Premiato all’Oscar Pomilio Forum, Daniel Libeskind architetto polacco naturalizzato americano, ha tenuto una lecture all’Aurum di Pescara presentando tre progetti (il Museo ebraico di Berlino, il Museo di Dresda e Ground Zero a New York).
La motivazione del premio:
Daniel Libeskind ha, più di ogni altro, dato forma ad un’architettura capace di identificare comunità, culture e sensibilità estendendo il concetto stesso di progettazione architettonica a quello di media identitario e duraturo, interprete vero di una visione alta e positiva del genere umano, che trasforma in vocazione etica la sua ferma nobilitazione.
È stata l’occasione per il nostro Andrea Mammarella di rivolgergli qualche domanda.
Andrea Mammarella. Mister Libeskind, la sua lecture – come era lecito attendersi – è stata ricca di suggestioni e di spunti di riflessione.
Una delle questioni più interessanti su cui la sua opera spinge da sempre a meditare riguarda il rapporto tra architettura ed engineering, tra significato dell’opera e le possibilità costruttive che ne permettono la configurazione. Un tema, del resto, tutto contemporaneo e ampiamente globalizzato.
Se in un primo momento le conquiste dell’ingegneria e della tecnologia (strutturale, impiantistica, prestazionale…) hanno aperto le porte ad una nuova stagione di creatività architettonica che ne ha saputo sfruttare le inedite potenzialità e possibilità costruttive, man mano che ci si addentra nel ventunesimo secolo, si ha la sensazione che l’incessante – e prolifico – trasferimento tecnologico dello scorso secolo sia esploso ormai in una permanente e pervasiva condizione di illimitata possibilità che, se da una parte, offre all’architetto gli strumenti di realizzare pressoché qualsiasi figura da lui immaginata, da un altro punto di vista, gli riconsegnano in blocco il compito di definire e raffigurare i caratteri più profondi e autentici della società in cui è chiamato ad operare.
Daniel Libeskind. Penso tu abbia ragione. È un tema su cui riflettere. Si tratta di una condizione abbastanza nuova, specialmente per quanto riguarda la ricerca di una nuova forma di equilibrio tra le possibilità tecnologiche degli edifici intelligenti, quelle della cosiddetta smart city… che vanno riportate all’interno di una sorta di nuova narrazione che riguarda le nostre società, in cui le persone possano davvero riconnettere la distanza tra la tecnologia da una parte e la tecnica delle costruzioni da un’altra. Questo è davvero un ottimo punto su cui riflettere.
AM. Gli architetti oggi devono tornare ad occuparsi di stili, forme, bellezza..?
DL. Si, certo. È propri così ed infatti vediamo che costruire edifici intelligenti non significa automaticamente costruire edifici sostenibili. Perciò questo è molto vero.
AM. Possiamo dunque dire che si sta riaffermando una idea di architettura che mette al centro i temi della figurazione, della semiotica..? Un tema per certi versi, scivoloso..!?!
DL. Beh, la verità è che per dare un senso esistenziale alla vita delle persone c’è bisogno di avere dei significati, dei messaggi. Il messaggio non può mai essere eliminato, anche se le stesse persone lo volessero. C’è sempre un significato nell’incontro tra le persone nei luoghi in cui vivono e questa condizione ci sarà sempre, a prescindere dall’ambiente in cui ci si trova. Le persone continueranno sempre ad incontrarsi e a dialogare tra loro. Questo rappresenta per me una nuova forma di consapevolezza che ci fa capire che la sola tecnologia non potrà mai risolvere i problemi. Resta e resterà sempre una sorta di riflesso di ciò che è stato costruito e di ciò che potrebbe essere realizzato.
Per questo, davvero, quello che dicevi prima è giusto. Il significato, il messaggio insito nell’architettura è un valore necessario per gli esseri umani.
AM. Oggi più che mai..?
DL. Più che mai, particolarmente in questa nostra società che si restringe sempre di più in termini di possibilità, il messaggio dell’architettura diventa sempre più importante. Il posto in cui vivi, la tua strada, il tuo vicinato, la tua finestra… In particolare, via via che le città si fanno più dense, più affollate e più interconnesse, aumenta il bisogno per le persone di trovare dei significati; per il loro modo di vivere, il loro modo di essere, per come intendo collegarsi al loro ambiente… Tutto questo è decisamente vero.
Soprattutto nelle grandi città. Sto lavorando attualmente in molte grandi città in giro per il mondo e dovunque c’è sempre lo stesso problema: con intensità sempre crescente, le persone si chiedono come vivranno. Cosa faranno? Come riusciranno a trovare qualcosa di bello? Come potranno trovare un senso nell’ambiente che li circonda?
È una domanda globale. Senza dubbio.