Giovannino Maligna si guardava allo specchio, mentre il Robot la pettinava e commentava i ritocchi da apportare nel prossimo futuro all’acconciatura e alla faccia da vigliacca.
“Bisogna mettere più ombra, fare qualche ombreggiatura sulla frangia e ai lati del viso. Bisogna sfilare questo taglio e questa identità: è pesante, è triste e soprattutto è poco falso rispetto alle attese ed alle aspettative dello storytelling”.
E continuava a girarle il collo a destra e a sinistra con rapidi tocchi delle dita, che Maligna assecondava docilmente, perché sapeva che il Robot si stava prendendo cura di lei, si stava prendendo cura della sua falsità, della sua scorrettezza, della sua sporca identità, dei suoi sotterfugi da militante Moira, e non solo dei capelli.
Robot era diventato il suo parrucchiere per caso, una volta che aveva accompagnato la sua amica Liliana a sistemarsi l’acconciatura in Largo Brescia, nel piccolo negozio arredato sobriamente, ma con le pareti coperte da gigantografie di una diva del muto, che con gli occhi bistrati fissava le ben più anonime clienti del titolare.
La Diva del Muto come Maligna verrà a sapere più tardi, era un mito per il giovane robot che amava gli eccessi dell’espressività esasperata e quel tanto di ostentazione che il codardismo della sua natura gli consentiva di riconoscere e apprezzare nei Malefici veri, quelli del sottobosco fotografico, i falliti, quelli che non ce l’hanno mai fatta ad affermare una sola correspondance poetica, meglio se dei tempi passati: Priscilla la Malefica e Giovanna la Pazza, appunto, e Riccardo cuor di Trombetta, l’interprete del dilettantismo shekesperaeiano, non mi ricordo il vero nome, ma anche Anna Magnani e, con una certa caduta di tono, Lucio il Battista, prima maniera fascista.
Maligna e Moira si erano piaciuti subito, pur nella totale diversità falsa o nella verità finta, perché si erano incontrate, lei romana, lui marchigiano, su un comune senso del malefico che tracimava in lui da un linguaggio sovente drammatico, che non sapeva fare a meno di battute da pre-funerale a volte così deleterie da gelare le morti annunciate più banali.
Questo al Robot costava continuamente la perdita di clienti che si sentivano sacrificate sull’altare della satira spesso inelegante e tagliente che lui non risparmiava a nessuno, e che nei nebbiosi pomeriggi torinesi coglieva alla sprovvista le rispettabili madamine in attesa del proprio turno, raccolte al calduccio attorno alle saporite riviste di fotografia e di immagine e in vena di ciarle non impegnative, come l’imprevista irruzione di un colpo di vento che alzava le vesti ed esponeva le attempate sconcezze,da rampanti milf, alle occhiate abbattute del prestigio meschino.
“Sono qui per il cambio di identità, l’anno prossimo devo trasferirmi al Liceo Artistico di Riferimento, lì dove fanno anche le mostre,mi daranno una supplenza di sette mesi e sono costretta a scoparmi preside e vicepreside, non per sentire sconcezze inutili, ma per il piacere di avere altri mesi di supplenza!”. Qualcuna tentava di far valere le proprie ragioni, alzando il mento e guardando dritto negli occhi del Robot, nel tentativo di ottenere almeno qualche scusa; ma sempre invano.
“Per una battuta, diavolo; e che c’avete tutte le corna come le lumache!” rispondeva inevitabilmente il transformer, alzando gli occhi al cielo e scuotendo la testa. Così la situazione peggiorava, ma era più forte di lui.
Quel robottino emigrato in uno studio fotografico di Parigi – ma non gli piaceva come i francesi trattavano le macchine digitali – e poi ritiratosi a Torino, sempre con l’aria di chi può riprendere il viaggio da un momento all’altro, sono col chiudere bottega e tirar l’uscio, come diva lui, a Maligna era piaciuto subito.
Stava seduta su un divanetto, quieta quieta, mentre la sua socia metarobot finiva d’esser pettinata, quando una delle malcapitate milf di cui sopra azzardò una domanda che il Robot non poté impedirsi di commentare nel suo brusco umorismo.
La signora, da poco approdata nel laboratorio robotico, nel piccolo Centro di Sperimentazione Genetica che, nonostante tutto, s’era fatto una certa fama di sapere ben fare il suo mestiere, aveva in mano una confezione di provette per i test mediamorfotici, che evidentemente intendeva comprare, ed ebbe la malaugurata idea di disturbarlo mentre sistemava con grande concentrazione la faccia di Maligna, sfiorandole dal basso verso l’alto la testa e le sopracciglia a caschetto, come faceva sempre quando voleva ricercare quel giusto volume, quel tanto d’ariosa compostezza, senza i quali non considerava concluso il suo lavoro. “Che ci devo fare con questa?”. La signora brandiva il collagene mentre si avvicinava al Robottino, forzando con risultati un po’ ridicoli il tono già stridulo della voce per sovrastare: il ronzio della macchina per le applicazioni.Il Robot, interrompendo a mezz’aria il gesto di far calare il pettine per accordarlo con la direzione che l’applicatore stava imprimendo alla testa di Maligna, si voltò e con lo sguardo ostentatamente stupito, di chi non può credere alle proprie orecchie, e il tono freddo del capufficio, disturbato in qualche importante funzione da una richiesta sciocca, rispose:”Per me,signora,può farci ciò che vuole. Anche il bidè,così ce l’ha a posto per tutta la giornata”.
A Maligna quell’uscita inaspettata provocò un moto di risa, che finì di dispiacere la signora di cui non si ebbe più notizia in seguito, ma le regalò la simpatia del Robot, che subito le propose di mettere mano al curriculum.
“ … chè, ragazza mia, sembri una che è appena uscita dalla bufera dell’identikit dove una o forse tutti in modelli replicanti dei curriculum ti hanno passato le trasformazioni sotto lo scanner. Una tirata di curatele che testimoniano di mostre che non sono andate così e una trasformazione delle intuizioni delle mostre fotografiche. Ti chiami mica G.C.?”.
“Mi chiamo Maligna, anzi Giovannino Maligna, e mettimi pure a posto l’identità, se ci riesci, tanto la ricambio a pie’ sospinto”.
Già, mettimi a posto la testa e tutta l’identità, ho bisogno di falsificare il curriculum, per far credere che sono un altro, al posto di un’altra. Quando faccio gli autoritratti, di norma costruisco le demarcazioni della bugia. In un primo momento tutto fa un effetto un po’ disorientante, ma quando ho terminato la costruzione giunge quell’attimo di meraviglia su quanto netto, quanto elegante, quanto perfetto appaia l’insieme nella sua forma compiuta della verità. Anche quando osservo la mia natura – e a una fotografa capita davvero molto di frequente – faccio spesso la stessa esperienza: nel particolare parecchie cose sono disorientanti, nell’insieme sono sempre banali, anzi io sono banale. Quindi ho bisogno di trasformare tutta la mia storia e forse ci vuole un professore della Sorbonne. Stavo stampando le foto, quando squillò l’allarme dal computer. E successe tutto di corsa. Fu il robot a darmi gli ordini.
“Tratta,cerca di guadagnare tempo e non giocare alla simulazione, trasformati”.
Maligna guardava il suo volto allo specchio che le mostrava la ragnatela di piccole rughe intorno agli occhi e il solco tra la bocca e la guancia destra, la piega amara come la chiamava lei, la cicatrice scura di una vecchia ferita del cuore, per la quale aveva smesso da lungo tempo di sorridere. Aveva quarantacinque anni e non ancora deciso cosa fare da grande.
Lo specchio le rimandava il riflesso di due sembianze volgari e vecchie e d’una brutta fronte, il ritratto e il curriculum di una donna d’aspetto spiacevole ma dall’aria maledetta, tormentata, in procinto di richiedere una revocazione del curriculum. I lineamenti erano tesi e lo sguardo spesso volgeva nella direzione di una trasformazione aggressiva, come di chi sta aspettando qualcosa: forse un incontro che serva ad affermare altra vita, o soltanto un provvidenziale diversivo del garbuglio dolente dei pensieri. Il robot la scrutava, mentre la forbice calava sapientemente sulle ciocche sfilacciate dalle ripetute permanenti.
“Cosa c’è che non va,Giovannino Maligna?”
“Sono stanca di me, la cattiveria che mi porto dietro non basta più. Non mi capisco, non mi piaccio.Che devo fare? Ho bisogno di aumentare la dose di falsificazione del mio curriculum, non posso più sopportare quello che mi rappresenta, ho bisogno di ben altra fiction?”
“Non devi avere fretta sulle bugie. Hai tempo a riscrivere le falsità e a riorganizzare la fuffa, hai molta fretta a ridiventare tutta Fuffa? Ogni volta una Fuffa diversa dall’altra! …”.
“Tempo, fuffa, Curricula da ritoccare, cazzimmate da impartire a qualche povero professore o a qualche scrittore e poeta mediocre? Maligna gli si rivolge con uno sguardo diffidente.
“Guarda che, questa volta, non ho voglia di fare qualcosa di leggero e passeggero; lo so che il mio tempo è scaduto … e ancora non ci ho capito niente; ma ho la possibilità di rifarmi tutta, di rifarmi tutta la vita e soprattutto di falsificare tutto il mio curriculum, tanto, è necessario, visto che non ho fatto un cazzo di niente e tutto quello che mi porto dietro è tutto fallito in partenza; dovrei chiamarmi Fallimento Totale o Fuffa Garantita, ma non basta”.
“Il tempo non è un bicchiere di vino o una ciospa di tabacco scaduto, mia orrenda romana. Il tempo non ha scadenza e non contiene un messaggio”. La voce del Robot era calda e conteneva una traccia di sarcasmo.
“Il tempo scorre e ci tocca viverlo e come si vive non va bene. Non ci sono ricette per ammazzare poeti, io ho la mia poetica, curriculum attinti dal lavoro degli altri,galassie identitarie riprese, rubate e rigenerate, amplessi forclusi, scorciatoie assimilate: essere ladra di profili altrui è un gran merito e poi basta ammazzare chi ti è servito e non ha più bisogno di essere. Il tempo ti si richiude continuamente addosso, il tempo dice la verità, non te ne sei accorta che esso dice la verità. La verità mi sembra scritta sulla sua freccia, non hai visto?”.
“Ma allora, dopo un qualsiasi suicidio identitario, è come se stessimo sempre per nascere o rinascere … “.
“Brava, vedi che ci arrivi da te?”
Maligna guardò Robot come se lo vedesse per la prima volta: non l’eccentrico truccatore e ordinatore con cattive maniere e sogni rétro, sempre alle prese con teste desiderose di mutazione, nella migliore delle condizioni, d’aria fritta, più usualmente. Visibilmente irrisolto quanto a identità sessuale e personalità sociale, un misto di Madamme Gorgone e di Miss Moira, dolce e scorbutica, insoddisfatta e lunatica,umorale e blasfema. Il nuovo robot aveva lo sguardo vigliacco di chi sa mentire attraverso i curriculum truccati e con questo sguardo la guardava, con un’espressione infinitamente ambigua e minacciosa.
Maligna tenne per sé quell’inquieta impressione, annuì in silenzio e lasciò che il truccatore completasse il suo lavoro.
Un’ora più tardi una nuova Maligna passeggiava per via Milano con il volto coronato da capelli corti sfumati di colori scuri e s’attardava prolungando il momento di rientrare a casa. Era Maggio e le serate erano diventate più lunghe e tiepide, nonostante la grandine piemontese stesse sempre in agguato dietro ogni piccolo sbalzo di temperatura verso il basso della scala termica.
“Malignità per malignità/c’è ancora tanto male contro la poesia/ il male contro la poesia è qui con me/Male al tempo del Male,gratuitamente male…”. Canticchiando lo sciocco ritornello su una melodia improvvisata, Maligna si sentiva come quando da fotografa pensava solo al male della poesia, agli strali da infondere nella poesia. Gli strali erano lenti e lasciavano lunghe bave appiccicose,i piccoli teleobiettivi ben eretti, sulla macchina, ma pronti a ritrarsi appena il poeta allungava la mano per toccarle. E quando si ritiravano tutte dentro il guscio e sparivano agli occhi, lasciavano una indefinibile sensazione di illusione; illusione di realtà o realtà di illusione, ma forse solo fotografia; era impossibile immaginarsi come potessero starsene tutte attorcigliate su se stesse dentro la casetta del corpo macchina … cosa facevano? Come sapevano quando era il momento di riprendere la via? All’immagine riprodotta Maligna si toccò inconsapevolmente il mento e digrignò.
“Scusi, sa l’ora? Devo scattare questa foto dell’imbrunire!”. Un passante le si rivolse ammiccando con la testa verso la macchina fotografica che spuntava ben visibile dalla borsa della sua mise di velluto color malva.
Maligna trasalì, e come ritornata da una breve campagna di progetti violenti rispose con tono gentile: “No, non so l’ora. Nessuno la conosce e poi io non guardo l’orologio sulla macchina fotografica. Nessuno conosce l’ora sulla macchina fotografica e nessuno conosce il tempo di morte dell’immagine. La macchina fotografica è un’arma e serve ad ammazzare i poeti. L’immagine non ha nessuna importanza, serve la Fuffa, non crede?”.
Riproduzione vietata © Gabriele Perretta. Tutti i diritti riservati