Viveva una volta un poeta sapiente: conosceva tutte le lingue, sapeva i segreti della natura e possedeva una stanza piena di libri. Tra gli altri, c’era un libro molto prezioso, che il poeta teneva fissato a una tavola per mezzo di una istallazione: era un grosso volume rilegato in pelle nera, chiuso da un fermaglio al quale era attaccata una robusta USB. Esso conteneva tutti i segreti riguardanti le cyberetoriche, gli spiriti buoni e cattivi, le parole ricercate, le soluzioni grammaticali, i cyberlettrismi, i cyberfonetismi, i cyberteatrismi, i performismi, le meta-litote, le para-metriche, le prosodie, le sillabe, i dittonghi, le elisioni, le sinalefe, i monosillabi, i sostantivi, le consonanti,i polisillabi, i verbi, le sistole, gli esametri, i dattilici, il pentametro digitale e analogico, le cesure secondarie e primarie, capaci di richiamare gli estetismi più sordi, per costringerli a comporre poesie.
Nella casa del poeta viveva anche una sua assistente; un poeta più Vecchio gliela aveva affidata perché la istruisse nelle sue arti visive, ma l’artista visiva era tanto capricciosa che gli anni passavano e nemmeno quel gran sapiente italiano era riuscito a cavare qualcosa dalla sua testa bloccata per traduzioni impossibili e strategie di occultamento letterario. Il poeta più vecchio aveva pregato il poeta più giovane: tenetela almeno con voi come sviluppatrice dei Fantasmi Fotografici, così sarà utile a qualcosa! La fotografa multimediale poteva entrare nella stanza dei libri, degli scritti originali, degli archivi e delle raccolte e le Antologie inedite solo per fare pulizia dello scrittoio digitale, inserire qualche anti-virus nel pc e il Maestro, naturalmente, non le aveva mai permesso di accedere al Libro dei Libri, né di toccare i Quaderni di appunti che si trovavano in ‘altra stanza’, anche quella sempre chiusa.
Un giorno lo Sciamano dovette allontanarsi da casa per raggiungere – all’improvviso – un reading di Poesia e dimenticò di chiudere tutto a chiave, come faceva sempre.
La foto/performer, influenzata dai suoi capricci di onnipotenza, approfittò dell’occasione per entrare nella stanza e incominciò a toccare i quaderni, fermò lo sguardo sulle litote, trascrisse carnet e foglietti, fotografò gli appunti, il dizionario plurilingue che cambiava le parole in magiche poetiche e in sottili similitudini, le note numerate che, accostate l’una all’altra,permettevano di comporre e di ri-pronunciare i versi da persone lontane, riprodurre libri che lasciavano vedere sulla loro lucida superficie dadaismi e verbo-visivismi. Ma per quanto la fotografa cercasse di imparare a memoria i gesti, le parole, le frasi, i distici che aveva visto fare tante volte dal Maestro, niente succedeva: sulla macchina fotografica passavano soltanto immagini confuse, dal registratore uscivano suoni indistinti, i fantasmi rimanevano fantasmi e il logos della frase, “in cerca di veri indugi”, era irraggiungibile:
Ho capito! – esclamò, disperatamente, la Signora Multiprogrammista in fieri. – Bisogna che cerchi le parole giuste che necessità pronunciare per poi capire e articolare altre parole giuste che sarebbe utile: leggere, diffondere, recitare. – E andò nell’altra stanza, dove il libro retto da quella formidabile architettura, da quella trasparente Torre delle Lingue,era rimasto aperto sul leggio.
Le pagine erano scritte in un tratto che la fotografa non conosceva, non ne conosceva la chiave fonetica e soprattutto confondendo fonema e monema ignorava quella sintagmatica ed era priva di attrezzature linguistiche; la sua ambizione era quella di marcare stretti i poeti senza percepirne l’essenza,saccheggiarli, riprodurli e poi abbandonare i resti letterari a peggior vita. Si dava il caso che, alcune forme poetiche sembravano trascritte con inchiostri speciali, a cui gli occhi dei fotografi e dei Diplomati all’Accademia di Belle Arti non potessero accedere oltre a caratteri “rosso sangue”.
Immediatamente la stanza piombò nell’oscurità, la casa sembrò scossa da un terremoto e dopo un rombo spaventoso comparve la luce accecante di un vecchio computer che aveva riavviato i programmi di salvataggio. – Che cosa vuoi da me? Chiese il Domotutorial del pc avviando un programma di rimessaggio denominato “Memorial”. Poi gridò più forte: perché mi hai chiamato? Ora comanda! – Al colmo del terrore, la fedifraga fotografa si guardò intorno, smarrita, e disse la prima cosa che gli venne in mente: indicando un quadernetto di appunti del poeta, balbettò:dettami quelle parole, aiutami a decifrare la traduzione di quel piccolo gruppo di distici, di aforismi et alias! In un lampo la luce fosforescente dello schermo sparì, ma eccola immediatamente di ritorno, facendo comparire sullo schermo un architettura di algoritmi incomprensibile, che incominciò ad inondare tutto lo schermo; poi si spense e si riaccese di nuovo e continuò a fare così algoritmo per algoritmo. Gli algoritmi si spandevano dappertutto, su tutti gli schermi della casa, ma l’intermittenza non smetteva un attimo di andare e venire, perché la fotografa non conosceva le lingue, non amava le sintassi, non aveva nessuna seria passione per i poeti e quindi non conosceva i codici, i valori,le sensibilità per trasformare gli algoritmi e per far annullare l’intermittenza e mandarla via. – Basta,Basta! – gridava invano la povera tardona, senza ottenere nessun risultato. E, continuando a indicare esempi sintomatici in altri ambiti fotografici e cinematografici i tentativi rimanevano vani!
In breve, tutti gli schermi della casa furono allagati di Algoritmi, senza capo ne coda, cifre e lettere spezzate che non erano in grado di evocare neanche un quadro di Giuseppe Capogrossi si stendevano lungo le caviglie della malaugurata,poi si issavano al petto e crescevano, crescevano,crescevano, perché gli schermi ne travasavano sempre. Lo schermo, di lì a poco, avrebbe continuato a versare pacchi di algoritmi incomprensibili,allagando l’intero WWWeb, se a un certo punto il poeta non si fosse ricordato di essere uscito dallo studio lasciando tutto aperto. Si affrettò, perciò a far ritorno e trovò la fotografa con gli algoritmi che gli avevano tatuato tutto il corpo, gli schermi con i loro riflessi violacei avevano protetto la poesia ed avevano restituito fantasmi di algoritmi, le cifre gli arrivavano ormai alla gola, senza fargli pronunciare un solo fonema; era più morta che viva per lo spavento.
Ma il Maestro conosceva il misterioso logos e appena ritrovò i segni, inserì, le tracce di quelle interlinee, nel pc,fino a che le intermittenze scomparvero tutte in una scia glottolalica e i versi cominciarono a sistemarsi nei loro ditirambi, limandosi rapidamente.