Al SALT Beyoğlu, spazio tra i più interessanti e esclusivi del panorama artistico offerto da Istanbul ai suoi abitanti e ai milioni di turisti che ogni giorno attraversano il suo Viale dell’Indipendenza (İstiklâl Caddesi) in cerca di qualche svago, è possibile perdersi – l’ingresso è gratuito – tra una serie di progetti preziosi e grandiosi che non lasciano certo a bocca asciutta ma anzi invitano a riflettere su alcune tematiche o anche su alcune personalità del mondo della politica e della cultura davvero seducenti per il loro temperamento, per la loro forza di volontà, per il loro sguardo rivolto verso il futuro.
Uygun Adım Marş! (Forward, March!), la doppia personale di Maria Andersson e Nancy Atakan organizzata al piano terra di questo magnifico museo, è come una palestra estetica, un ambiente limpido in cui le opere dialogano tra loro per plasmare uno spazio che, sotto la stella protettrice dell’arte, diventa centro sportivo, apparecchio dove lo spettatore è invitato a entrare, a giocare una partita meditativa tra il passato e il presente, tra i vecchi modelli ottomani e il vento di modernizzazione la cui forza ha portato la Turchia a una nuova luce, a una nuova ricchezza, a un nuovo modo di fare, di pensare, di vivere.
Legata alla figura di Selim Sırrı Tarcan (1874-1956) che in tempi non sospetti ha avuto la visione di disegnare, attraverso l’educazione fisica, un brillante scenario dialogico tra il suo paese e il resto del mondo (Tarcan ha fondato il Türkiye Milli Olimpiyat Komitesi / Turkish National Olympic Committeee ha aperto la strada dello sport al mondo femminile), l’esposizione è il resoconto di un avvincente progetto di ricerca portato avanti da Andersson e Atakan sin dal 2012, anno in cui nasce una collaborazione tesa a edificare ponti magici tra tecniche atletiche e trame folcloristiche, tra sforzi fisici e sistemi sociali innovativi.
Assieme a una serie di lavori che ricostruiscono la vita di Tarcan (del politico, dello scrittore, dell’educatore impegnato a riscattare il suo paese – l’esposizione si apre con un suo libro del 1940, un prezioso diario di appunti, Şımalın. Üç irfan Diyarı. Finlandiya Isveç Sanimarka) per orientare via via il discorso tra le parabole del femminismo, dell’identità e della memoria, in questa esplorazione non ancora conclusa le artiste fissano l’attenzione anche sul privato dell’uomo: e in particolare sul padre di due ragazze, Selma (Mimaroğlu) e Azade (Kent), ambedue impegnate nello sport tanto da diventare eccellenze, rispettivamente pioniere nella danza moderna e nella ginnastica terapeutica. Se Maria Andersson, mediante la rilettura di Selma e della sua vita sottopone infatti allo sguardo dello spettatore attento il movimento di un corpo inteso come strumento essenziale per avviare i cambiamenti sociali, Nancy Atakan punta dal canto sulla sorella maggiore, su Azade, e questo per elaborare la scansione di un sondaggio sulla donna, sulla figura femminile impegnata nell’ambito dell’allenamento, del processo di organizzazione muscolare, dello sforzo di esistere, di mostrarsi fisicamente, ma anche e soprattutto psicologicamente nel mondo.
Quasi a creare una cucitura o un raccordo tra Uygun Adım Marş!(Forward, March!) e Aslına Sadık Kalınmıştır(Replica of the Original), il lavoro di Nancy Atakan si fa centrale – eleganti i pezzi della serie Talisman, 2012 – anche al primo piano del SALT, dove sembra orientare e scandire l’impaginazione di una collettiva tesa a far rivivere il passato mediante oggetti o cose, a far riaffiorare vecchi ricordi tramite mancanze e vuoti di figure umane, erotiche sottrazioni di corpi.
Kader Attia, Handan Börüteçene, Cansu Çakar, Aslı Çavuşoğlu, Mark Dion, Haris Epaminonda, Iman Issa, Laure Prouvost, Pak Sheung Chuen e Dilek Winchester sono, assieme appunto a Nancy Atakan, i protagonisti di questo secondo momento più strettamente collettivo che si concentra sulle pratiche artistiche legate alla storia e all’archeologia, territori da cui traggono benefici, da cui assimilano dati per ripristinarli, riattraversarli, finanche reinventarli. Qui non tutte le opere sono all’altezza giusta (quella di Attia è davvero “piccola cosa”), ma basta guardare le fotografie di Handan Börüteçene della serie Kendime Gömülü Kaldım / I Remained Within Myself(1999-2014), ambientate tra Istanbul e Venezia, o Dig Culture(2011) di Mark Dion, installazione commissionata all’artista in occasione di Scramble for the Past: A Story of Archaeology in the Ottoman Empire, 1753-1914, la mostra di apertura al SALT Galata, per perdersi in un mondo metalinguistico, dove il tempo si ferma e lo spazio del SALT pare lasciare intravedere trasparenze inconsuete, straordinarie velature antropologiche, irresistibili venature che hanno il gusto chiaro della memoria, di quello che è stato e che mai più sarà.