Dopo la visita all’Arsenale il senso complessivo della mostra appare più chiaro e comprensibile. Come indicato dal Rugoff, infatti, sarebbe stato più opportuno visitare prima le corderie ma, aldilà di questo aspetto resta il fatto che questa Biennale non ha soddisfatto pienamente le nostre aspettative. Brevemente cerchiamo di capire perché. Bisogna prendere atto che – oramai da almeno dieci Biennali – nel mondo dell’arte tutto è possibile. Pertanto superato il concetto evolutivo stesso di arte (nonostante la critica stessa faccia fatica a liberarsene), si assiste a Biennali tematiche sempre più simili fra loro, sempre più aperte all’antropologia e a vari linguaggi ed in cui gli argomenti diventano dei meri pretesti. Non è possibile pertanto giudicare l’arte senza tenere conto della complessità dei tempi in cui viviamo. È una Biennale interessante? Nel senso cinese che il termine del falso proverbio indica, la risposta è si… sono tempi conflittuali dove natura e artificio si combinano con sguardi spesso poco rassicuranti. A spiegare tutta la Biennale basti l’opera video di Christian Marclay (già vincitore nell’edizione 2011) composta da 48 film di guerra proiettati in sovrapposizione all’infinito che si potrebbero indicare quasi come il vero manifesto di questa Biennale. Inoltre, ed infine, molte opere ci paiono peccare di banalità, se vogliamo, nel raccontare questa complessità. Per converso altre meriterebbero di certo maggior respiro.
Il Padiglione Italia? Un vero labirinto che tale resta e resterà.