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Sotto la pioggia: poesia zero poetico!

Stavo aspettando sulla scrivania all’aperto nella campagna di Bruxelles un artigiano che doveva ripararmi lo scrittoio nel giardino quando notai uno narratore seduto davanti allo studio che distribuiva poesie in cambio di denaro di carta e nel frattempo eseguiva un lavoro sull’Olivetti 32. Vicino un bar con tavolini fuori coperti da tovagliette dello stesso colore e gente che andava e veniva. Il poeta mi aveva detto di aspettare avendo dimenticato alla bottega alcuni attrezzi per incidere le lettere sul tavolo e sarebbe ritornato subito, invece era ormai passato un quarto d’ora e non si vedeva.

Incuriosito dal writer scesi dal podio della scrittura e gli chiesi cosa facesse. Mi spiegò che la sala era adibita a hall da pc e che cambiava spiccioli poetici perché potessero essere investiti in nuovi vocabolari.

Da fuori non si vedeva nulla, il giovane sempre con molta calma alzava il capo dosava le parole e poi continuava il lavoro. Vicino a lui alcune sedie vuote, gli dissi se potevo sedermi poiché ero in attesa di un tecnico ed avendo subito un incidente glossematico non potevo più parlare. Alzò il capo, guardandomi chiese come mi fosse successo. Gli spiegai, e mi soffermai a parlare su parole di parole con moto di grandi motori enciclopedici che corrono all’impazzata senza pensare alle conseguenze che creano. Nel frattempo un foneggiatore gli si mette a sedere vicino e mi guarda. Continuo e dico: “quello che mi ha tirato i vocabolari addosso era come lui, e poi anche figlio di Emilio Villa”. Sento rispondermi “e che differenza c’è fra un’Oli e uno Zingarelli, fra un dizionario Oxford e un Sansoni? – Osservando con una prima occhiata le illustrazioni di queste due pagine, vi sarà difficile riconoscerle per carte geografiche. Sembrano piuttosto motivi decorativi o simboli, statuette e disegni di bimbi. In realtà i writers e gli street artist, adesso, rappresentano con la loro rudimentale geografia un mondo totalmente diverso dal reale, anche se nei loro propositi v’è proprio l’intenzione di descrivere ciò che vedono quotidianamente: il villaggio dei nomadi, una collina di spazzatura, un lago del fiume dove accampano. Per questi poeti della strada, dall’orizzonte circoscritto ad un quartiere, tutto è racchiuso nel breve tratto di terra conosciuto. Rappresentandolo ne stabiliscono il centro: un monte che diveniva con un po’ di fantasia la colonna di sostegno della volta del cielo, oppure un’isola del mare in cui, essi dicono, era nato il capostipite della genia umana, oppure ancora il sole con i suoi raggi che dividono il mondo in varie parti.”.

Capisco di essermi espresso male, “volevo dire che è meno scusabile di chi non ha studiato, e ha avuto minori possibilità di apprendere le regole della metrica, della musica, del repertorio terminologico, delle buone maniere dei poeti, di una strofa di un metro e di un ritmo, di una prosodia o di un catalogo di forme, insomma:

di sillabe,

parasillabi e scannasillabi,

di dieresi e sineresi,

nessi di vocale tonica,

regole etimologiche,

indiscindibili,

bisillabici,

dialefe,

sinalefe,

cesure,

isosillabismi,

accenti principali,

ritmica e tritmica del verso,

accentazioni,

sillabe atone,

accenti consecutivi,

endecasillabo,

novenario,

novenario doppio,

ottonario,

settenario,

senario,

quinario,

finzione demarcativa,

ottava rima,

ottava nota,

rima irrelata,

rima castrata,

rima piana,

rima tronca e sdrucciola”.

“Ma oggi,lo strofatore, che non è proprio uno spronatore, mi risponde, fare l’Università non vuol dire niente, a che cosa poi serve l’antropologia culturale. Se non si è capaci di buttare Luciano Lama fuori dalla Sapienza?” … “L’antropologia è necessaria per noi stessi, anche se un pezzo di carta perde ogni giorno di valore. I giochi di prestigio che ci sbalordiscono durante uno spettacolo di varietà sono frutto di un’eccezionale agilità e sveltezza di mano. Poniamo queste doti nella memoria di un individuo e lo vedremo diventare un prestigiatore di numeri, un calcolatore prodigio. La storia ricorda molti di questi imbroglioni eccezionalmente dotati: nel XIX secolo vi furono il pastore siciliano Vito Mangiamele, Zacharias Dase, il greco Diamandi, Henri Mondeux e il celebre Giacomo Inaudi, ancor giovinetto ma al limite della poesia e dell’arte d’avanguardia. Tutti costoro potevano eseguire a mente i calcoli più complessi dandone il risultato finale esatto entro pochi secondi. Nel ventesimo secolo con l’avvento delle macchine calcolatricivenne naturale l’idea di confrontarle ai virtuosi del calcolo e della parola e le gare furono appassionanti e stupefacenti. Lo stesso Inaudi (allora cinquantasettenne) batté la macchina addizionando, sottraendo, dividendo e moltiplicando numeri di quattro cifre; poi fu vinto nella moltiplicazione di cinque cifre, ma riprese il sopravvento estraendo radici e elevando potenze con una rapidità superiore a quella del cervello d’acciaio che allora non aveva raggiunto l’odierno grado di poesia elettronica e digitale. Come i prestigiatori sveltiscono i movimenti del loro corpo con un continuo allenamento, anche gli acrobati della retorica sviluppano le proprie facoltà mnemoniche esercitandole incessantemente. Interrogati e studiati dagli psichiatri, essi rispondono di sentire la propria voce che calcola la poesia o di vedere i numeri scritti dei lori dittonghi su un’immaginaria lavagna mentre, stando muti e quasi distratti, risolvono un problema. Certuni hanno raggiunto un tale grado di meccanicità che possono eseguire i calcoli e contemporaneamente declamare e suonare uno strumento o tenere conversazione, proprio come un poeta-giocoliere da circo che butta e riprende le sue palline conversando con il compare. Ora voi penserete: ma è sufficiente la Memoria per giungere a tanto virtuosismo?”.

“Sarà, mai io non faccio nulla e sto benissimo: leggo, leggo, leggo solo poesie che giungono al Nulla”

“Nulla, e come fa? Io mi occupo di tante cose e vorrei fare anche quelle che le mie condizioni attuali non mi permettono. Adesso scrivo un volantone e attacco un manifesto sulla lingua dei poeti”.

Non c’è poesia se non perché “io” scrivo.

Poetare è più importante della poesia. Poetare è mettere in voce Molly Bloom e il suo inganno. Non c’è null’altro che la voce dell’inganno di Molly. Senza la voce dell’inganno di Molly non c’è poesia. Scrivere la propria voce è scrivere con la voce della poesia dell’inganno. La voce della poesia fa scrivere. O cantare o danzare o gridare fonemi che non significano.

“Io” canto contro le castrazioni di Molly Bloom. “Io” danzo contro le castrazioni di Molly. “Io” grido contro le soppressioni di Molly. Il canto è contro la voce di Molly. La danza è contro la voce di Molly. Il grido è contro la voce dell’inibizione e nient’altro.

In un giorno grigio in cui andavo alla deriva nelle strade di Roma avevo in testa Omero ma amavo Georges Bataille. Ah! Angelo che si dibatteva come un folle poeta tra lo spirito dell’epoca e il ricordo corporeo della propria infanzia partenopea. Infatti era là, quel poeta, posto nell’intervallo di un discorso filosofico il cui dibattito verteva intorno alla questione della libertà del poeta – la serie delle Lettere ad un giovane poetadi Rainer Maria – e della sua libertà, la libertà fisica, quella del fanciullino divenuto poeta, che era cresciuto al giorno, fra i lauri, le buganvillee, nato emancipato e in barba ai prestigiatori del verso. Ecco che, giunto a Napoli, a Roma, a Parigi, era nella situazione di rivedere la propria libertà, di rifletterla, di scriverla. D’altronde, si chiedeva se non l’avesse persa, quella libertà acquisita fin dai primi momenti della vita: sotto il calore vicino alle buganvillee bianche e rosse, agli aranceti color carota e fiorentino, la libertà era una vendita.

In Germania i cavalli ammaestrati di Elberfeld sapevano contare e calcolare e ne comunicavano i risultati battendo con lo zoccolo per terra numeri di colpi ad essi corrispondenti. E non dovete credere che le operazioni fossero di facile esecuzione. Eccone un esempio: Qual è il prodotto di 4 per la radice di 614.656? Una commissione di poeti fu incaricata di esaminare gli eccezionali quadrupedi e dovette escludere che il loro curatore, un certo Krall, fosse in malafede. Si era pensato poi che i cavalli avvertissero la particolare mimica che alterava i visi dei poeti quando il numero dei colpi battuti dai loro zoccoli si avvicinava al risultato esatto. Ma i dittonghi si ripetevano al buio con identici risultati.

“La signora, interviene la ragazza è una donna impegnata, ha visto Marcel Broodthaers comporre Le Pluiee A Voyage on the North Seae Le Courbeau et le Renard(1967)” e lui aggiunge “si sente da come parla, ha il vocabolario e il rimario in tasca, io invece sto bene così”: A.E.I.O.U. (A. Rimbaud) A.E.I.O.U. alla Magia! A.E.I.O.U. alla Follia!

“Per me il nulla procurato dalla pioggia, sul foglio scritto, è morte, lo dico anche nelle mie poesie: attendo che cada la pioggia e poi tutto si bagna, tutto resta bagnato dall’acqua che diluisce l’inchiostro in rigagnoli di macchie, macchie astratte”.

“Lei scrive?”

“Si”

Voi scrittori, voi poeti avete un modo di esprimervi”

“Bello o Brutto?”

“Non so siete diversi, estrosi, lui però che siede allo scrittoio all’aperto, mi piace come governa il silenzio”

Si alza e cambia sedia per essermi vicino.

Sorrido e gli chiedo ancora “Mi parli del suo nulla”.

“Il mio nulla è questo, il nulla annulla, invalida, abolisce: hai mai provato ad attendere il nulla sotto la pioggia? Ha mai provato a far contare agli uccelli il numero dei buchi di una scultura di Lucio Fontana? Ha mai provato a sparare a un prestigiatore?”.

“No, per me annullarsi vuol dire perdere la propria satrapia, diventare un essere morto che con la sua scrittura si liquefa nell’acqua – scrosciante – piovana.

“No, per me annullarsi vuol dire perdere la propria parola, diventare un essere senza dialogo. Scrivere è bello, dà molte soddisfazioni, in clinica La Borde, quello che mi dava più fastidio era non poter leggere, meno male che usando le pareti dell’Ospedale e le Scatole dei farmaci ho scritto un libro”

“Su che cosa?”

Naturalmente sull’ambiente psichiatrico della parola, per renderlo meno pesante e poiché s’intitolò “Sul tavolo dello scrittoio che attende la pioggia” ho voluto metterci anche l’amore, cioè quello che si svolge in una biblioteca; penso che l’amore e la virtù delle parole siano due forze della natura dalle quali non possiamo che tornare alla potenza”.

“Bello il titolo, invece per me stare chiuso ha voluto dire stare in carcere”.

“È stato in prigione?”

“Si otto mesi ed anche lei otto giorni come complice, mi hanno incriminato di spaccio di documenti di “poesia apocrifa” StilNovista; ma si sono sbagliati, ora sono in libertà provvisoria, non avevano prove soltanto uno che mi aveva accusato mi dava del tremendo prestigiatore di parole d’altri”.

“Come il noto filologo?”.

“Si una specie, intanto io ho fatto il carcere che è duro”.

“Dove è stato?”

“Nel capoluogo, in un ambiente molto brutto, celle fatte al tempo del fascismo e rinnovate nel periodo di Tambroni, piccole con quattro letti a castello, un gabinetto e un angolo cucina con dei divisori che non servono a nulla e la possibilità di far entrare la pioggia da tutte le fessure. Ma che ci faceva col vocabolario?”.

“Accendevo cannoni di fumo marocchino, allo spaccio raccoglievo libri usati dell’universale economica Rizzoli, la scrittura che passano nessuno la mangia e quindi provavo a imitare quei prestigiatori tanto temuti”.

“Ho chiesto notizie alle guardie del carcere quando dovevo scrivere su un attore della Compagnia del teatro dell’Assurdo, ma questi non lo sapevano e non sapevano mettermi in contatto con nessuno dei prestigiatori incarcerati”.

“Ha mai conosciuto il mondo dei libri pocket di linguistica, anzi quelli di psicolinguistica? Delle pile pazze che disegnano un intero popolo?”.

“No mai, ho parlato con qualcuno delle Brigate dell’Assurdo”

“E che ne pensa?”

“Se non usassero l’occultamento delle storie e della lingua potrebbero tentare di cambiare qualche cosa, i mutamenti sono necessari, ma i poeti dove sono, dov’è la lingua asciutta dei poeti?”

“Eppure tra giornalisti e scrittori che sono stati tante volte in galera ho trovato umanità mentre i poliziotti sono tutti una razza, a me hanno dato un sacco di botte, pensi che avevo anch’io l’Olivetti 32 smembrata”

“Perché le hanno rotto la macchina da scrivere, perché le hanno disperso l’inchiostro, perché le hanno occultato l’amicizia con i prestigiatori?”

“Perché stavo qui e secondo loro non ci dovevo stare”

“Anch’io ho trovato umanità fra quelli che evitavano le foto identitarie, ogn’uno anche sé è delinquente e poeta, in una parola si chiama Samuel Beckett o Jean Genet, ha dei momenti di parola, lui per esempio una faccia da poeta, da prestigiatore, da mago, da sciamano”

“Infatti mi dicono che sono fesso come un poeta, sono diviso da un taglio, da uno spacco, sono un recipiente incrinato, sono una scrittura divisa, totus omnis sono uno schibboleth; ha detto che ha trovato umanità negli psichiatri, si vede che sapevano di avere la risorsa della poesia”.

“No lasci stare, non è così”

“Io divento poeta se cade la pioggia e bagna tutti i miei fogli, e sono capace anche di liberare inchiostro nello spazio”

“A me da fastidio bruciare anche un glossario, non pensa che un essere vivente non può misurare la sua vita in termini di libridine, di biblioteche, di emeroteche, di collane, di raccolte di libri intonsi, accuse della caduta di ascesadi felicità dalla Decima Elegia di Rilke? Se scaraventassero dei macigni, delle bombe, sulla sua Biblioteca?”

“Mia madre è viva e con mio padre leggevano la Torah, questa biblioteca di manoscritti convive con me, io sono lontano da disegni e dattiloscritti ma la pioggia fa il suo lavoro”

“Lei ha studiato ebraico?”

“No, almeno, non subito … ho fatto le elementari al Ghetto, poi ho lavorato per poco tempo come commesso di una libreria yiddish in Svizzera”.

“E stato anche in altre nazioni e in altre occasioni di reading”

“Si anche in Francia, a Parigi, partivo con qualche soldo e rimanevo due o tre mesi … “E come faceva?”

“Bene, per assistere alla diluizione di tutte le mie parole e di tutta la mia poesia, poi non mi sono più mosso, non mi piace viaggiare e ho cominciato a frequentare solo prestigiatori, hadweristi e softweristi”

“Forse perché per lei è una fatica digerire parole”

“Certo adesso attendo che la pioggia si porti via tutta la mia scrittura, la scrittura si lavi, e per il processo mi difenderà l’avvocato-filologo, lo consce?”

“Si lo conosco, è un bravo filologo-avvocato e viceversa, ha scritto un libro famoso sul “Processo ai maghi portorealisti”. In questa attività che fa si occupa almeno della catalogazione dei volumi della Biblioteca del Carcere”.

“No, fa tutto il contabile della sezione enciclopedica, lei non vuole credere che non faccio niente: non faccio altro che dosare il nulla, leggere con attenzione la muffa del nulla, spronare i secondini a trascorrere il tempo del nulla”.

“Alcuni poeti oggi hanno poche iniziative, sono dei morti vivi, peccato che non scrivono più e che non stanno, più, neanche, sotto la pioggia! Peccato”

“Ho capito, vorrebbe vedermi leggere, ma a me piace il nulla”

“Lo sa che sulla sua biografia poetica ci sarebbe da scrivere dei trattati, lei sta lì sotto la pioggia ed aspetta che tutto venga lavato; tutto quello che lei ha scritto deve essere liquefatto, sciolto dalla pioggia”

“Mi dica come si fa a scrivere facendosi bagnare dalla pioggia, mi piacerebbe fare La Pluie, proiect par un texte (1969); può raccontare le storie dei suoi compagni di cella, poeti militanti del nulla o il nulla militante della poesia, dovrebbero essere interessati. Ma come si fa, a fare, la Danza della Pioggia?”.

“Già, si tratta proprio di una bella idea”

“La sua espressione poetica è una parola astratta? Mi sembra molto informale, così come l’acqua, la pioggia, il vento!”

“Vi devo lasciare perché è arrivato quello dei vocabolari che aspettavo, meno male che ancora è rimasto qualcuno; se mi guardo allo specchio sono sempre IO sotto la pioggia! Io, tutti i nomi di DIO”

“Arrivederci, e se passa da qui si faccia vedere, faremo ancora due chiacchiere”

“Bene arrivederci a la prochaine Pluie; bene arrivederci alla preparazione del prossimo testo: è una costante, abbiamo bisogno di diluire le lettere, di estendere gli scrittoi sotto la pioggia, abbiamo bisogno di superare i prestigiatori, abbiamo bisogno di scollegare i calcolatori”.

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