Ancora pochi giorni per poter apprezzare, alla galleria Bonelli nella sua nuova sede di Milano, la mostra Stazione Inganni. Una mostra che affronta il tema della mimesi, dell’inganno e dell’illusione attraverso i materiali, le tecniche, gli oggetti e quindi le ricerche artistiche di autori più che noti, stimati e affermati nel mondo dell’arte. Inaugurata lo scorso 22 marzo, in questa mostra gli artisti giocano con l’idea di vero falso e di falso vero, distinguendo e mischiando le due categorie, disorientando oppure stabilendo un patto con l’osservatore.
Lo instaurano Aldo Mondino, Piero Gilardi, Pino Pascali e Vik Muniz, in cui la riproduzione della realtà naturale o artificiale si sposa con una sperimentazione nelle tecniche e nei materiali, industriali, plastici o di scarto. Ciò che si vede è, nello stesso tempo, ciò che sembra, ciò che riproduce e ciò che è. L’artista rivela il camuffamento, poiché è sufficiente avvicinarsi all’opera per accorgersi che le frange dei tappeti sono di eraclite, i tronchi sono soffici, i bachi – come il gioco di parole del titolo annuncia – oltre che sovradimensionati sono degli spazzoloni e le scene di Muniz sono di cioccolato. Sostanza e apparenza sono ben distinte, si tratta di una similitudine, non di una metafora.
Davide Nido, Liu Bolin, Andrea Galvani, Bruno Munari e Wim Delvoye sono meno sinceri. Li immagino sbirciare le reazioni dei visitatori, essere delusi davanti al passo veloce e senza indugio e sorridere nel catturare il momento in cui viene acquisita la consapevolezza dell’inganno. L’occhio attento coglie un elemento di estraneità nelle opere, ma è parte della loro essenza l’idea di simulacro ed è ciò che le rende ipnotiche, quasi letteralmente nel caso dei pois collosi di Nido e della curva senza tangenti di Munari, la cui ricerca, legata agli studi di ottica e cinetica, è correlata a una riflessione sugli effetti della percezione.
Mentre Liu Bolin si mimetizza, trasformando il proprio corpo in una tela camouflage, Galvani nasconde l’artificio tra la natura, la geometria nell’irregolarità e Wim Delvoye simula la fragilità delle ceramiche di Delft sull’acciaio delle seghe circolari, riposte in una credenza. Costruiscono una messa in scena per simulare o dissimulare l’esistente, in alcuni casi utilizzando come medium la fotografia, idealmente legata a uno sguardo oggettivo sul reale. Oggettivo, ma filtrato ed è l’introduzione di questa distanza che permette uno scarto rispetto all’esistente.
Si è parlato di sperimentazione, ma questa condizione non è essenziale perché vi sia mistificazione. Lo dimostrano i lavori di Michelangelo Galliani e Antonio Trotta, inequivocabilmente legati alla scultura e al più classico dei materiali, il marmo. Abbinando la scelta di una pietra nobile alla riproduzione di oggetti comuni, come gli attrezzi da lavoro e la carta stropicciata, giocano con la tradizione, ironizzando senza rinnegarla.