L’esile filo che tiene avvinta l’immagine della terza dimensione (Td) ha una sua idea ambivalente, di regressione geometrica o di progetto futuro nello spazio della quarta dimensione (Qd): esso unisce in letteratura alcuni aspetti che di quella ambivalenza sono carichi. Si usa in un’opera distinguere la prima, la seconda e la terza dimensione. Parecchi se ne innamorano. Guardano con impazienza l’esperto d’arte che, esaminando un’opera, ne loda il visibile, ma trova l’invisibile discutibile; o il contrario. Gridano subito: “Ecco qua un fruitore, che non sa ancora che la sua ricerca iconica si applica ad una immagine indivisibile. Ad ogni vista la sua forma e la sua dimensione si fa visibile. L’unione dei segni è così stretta che non la si saprebbe scindere. Prima, seconda, terza e quarta dimensione sono due, tre o quattro aspetti complementari di una sola realtà, identica realtà, come il diritto e il rovescio o, piuttosto, l’esterno e l’interno, l’ombra e la presenza di una sola cosa. Quale follia volerli separare”. Ma non è follia, e si troverebbero pochi disposti a dubitare, se i più non fossero interessati alla confusione. Troppo spesso, in effetti, quelli che si ostinano ad impedire che si distingua la forma e la sostanza della terza dimensione sembrano tirare l’acqua al proprio mulino. Poiché, dopo che un’opera a tre dimensioni si presenta, la separazione dello sguardo viene da sé, per “micro-tattilità emotiva”. E se il nostro universo fosse l’ombra di un altro? La possibilità che esistano altre dimensioni oltre a quelle percepite dai nostri sensi ha affascinato scienziati di tutte le epoche. Nonostante possa sembrare impossibile trascendere le tre dimensioni che configurano la nostra esperienza del mondo, gli scienziati hanno dimostrato il contrario, aprendo i nostri occhi su un universo fatto di apparenze spettacolari e oggetti impossibili. Se vogliamo osservare le condizioni compositive, la domanda che sorge spontanea è: cos’è un volume? Il volume è l’estensione nelle tre dimensioni (lunghezza, larghezza, profondità) ed è una caratteristica fisica degli oggetti. Quando dobbiamo disegnare qualcosa, però, ci ritroviamo di fronte alla brutale bidimensionalità del foglio o della tela. Come possiamo rappresentare il volume? L’elemento fondamentale per una rappresentazione verosimile del volume è la riproduzione equilibrata dei rapporti tra luce e ombra. La percezione che abbiamo del volume, infatti, dipende dalle condizioni di luce e dal suo rapporto con l’ombra. Per esempio di notte, quando la luce è molto scarsa, è difficilissimo misurare esattamente le distanze tra gli oggetti e non siamo in grado di calibrare i loro contorni. I metodi usati per raffigurare la dimensione dello spazio pieno e vuoto sono diversi, ma i più importanti sono il chiaroscuro e la prospettiva. Il chiaroscuro è l’uso delle gradazioni di colore o dell’intensità di tratteggio, per rendere il rapporto luce-ombra. Dove batte la luce il colore è più brillante, la separazione tra zone di luce e ombra è molto netta e il volume appare in rilievo. Dove c’è ombra, invece, il colore appare più scuro e opaco. Attenzione, però, a rendere gradualmente il passaggio tra luce e ombra, il confine tra i due è sempre sfumato e morbido. C’è una significativa differenza tra volume reale e volume raffigurato. Il volume reale è quello di fronte al quale si trovano gli architetti e gli scultori: lavorando con materiali plastici e in tre dimensioni, infatti, le loro opere sono dotate di volume reale. Quando uno scultore decide di realizzare un’opera rappresentante un albero, ad esempio, può raffigurarlo a 360°, dedicandosi anche ai dettagli più minuziosi. La dimensione reale in scultura si ottiene con due tecniche distinte, quella dell’aggiungere (nel caso della fusione in bronzo con la fusione a cera persa, ad esempio) e con quella del togliere (da utilizzare per il legno, la pietra e il marmo). Nel caso della scultura contemporanea, le tecniche si sono moltiplicate e possiamo trovare anche opere assemblate o costruite con materiali non tradizionali che vengono accostati, uniti o fusi. Il volume raffigurato, invece, è quello che ci permette di rendere “a tre dimensioni” i manufatti su un supporto a due dimensioni, come il foglio di carta, la parete o la tela. Quando una fonte di luce colpisce un oggetto, si formano due tipi di parte scura: l’ombra propria e l’ombra portata. L’ombra propria è la parte di un manufatto che non è illuminata dalla fonte di luce. L’ombra portata, invece, è quella gettata sul piano d’appoggio, sulla parete o sulle cose vicine. Le tecniche per raffigurare le cose sono tante tra cui la gradazione del colore, il tratteggio: è così che si ottiene il volume raffigurato. La luce colpisce gli oggetti e cambia la percezione del volume. Se vogliamo imparare a rendere tridimensionali i nostri disegni dobbiamo imparare a padroneggiare il rapporto tra luce e ombra. Ritornando alla facoltà conoscitiva del fruitore dell’opera d’arte, in rapporto ad una simbologia oggettivante, occorre chiarire questa apparente contraddizione: se un’opera d’arte è tale in quanto esprime, nel suo contesto generale, un nuovo simbolo, se non addirittura una nuova simbologia, attraverso quale processo mentale il critico, il fruitore di essa, può riuscire ad interpretarla e giudicarla nei suoi valori estetici, dal momento che la propria capacità conoscitiva simbolistica deriva da un «accumulo» di elementi (dimensioni) oggettivanti? La risposta a tale interrogativo non può essere a nostro avviso che questa: l’interpretazione di un nuovo messaggio (di una nuova dimensione; soggettiva per l’autore) è possibile – è perché fa parte di un normale processo mentale di progettazione del percepito. È dunque possibile la decodificazione di ogni nuovo messaggio e di ogni nuova superficie e profondità, ma a condizione che il messaggio stesso, nei suoi particolari costitutivi, sia pronunciato in termini, almeno parzialmente, concretanti. L’opposto renderebbe nulla la decrittazione dell’opera e l’individuazione della terza e della quarta dimensione. Tutto quanto detto finora è stato ampiamente analizzato e, in linea di principio, confermato dalla moderna scienza sociale della percezione e della polidimensionalitá dell’arte. Ma dove conducono queste asserzioni mentalistiche? A concepire un’arte comprensibile ed un’arte incomprensibile, un’arte monodimensionale e polidimensionale; un’arte naturalistica o spiritualistica, imitativa oppure astratta? Certamente no, considerato, come si sa, che l’arte è una sola quando è veramente arte. Cioè astratta e interna alla dimensione che le compete. Ma, astratta nel senso che da essa si svincolano anche valori astraenti indeterminabili (e la parola anche da sottolineare, in quanto implica le concettualizzazioni della moderna psicologia globale secondo cui ciò che più direttamente colpisce il fruitore di un dipinto, di una musica, di un edificio è proprio la parte astratta di esso).
La chiave di tale proposizione, apparentemente di facile interpretazione, richiede un punto d’appoggio nella parola poli-dimensionale; ciò perché tale parola stabilizza implicitamente un canone elaborativo-interpretativo che esclude a priori ogni attribuzione di valori simbolici all’elaborato costituito esclusivamente di elementi soggettivi. Il che dimostrerebbe che l’opera d’arte comunemente ritenuta comprensibile, specie dal grosso pubblico, è invece proprio quella che potrebbe contenere un qualcosa di astratto; nel mentre quella ritenuta astratta, magari in senso assoluto, perché incomprensibile (come quella di Marcel Duchamp), può essere invece «figurativa»-figurativa, in quanto può raffigurare soltanto ciò che riesce a raffigurare. Facciamo un esempio: La tempesta del Giorgione: un dipinto definibile figurativo – e in un certo senso lo è – ossia possedendo moltissimi valori olistici e catartici, può, ed ha ragione, definirsi dipinto simbolico, quindi astratto; di contro un dipinto del belga Henri Michaux, reso con una macchia di inchiostro rosso lasciata cadere su una tela, non possedendo alcunché di astraibile-oggettivabile, potrebbe appunto definirsi figurativo, nel senso che rappresenta ciò che sostanzialmente può, cioè una bella o brutta macchia di inchiostro lasciata cadere su una tela (di astratto semmai avrebbe il titolo). Questo concetto – in apparenza contraddittorio – spiegherebbe anche il perché il profano crede di capire il Giorgione e crede di non capire il nostro riferimento a Michaux: la spiegazione sta nel fatto che ciò che colpisce l’osservatore è proprio quanto di astratto v’è in Giorgione, a renderlo interpretabile (per il profano: comprensibile); viceversa per il pittore belga: e proprio quanto di non-astratto v’è in esso a renderlo inaccettabile (per il profano: incomprensibile). Dunque, l’opera d’arte è tale solo se astratta, nel senso di cui si è detto. In quanto inventiva, progettuale, a volte addirittura anticipatrice del non-ancora-esistente, essa è, in ultima analisi, illusoria (questo è proprio il caso di Marcel Duchamp e di tutti gli orinatoi a venire). Tale asserzione, inoltre, implica un preciso parallelismo concettuale, secondo cui l’utopia andrebbe analizzata alla luce di una volontà formale, di un razionale puro (Kant), per cui l’utopico diviene equipollente creativo dell’elaborativitá estetizzante. Concetto, peraltro, che acquisirebbe una validità estensibile all’intero campo dello scibile: dalla poesia alle scienze, dalla religione alle ideologie politiche rivoluzionarie, dalla filosofia alla matematica. Ma, se è piuttosto agevole pensare alla tavola periodica di Mendeleev o alla relatività di Einstein come ad opere d’arte, lo è senz’altro meno per le ideologie sociali rivoluzionarie ispirate, per esempio, all’altruismo sui generis. Ma è un discorso questo che condurrebbe troppo lontano, e forse anche fuori tema. Formulati, così, i citati presupposti sull’opera d’arte, diremo ancora che per quanto concerne la capacità dell’artista (capacità di estrinsecazione di nuove immagini, o suoni, o di nuove geometrie, volumi, eccetera) questa non può riallacciarsi che agli eterni conflitti interiori dell’essere umano. Ciò spiega perché nell’autentica opera d’arte – anche rappresentata con prevalenza di elementi oggettivati – permane un qualcosa di indecifrabile, impercettibile, di occultato, di profondo da interpretare. Semplice dunque stabilire, sul piano razionale, anche una differenza qualitativa esistente fra l’opera d’arte e l’opera artigianale, anche se non è possibile demarcare dei netti confini tra “azzeramento della dimensione” e “posizionamento dei valori tattili della terza dimensione”, commentata da Simmel. L’arte, come s’è cercato di definire, è creatività (creatività nel senso corrente della parola: razionale sarebbe l’adozione del termine concettuale di elaborazione della questio); mentre l’artigianato è, in linea generale, rielaborazione dell’acquisito. L’arte è ricerca estetico-etico-concettuale, quindi è astrazione; l’artigianato è invece ricerca della perfezione o rielaborazione delle simbolizzazioni ormai divenute oggettive. Ho un’idea molto precisa di cosa intendo con il termine “qualità” ogni volta che mi trovo davanti ad una fotografia. L’idea esatta della profondità si affermò in pittura già nel Rinascimento italiano, possiamo dare ad essa la seguente definizione: “La prospettiva designa un metodo di organizzazione della superficie piana dove tutti gli elementi rappresentati, cielo, oggetti, figure, sono considerati da un unico punto di vista e le dimensioni delle parti sono calcolate matematicamente in base alle distanze tra oggetti e soggetti.” Leon Battista Alberti architetto e umanista (1404-1472), fu il primo a raccogliere le norme prospettiche attraverso la cosiddetta “piramide visiva” sebbene l’arte della profondità di campo non sia un’invenzione Rinascimentale emersa dal nulla. La macchina del tempo ci sposta ben più in là attraverso una teoria di origine nord-africana: un misto tra raggi visivi e regolarità della luce, la figura ci mostra, comunque, che vi è una complicità tra figurazione e vista. È importante essere coscienti del fatto che lo “sguardo” o il “punto di vista” sulla profondità non è slegato da una determinata cultura, le sue basi sono connesse con tutto un insieme di valori cresciuti attraverso un processo di conoscenza collettiva, abitudini politiche ed economiche. Sì, il concetto di profondità, così come lo tratta G. Simmel, è tutto questo, ma anche molto di più. Il mondo reale è privo di immagini bidimensionali, una rappresentazione di due sole dimensioni che non abbia una collocazione spaziale, non è concepibile dalla mente umana. Nella nostra velocissima attualità, l’applicazione delle direttive prospettiche torna intensamente nella street art, con la tecnica definita disegno 3D. La “profondità metropolitana” applicata è quella accelerata, la quale estremizza la visione con l’inganno ottico, l’intuito di questi effetti sorprendenti è possibile soltanto da un punto di vista. Se infatti dovessimo girare attorno all’immagine essa tornerebbe nella sua bidimensionalità. La tecnica di realizzazione del “campo profondo” è molto complessa e necessita dell’uso di corde, convergenti in un punto per la creazione della costruzione di base, poi segue la colorazione che completa la sensazione di tridimensionalità. Nell’arte della pittura, la resa della tridimensionalità in manufatto bidimensionale, è chiamata «Plasticità», cioè la voluminosità di articolarsi nello spazio in modo più o meno accentuato. La si ottiene con vari stratagemmi, con il chiaroscuro, con la diversificazione degli spessori e dei portati delle figure. Già dal quinto secolo a.C. la questione fu affrontata dagli artisti greci, in Italia si studiò il quesito di come la luce possa ravvivare concretamente un soggetto, facendo risaltare un più alto oggettivismo e quindi l’impressione di prominenza (fine del XIII secolo). Molte invenzioni vennero sviluppate da Giotto e Masaccio, fino alla piena comunicazione dei volumi di Michelangelo e Raffaello. In fotografia, è possibile sviluppare il concetto di elasticità plastica attraverso l’impiego di armamentari e con l’ausilio della tecnica. Il punto di messa a fuoco e la gestione della profondità di campo sono di certo gli elementi basilari di applicazione necessari ad ottenere i primi risultati, i quali possono variare in funzione di un’ottica impiegata con l’apertura del diaframma e la distanza del soggetto. La profondità di campo viene definita allungata quando nell’immagine è tutto perfettamente nitido, oppure ridotta quando contrariamente è riconoscibile lo sfuocato ed il punto di fuoco si rende al minimo. Attraverso l’assimilazione della mescolanza e della luce, si può ottenere una variabile percezione di tridimensionalità: sia che scegliamo di realizzare la foto tutta nitida, sia che scegliamo di farla nitida in un sol punto e di sfocare il resto nella maniera maggiore possibile. La variabile aggiuntiva, che può indicare una differenza in questo tipo di ricerca, è la scelta del formato fotografico impiegato. Le macchine fotografiche di grande formato hanno la peculiarità di poter aumentare molto la sensazione di tridimensionalità grazie ai corpi mobili, i quali permettono esaurienti correzioni prospettiche con i movimenti di decentralizzazione, ma anche risoluzioni singolari nella scelta dei piani (di fuoco) attraverso il basculaggio. Se si specificano la profondità o la plasticità, quella è la via! Il punto di «messa a fuoco», in un ritratto realizzato in grandissimo formato, è talmente selettivo da ridurre la profondità di campo a pochi millesimi di metro: le inconsuete evenienze di basculaggio consentono di seguire anche la rotazione e l’inclinazione che può avere il soggetto. Dal punto di vista antropologico, l’arte sarebbe una risultante di conflitti interiori di cui l’opera rivela dimensionalmente gli intimi contenuti del primo, del secondo, del terzo e del quarto piano. Una tale proposizione autorizzerebbe, da sola, alla piena accettazione delle concezioni tattili e ottiche dello spazio, secondo cui l’intera storia dell’arte – di cui la pittura è una delle testimonianze – non è la sintesi di un “arbitrio” conflittuale, che scaturisce da contenuti di confronto con i materiali e i limiti simbolici e formali in atto. E le parole “una e terza dimensione”, che chiaramente concettualizzano la tesi simmeliana della scelta-quantum fatta dall’artista, nel corso della storia, fra libertà secondo natura e visione convenzionale, biologicamente contraddittoria, si pone nel solco del “spazialmente differenziato”. Ma queste considerazioni porterebbero solo a coniare un sinonimo di terza e quarta dimensione fittizia, e di arte come prova pessimistica. Però siamo proprio certi che la controtesi di Marcel Duchamp sia veramente ottimistica, con la sua enunciazione dell’anti-retinicità magistica e pseudo-alchemica? Della terza dimensione, se non della quarta, intese quali artefici di nuove e positive spinte in “avanti” per l’umanità artistica? Potrebbe essere, ma solo se riuscisse a chiarire il significato ultimo del concetto di terza e quarta dimensione. Non capita spesso che le teorie scientifiche trascendano l’ambito puramente scientifico e si addentrino in tutte le altre manifestazioni culturali degli artisti e nella società in generale, e quando lo fanno, si tratta di solito di incursioni timide e sporadiche, o di superficiali mode passeggere. Ciononostante, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la società della ricerca artistica fu affascinata dalla possibilità dell’esistenza di dimensioni superiori alla tridimensionalità. Sarebbe stato normale che la doppia rivoluzione scientifica, che vide la scoperta delle geometrie non euclidee e la nascita della geometria differenziale (multidimensionale), restasse sconosciuta per la maggior parte dei membri della società dell’epoca e, per quanto importanti potessero essere dette teorie matematiche dal punto di vista scientifico, richiamasse l’attenzione solo degli scienziati a cui tali teorie erano in realtà rivolte. Sorprendentemente, la quarta dimensione catturò l’immaginario collettivo fino al punto di costituire un argomento comune di discussione, persino nelle riunioni dei movimenti artistici della grande svolta dell’inizio del ‘900, non mancando poi opere di ambito generale e dimostrativo. I filosofi – come G. Simmel che pubblichiamo qui di seguito – mediteranno sul concetto di spazio, sulla forma e la struttura dell’universo “fisico” e artistico, sulla nostra propria visione e, più in generale, la terza e la quarta dimensione contribuì allo sviluppo di sistemi filosofici ed estetici idealisti, vitalistici, pragmatisti e quant’altro. Per la pratica artistica significò la rottura con la prospettiva rinascimentale, un nuovo modo di approcciare al sistema simbolico-visivo e un percorso verso una nuova realtà superiore. Una delle opere che più contribuì a diffondere l’esigenza di riflettere meglio sulla “terza dimensione”, e sulle possibilità della quarta, e che continua ad essere oggi un riferimento obbligato per coloro che fossero interessati ad andare oltre l’atteggiamento ostico di Marcel Duchamp, è Flatlandia: racconto fantastico a più dimensioni. Una “favola matematica“, è così che, nel saggio in appendice, Manganelli definisce “Flatlandia”. In effetti Flat … risulta essere una singolare mescolanza di letteratura utopistica e principi di aritmetica e organizzazione razionale. In sintesi: Abbott formula l’esistenza di un mondo a tre dimensioni partendo da mondi più elementari. Si giunge quindi ad un’ipotesi molto affascinante e, per il 1882, poco afferrabile e di certo stravagante: l’esistenza di una quarta dimensione. “Flatlandia”, ha anticipato, seppur solo sotto forma di invenzione artistica, ciò che Einstein sarà in grado di dimostrare scientificamente qualche decennio più tardi, ossia la reale esistenza di una quarta dimensione: lo spazio-tempo è ciò che invece il no-ingegnere di Blainville non riuscirà mai ad abbracciare con sostanziale predisposizione concettuale.
Ad introdurci nell’universo di Flatlandia – che altro non è che un paese a due dimensioni (e non il Museo che allestito in The Square, il film di Ostlund del 2017), costituito da un’unica immensa superficie, sulla quale tutti si muovono – è un abitante del luogo: un Quadrato (un “quadro” di un secolo prima di quello criticato con ironia e verve grottesca da Ostlund). Una figura «basso piana» che occupa una posizione sociale medio-alta. A Flatlandia tutti i poligoni sono dei maschi e maggiore è il numero dei loro lati, maggiore è il prestigio sociale di cui godono: i Triangoli equilateri sono borghesi, i Quadrati professionisti, i Pentagoni gentiluomini e così via fino a raggiungere il Cerchio, che rappresenta la classe sacerdotale, quella più importante. Infine Abbott esprime un maschilismo e una misoginia evidente, che per il lettore è più chiara da contraddire, a differenza dell’ambiguità alchemica del maschilismo aristocratico e della misoginia di Duchamp, che si mantiene sul filo del rasoio. Le donne, per il turbato prete inglese, sono semplici linee rette, soggetti pericolosi, considerate irascibili, ipersensibili, incontrollabili e scarsamente affidabili. Il Quadrato vuole testare per la prima volta un mondo tridimensionale di cui non aveva mai sospettato l’esistenza e, nonostante il cinismo della Sfera, è pronto ad immaginare un’ulteriore evoluzione: un mondo a quattro o più dimensioni. I luoghi irreali, eppure così logicamente descritti in “Flatlandia”, possono essere quotati in parallelo a luoghi esistenti così come i tratti “sociali” di uno spazio chimerico che, visibilmente, riflette e ripropone i ruoli fin troppo definiti di una società molto terrestre. La “finta onestà” di Flatlandia, di questa “novella matematica”, sta in un principio tutto sommato stolto: convertire alla fede del vedere il mondo che scrutiamo come l’unico realmente possibile, anche se probabilmente scorretto. Nell’universo proto-dimensionale avanzato da Marcel Duchamp i pianeti del discorso artistico sono o retinici o a-retinici. Uno di questi pianeti è la sua stessa noia, non sempre in grado di apprendere la memoria artistica, una «controvoglia» che oltre ad essere dadaista ha prodotto una radicale politica della blasonata indifferenza. Esistono due fattispecie di artisti che, secondo la storia dell’arte moderna di fondazione duchampiana, vivono il luogo comune delle zone separate, i tradizionalisti della pittura, che hanno apologizzato la retinicità strabordante e i disseminati anarcoidi, che sono ideologi del non senso, del tempo perso, i cospiratori della stessa memoria pittorica trasferita su oggetti depotenziati. In questa storia, M. Duchamp si addentra in Flatlandia, più di Simmel, così come tenta di avvicinarsi al celebre Gaston de Pawlowski con il Viaggio nel paese della quarta dimensione (1912), senza mai offrire visioni e soluzioni. In particolare, egli specula sulla fisica dello spostamento nel mondo bidimensionale, senza mai toccare la strada di Flatlandia, o dei tactiles values di cui parla G. Simmel. Sì, perché, la terza dimensione per Simmel rappresenta proprio l’insieme di tutti i tactiles value: qualità generale della solidità. Simmel addirittura sostiene che “l’aggiungersi di un puro momento di realtà non può valere senz’altro come valore artistico”. Ogni arte agisce su un senso alla volta – dice Simmel – e l’occhio è stimolato a ricreare la terza dimensione come profondità (impressione e ottica): trasformazione da tangibile in visibile. Il filosofo berlinese prospetta un senso della modificazione allotropica, per potersi collocare nell’ambito della profondità: soppesare, sentire la resistenza, misurare la distanza tra noi ed essa, toccare. Configurare la plasticità della pittura nell’opera d’arte della pura visione (das reine anschauung kunstwerk) è dunque vero anche per la scultura! Ma che genio, l’affascinante storico e filosofo berlinese G. Simmel, ad aver ripreso da B. Berenson come le ragioni profonde che rendevano così attraente la pittura italiana rinascimentale fossero i Valori Tattili di «Florentine Painters of the Renaissance», 1896. Abilità pressoché tangibili negli incarnati generosi, nei lucidi broccati, nei trionfi sensuali di frutta: secondo Simmel, così come per Berenson, l’opera d’arte è un organismo vivente che trasferisce nell’astante, che si accosta ad un’opera d’arte che sia veramente tale, un accresciuto senso di capacità vitale e stimola nel contempo un piacere estetico. Gli elementi costitutivi dell’opera d’arte in rapporto alla terza dimensione, afferma Simmel, sono due: esornativi e illuminanti. Gli elementi esornativi, sono quelli che interessano maggiormente l’indagine critica, e riguardano gli aspetti formali dell’opera. Consideriamo valori esornativi: valori tattili, movimento, composizione spaziale, raggruppamenti compositivi, colore e tono. I primi sono ottenuti attraverso il chiaroscuro accentuato e la disposizione delle cosiddette linee funzionali (gli elementi separatori delle singole superfici) e hanno il compito di suggerire la terza dimensione, quindi dare l’impressione al lettore di poter materialmente toccare la realtà rappresentata. Il pittore deve quindi accendere il senso tattile.
La terza dimensione nell’arte (1906) di Georg Simmel
L’interesse del pittore ad ottenere, dall’immagine dipinta su una nuda superficie, quale si presenta direttamente, anche la visione della terza dimensione, non è in alcun modo un’ovvia caratteristica della sua arte. Poiché i giapponesi da un lato e dall’altro Aubrey Beardsley, rinunciano alla terza dimensione, è dimostrato che anche senza di essa si possono egualmente raggiungere al massimo grado il fascino della visione sensibile ed anche i poli estremi dell’espressione spirituale: le donne di Harunobu e di Utamaro, le cui anime, come i loro corpi, sembrano fiori che oscillano nel vento d’estate e le abissali perversità e satanismi di Beardsley. Perché dunque la terza dimensione? La maggior completezza che con essa l’impressione dell’opera acquista, avvicinandosi all’impressione della natura, non può essere decisiva. Poiché la trasformazione da questa a quella significa in ogni caso una riduzione così grande; il fine dell’opera d’arte viene raggiunto con mezzi tanto più semplici di quelli che la natura adopera per l’effettuarsi dell’immagine della realtà, che l’aggiungersi di un puro momento di realtà non può valere senz’altro come valore artistico; deve piuttosto legittimarsi come tale soltanto mediante la sua qualità. Il significato del tutto particolare della dimensione della profondità dei corpi nei confronti delle altre due dimensioni deve evidentemente collegarsi al fatto che essa non è affatto visibile otticamente. Originariamente soltanto il senso del tatto ci persuade del fatto che i corpi siano qualcosa di più della loro superficie bidimensionale. L’immagine completa delle cose, che si è sviluppata con la loro visibilità e la loro tangibilità, viene riprodotta mediante la prima in modo che noi alla fine crediamo di vedere immediatamente anche la terza dimensione. Poiché tuttavia, nel rapporto con la realtà, avviene continuamente di toccare gli oggetti, e quella comprensione della loro struttura nel quadro visivo viene in questo modo continuamente controllata, o almeno può essere controllata in linea di principio, così, quando si completa la realtà, la terza dimensione è molto meno connessa alla pura visione, di quanto lo sia all’interno del dipinto, nel quale essa non trova assolutamente alcun punto di appoggio al di fuori dei processi puramente ottici. In questo caso la terza dimensione appare come un mondo separato in linea di principio dall’impressione reale dell’immagine e proprio per questo motivo la forza di racchiudere psicologicamente la terza dimensione si presenta con un’intensità tanto più grande: come una misteriosa forza magica ha l’effetto di dominare un oggetto senza avere alcun contatto immediato con esso. In questa rimozione di ogni immediato concorso del senso, sulla quale si basa la rappresentazione della terza dimensione e nella contemporanea sua inclinazione nell’impressione dell’immagine, vedo un essenziale valore creativo, lo stabilirsi di un confine e nello stesso tempo la ricchezza dei mezzi dell’arte nei confronti dell’impressione della natura, che contribuisce a fondare l’interesse per la terza dimensione dei dipinti. In questo modo acquista rilievo un fatto molto semplice, che è di fondamentale importanza: in linea di principio ogni arte agisce soltanto su un senso alla volta, mentre ogni oggetto “reale” agisce o può agire su una pluralità di sensi. Perché proprio così si sviluppa la “realtà”: una figura che noi vediamo, ma che potessimo attraversare senza esserne impediti dalla sua tangibilità, sarebbe non reale, ma un fantasma, e nella stessa misura non lo sarebbe una cosa che noi sentissimo, senza che un rumore risultasse in rapporto con altri o un suono non provenisse da una sorgente visibile e afferrabile. Il punto della realtà è quello nel quale si incontrano una pluralità di impressioni dei sensi oppure quello che viene individuato attraverso di esse come in un sistema di coordinate. Ma vi è questo di specifico: ogni senso plasma un mondo qualitativamente peculiare, il cui contenuto non ha alcun contatto con il contenuto dell’altro. Che si tratti dello stesso oggetto che io vedo e tocco è una sintesi che parte da esigenze o categorie, che stanno completamente al di là delle immagini dei sensi. L’oggetto sorge all’interno della realtà mediante l’insieme di percezioni, egualmente valide ma completamente indipendenti ed estranee una all’altra. In modo autentico alla realtà viene determinata invece l’essenza dell’opera d’arte. Per quanto sensi diversi possano anche associare le loro funzioni a suo vantaggio e poiché il suo oggetto si fonda esclusivamente come impressione di un solo senso la visione estetica acquista un’intima unità che un’immagine della realtà non può mai dare; quando nel caos delle sensazioni affluenti un senso prende il sopravvento, esse vengono divise in ranghi in una incomparabile struttura organizzata. Mediante questa gerarchia dei sensi viene impedito che l’impressione ottica o le altre impressioni confluiscano insieme nell’uomo reale, che può toccare, ascoltare, del quale si può sentire l’odore. Il fatto che ad essa venga la sua validità, la sua categoria dell’essere esclusivamente da un senso, fissa l’opera d’arte nella sfera dell’irrealtà e fa sì che la terza dimensione, il dominio del vero e proprio “senso della realtà”, del senso del tatto abbia in essa un ruolo completamente diverso da quello svolto nell’impressione della realtà. Nelle arti plastiche vi è solo apparentemente un atteggiamento diverso. Il marmo è sì tangibile, ma non è l’opera d’arte, come l’altrettanto tangibile tela con il suo rivestimento di colori non è il quadro. Per un’interpretazione non artistica la statua è un uomo di marmo, come l’uomo vivente è un uomo di carne ed ossa, ed è reale, perché può essere toccata, nella stessa misura in cui lo può essere anche quest’ultimo. Ma il corpo, che sia veramente oggetto dell’arte, non può venir toccato, come non può essere toccato il corpo dipinto, perché anch’esso è soltanto rappresentato dal materiale reale afferrabile, come quello dipinto è rappresentato dalle non meno afferrabili pennellate di colore. La terza dimensione non concerne dunque affatto l’opera d’arte come realtà dell’opera garantita dal senso del tatto, ma soltanto nella misura in cui l’occhio è stimolato dalla pura visione dell’opera plastica a creare di nuovo la dimensione della profondità. Anche il valore plastico è soltanto da vedere, non da toccare, e poiché la terza dimensione, come concretezza immediata del pezzo di marmo, può soltanto venire toccata, essa si trova fino a questo punto in un regno completamente diverso da quello del significato artistico del marmo; e nel regno di questo significato la terza dimensione entra soltanto quando essa, perduto il suo originario valore di tangibilità, rinasce come prodotto dell’impressione ottica. In questo modo il ruolo dei tactile values, con il rilievo dato ad essi da Berenson, non è assolutamente negato. Soltanto mi sembra che debba essere ancora spiegato come mai l’associazione della sensazione di solidità con le successive variazioni, possa avere un’importanza estetica che rafforzi lo specifico valore artistico. Per quale motivo si aggiunge qualcosa al fascino artistico di una colonna dipinta, che sembra esaurirsi nella visibilità della sua forma e del suo colore, se la sua freddezza e la sua durezza risuonano psicologicamente insieme, perché si aggiunge qualcosa ad una seta dipinta se il suo splendore riproduce anche il senso della stoffa, con la sua fragilità e morbidezza? Credo che questo plus di rappresentazioni che vibrano insieme non possieda come tale significatività estetica, e che questa sia più data piuttosto dalla trasformazione della reale tangibilità in percezioni puramente ottiche. Potrebbe accadere qualcosa di simile a quanto accade nella musica, che risveglia in noi innumerevoli suggestioni da tutti i piani della vita, il cui fascino del tutto particolare e la cui profondità consiste proprio nel fatto di essere, per così dire, diventate musica. Esse accompagnano l’andamento dei toni non come contenuti automaticamente uguali e forse soltanto un po’ sbiaditi, ma in una specifica formazione e trascolorazione: devono subire una modificazione allotropica per potersi collocare nell’ambito dell’impressione musicale come suoi satelliti; altrimenti sarebbero accanto ad essa estranee appartenenti a un altro ordine di cose. Le reminiscenze di altri sensi verrebbero aggiunte come oggetti estranei all’impressione dell’immagine, senza arricchirne e approfondirne il senso, se esse, naturalisticamente, fossero soltanto un ancora-una-volta del loro contenuto precedente. Esse devono piuttosto, per entrare nell’unità dell’opera d’arte, trasformare il loro significato originario, che non ha niente a che fare con il senso dell’opera, in un valore “visivo”, oppure trasformare il loro stesso essere originario, nato in un contesto completamente diverso, a un punto tale che possa entrare in una unità organica con l’impressione ottico-artistica. Descrivere psicologicamente questo emigrare delle sensazioni tattili durante la loro inclusione nell’arte è, provvisoriamente, un puro postulato. In ogni caso si potrà definire questo processo come un cambiamento qualitativo della rappresentazione visiva, ed anche della stessa rappresentazione tattile. l’importanza artistica dei tactile values non discende dalla pura associazione di sensazioni, perché questo sarebbe soltanto un inorganico e infruttuoso mutamento quantitativo del processo interno. Se la sensazione tattile data dalla seta viene trasferita nella visione della stoffa dipinta, la visione, in se stessa, si fa più profonda, vivente, più ricca. Goethe ha riconosciuto una tale trasformazione di sensazioni eterogenee in valori ottici: “E attraverso l’occhio si insinua la freschezza portando la calma nel cuore”. In questo modo l’oggetto dona all’occhio di più; non tanto nei confronti della realtà, dove i diversi sensi conservano il loro valore particolare, perché nella stessa misura concorrono alla realtà della cosa, quanto nei confronti dell’opera d’arte, che porta il contenuto della cosa sotto il denominatore comune di un senso. Così accadrà anche con la terza dimensione, che rappresenta l’insieme di tutti i tactile values. Accanto a durezza e morbidezza, ruvidità e levigatezza, asperità e organizzazione simmetrica, la sensazione tattile manifesta anche la qualità generale della solidità, che alla pura superficie, offerta anche all’occhio, aggiunge la terza dimensione. Se essa ora deve entrare nell’opera d’arte della pura visione, non sarà più semplicemente una dimensione, un’aggiunta numerica al quantum già presente di dimensioni, conferirà invece a queste dimensioni presenti, che l’opera d’arte non può superare, una nuova nota qualitativa. La terza dimensione agisce nella pittura e nelle arti plastiche non come reale estensione in profondità, perché l’eternamente di invisibile non può trovare alcun posto nel regno della pura visione, bensì come un arricchimento e rafforzamento dei contenuti d’immagine bidimensionali: è una sfumatura della visibilità, nella quale la forza visiva dell’artista che organizza tutto il contenuto dell’essere ha rifuso le esperienze e le associazioni dei mondi di altri sensi. Infine questa trasformazione del puro più, che la terza dimensione come tale sembra presentare in un confronto ad entrambe le altre si inserisce nel senso di tutta l’arte, nel suo rapporto con la scienza della natura: mentre quest’ultima cerca di portare tutte le qualità ad espressione di quantità, di rappresentarle come quantitative secondo il loro senso, l’arte vuole viceversa presentare tutto ciò che è soltanto quantitativo dell’essere nel suo senso di valore qualitativo.