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Un posto assicurato. In dialogo con Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona

Palermo è stata per secoli una grande capitale europea. I suoi palazzi, simbolo di magnificenza e di grandezza, ne sono la prova. E tuttavia molti di essi, dopo i bombardamenti della Seconda Guerra mondiale, giacciono ancora in abbandono, alcuni addirittura in macerie. Tu sei stato uno dei pochi a credere nel loro potenziale, investendo energie, tempo e risorse in progetti di recupero.

Ci ho provato ma non ha funzionato. Per Palazzo Costantino e Palazzo Di Napoli ai Quattro Canti, estesi qualcosa come 10.000 mq, avevo già stipulato un contratto per la realizzazione di un albergo d’arte, ma i quattro anni e mezzo che sono occorsi per il cambio di destinazione d’uso e le concessioni edilizie mi hanno indotto ad attuarvi ciò che sentivo essere la mia vocazione. 

In una parola, non hai attivato operazioni imprenditoriali o commerciali, ma di promozione artistica. E senza ritorni economici.

Esatto. Ho iniziato a promuovere mostre di arte contemporanea perché solo attraverso lo sguardo e la sensibilità propri dell’artista è possibile incidere nella storia secolare di una città come Palermo. Nel 2010 con Per Barclay abbiamo realizzato la “oil room”, un salone completamente allagato il cui soffitto si rispecchia su una superficie nera e traslucida di olio industriale. Una soluzione formale che affonda le radici nel mito di Narciso: solo rispecchiandosi è possibile riconoscere sé stessi. Nell’installazione di Per, una lamina nera inghiotte il furore vorticoso della battaglia dell’affresco della volta, la tensione manierista dei corpi e i muscoli dei cavalli di Velasco, la sua bellezza aggressiva e decadente. Già dal 2000 molti artisti ogni anno si aggregano ai Quattro Canti per celebrare Santa Rosalia e interpretarne il significato simbolico. In parallelo a palazzo San Giuseppe, in Via Sant’Agostino, ospito Dimora di OZ, un laboratorio per la promozione di artisti talentuosi dove creare, confrontarsi, esporre e vivere. 

Hai condotto a Palermo anche Jenny Saville.

Jenny Saville, nel suo periodo palermitano, realizzò su committenza della mia famiglia The Atonement study, un trittico per la sconsacrata Chiesa del Giglio, da trasformare in un luogo di arte e meditazione in senso laico su modello della Rothtko Chapel a Huston e della chiesa progettata da Matisse in Provenza. Su questa scia Massimo e Francesca Valsecchi hanno trasformato Palazzo Branciforte di Butera in un museo, e lo stesso hanno fatto Annibale e Marida Berlingieri con Palazzo Lanza di Mazzarino.

Sono nomi che parlano da soli. E che dire di Massimo Bartolini, l’artista che rappresenterà l’Italia nel 2024 alla Biennale di Venezia curata da Luca Cerizza. Già cinque anni fa hai “scommesso su di lui”.

Sì. Mi ha sempre interessato la sua ricerca sulla relazione tra uomo, natura e spazio architettonico e ho pensato che il tema antico dell’abitare da lui indagato potesse essere idoneo a far rivivere palazzo Oneto, rimasto inabitato da un secolo!

Palazzo Oneto: la meglio conservata tra le tue dimore palermitane. Che genere di lavoro vi ha presentato Bartolini?

Una colossale installazione ambientale che ha reiventato e invaso totalmente gli spazi del palazzo. Un lavoro connesso al territorio e alla sua storia, in particolare alle dinamiche sinistre dell’Inquisizione. “Caudu e fridu sentu ca mi pigla / la terzuri tremu li vudella / lu cori e l’alma m’assuttiglia”: così recita un graffito ritrovato sulle pareti delle celle dello Steri, il palazzo fortificato dei Chiaramonte in piazza Marina, sede dell’Inquisizione a Palermo. La scritta fa riferimento alle febbri terzane che colpivano i detenuti e all’animo travagliato di una donna che stava per essere condotta al rogo. Queste parole, tracciate con mezzi di fortuna e talvolta situate in punti delle segrete non visibili alle guardie, nel lavoro di Bartolini diventano una scritta al neon rossa, quasi un urlo fragoroso che viene dal silenzio. Come la luce di un’insegna che esplode nella notte, si fondono con gli elementi che compongono l’apparato decorativo del palazzo: complesse composizioni in stucco di Procopio Serpotta e sontuosi affreschi di Gaspare Serenario, massima espressione artistica siciliana del Settecento. Così scriveva la curatrice Claudia Gioia – Fondazione Volume, nell’ambito degli eventi collaterali della biennale interazionale Manifesta 12: “Luminarie spente attraverso cui intravedere la struttura forte dell’interno di Palazzo Oneto. Storia e transitorietà si rincorrono nei chiaroscuri di ombre reciproche così come le domande su chi ha spento le luci e su chi potrà riaccenderle e per quali nuove visioni. Spento e silenzio opposto alla luce calda e rossa da un altrove laterale fatto di memoria riscritta con parole di neon per arrivare a noi dai tempi arbitrari dell’Inquisizione. La quiete a luce spenta, la paura con la luce, un ossimoro che attraversa il progetto di Bartolini, così come il nostro tempo, per un invito a pensare alla luce e alle parole oltre l’apparenza”. 

Hai definito sinistre le dinamiche dell’inquisizione; eppure è stato proprio un tuo antenato, Ferdinando II d’Aragona “Il Cattolico”, a inviare, in Sicilia, nel 1487, i primi inquisitori delegati.

Palazzo Oneto, però, è stato lo scenario della vigorosa opposizione all’Inquisizione di Marcantonio Colonna, che per tale ragione fu convocato da Filippo II in Spagna dove morì misteriosamente, forse avvelenato dalla stessa Inquisizione. Il palazzo era infatti la casa di famiglia di Eufrosina Valdaura del Miserendino, che al Colonna fu legata da un rapporto tormentato: storia d’amore e di morte raccontata da Leonardo Sciascia e da Stendhal. Un altro mio antenato, fortunatamente, ha pareggiato i conti con l’Inquisizione, abolendola in Sicilia nel marzo 1782. Era Domenico Caracciolo, Viceré di Sicilia, antenato di Enrica Caracciolo di Nicastro, baronessa di Serradileo, mia trisava da parte di nonna, reduce dalle frequentazioni illuministiche parigine.

Tornado all’arte, se dovessi tracciare un ideale curriculum di Massimo Bartolini, che cosa scriveresti?

Massimo è un artista eclettico, un abile sperimentatore di tecniche e linguaggi.  Il suo lavoro attiva sempre nuove suggestioni, che muovono da un’intensa ricerca nei confronti dello spazio e di come esso viene percepito. L’artista prende in prestito oggetti d’arredo di uso comune per modificarne la funzionalità, al fine di creare nuovi significati che spesso mettono in crisi la comune percezione dell’ambiente e degli oggetti stessi. Oggi è considerato uno degli artisti italiani più significativi con mostre personali nei più importanti musei di tutto il mondo.

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