue con un machete dietro la schiena accanto a un uomo visto di spalle, con tanto di berretto, non si capisce se intento a fare pipì o a dipingere un murales? Ma è ovvio. Aspettano che si volti verso di loro per ucciderlo o evirarlo. Hanno, in altre parole, quello che Andrea G. Pinketts definì in un suo romanzo “il vizio dell’agnello”, vale a dire la cattiveria dei buoni che, quando si manifesta, è devastante. La stessa sperimentata dall’artista ogni qual volta appare un suo lavoro: “è scandaloso”, “è orribile”, “ha di sicuro un fine commerciale”. E noi ancora a chiederci perché Banksy non ci riveli il suo volto, né si lasci trovare.
Peter Pan L’essenziale, scrive Sant’Exupéry nel Piccolo Principe, è invisibile agli occhi. Non è strano perciò il nostro non avere un’idea precisa di chi sia il personaggio di Banksy: i suoi stencil sono ombre, rimandano sempre a una luce lontana, che non sta dentro le figure ma fuori; attinge cioè a quell’universo di storie che gli uomini di tutti i tempi e luoghi hanno in comune, non foss’altro perché se le sono sentite raccontare da bambini. La storia di questo fanciullo, di chiunque si tratti, è un racconto compreso tra il viaggio, la visione e il volo. Lo dichiarano espressamente i simboli presenti nel lavoro: una valigia poggiata al suolo, un cannocchiale da cui il fanciullo guarda lontano e, sul cannocchiale, un uccello appollaiato. Non proprio un uccellino: potrebbe trattarsi di un pappagallo, l’animale preferito dai pirati, o di un corvo. Come quello – si chiamava, se non ricordo male, Salomone – che in Peter Pan e i giardini di Kensington riceveva la supplica delle donne che volevano diventare madri e, per consolarle, inviava loro degli uccelli che una volta giunti a destinazione si sarebbero trasformati in bambini. Peter era appunto uno di questi. Per un caso non saprei fino a che punto sventurato, la sua madre adottiva aveva lasciato aperta una finestra, e il corvo Peter ne aveva approfittato per ritornare all’isola degli uccelli: qui sarebbe rimasto per sempre, non più uccello né bambino, quindi capace di vedere il mondo, ma solo da lontano. E tuttavia nei giardini di Kensington, e cioè nel nostro tempo, Peter vuole tornare. Perciò ha chiesto un passaggio a Banksy, che gli ha prestato la sua vernice e il suo cartone.
Lucy In un film di Besson di una decina d’anni fa, Lucy, la protagonista omonima, interpretata da Scarlett Johansson, era una superdonna che, grazie alla casuale assunzione di un enzima, realizzava un sogno: sviluppare le capacità del suo cervello al di là di quel dieci per cento di cui, a quanto pare, facciamo uso abituale. Nella finzione filmica, man mano che l’enzima esercitava il suo effetto, Lucy acquistava poteri straordinari: i suoi pensieri diventavano immediatamente cose. Persino lo spazio e il tempo venivano trascesi sino al punto di rendere possibile un faccia a faccia tra la Lucy ‘potenziata’ e la scimmia antropomorfa di tre milioni di anni fa che, secondo alcuni, dovrebbe essere il nostro diretto antenato. Incontrando la Lucy delle origini, la Lucy del presente le donava tutto il suo sapere, toccandole un dito come Dio Padre fa con Adamo nella Cappella Sistina. Da allora la storia cominciava. Nel lavoro di Banksy, ad incontrare Lucy siamo noi. Ci accade quando, seduti in un McDonald’s, ci viene incontro una cameriera scontrosa che non ha affatto i capelli fluenti, gli occhi azzurrissimi e gli zigomi sporgenti della Johansson. È la scimmia di sempre: bassa, pelosa, poco avvenente, almeno per gli standard attuali. E, come se non bastasse, da libera abitatrice degli alberi, degradata a schiava: del lavoro, come del cibo commerciale. Altro che dieci per cento del cervello. Non poteva toccarle destino peggiore.