L’esposizione di Sergio Padovani, curata da Cesare Biasini Selvaggi con Francesca Baboni e Stefano Taddei e organizzata dalla Fondazione THE BANK – Istituto per gli Studi sulla Pittura Contemporanea e da Il Cigno GG Edizioni, successivamente si sposterà a Modena, città natale dell’artista, all’interno del Complesso di San Paolo, Ex Chiesa e Sala delle Monache.
Di seguito una breve intervista all’artista sul suo lavoro, le nuove tecnologie, l’accademismo, il senso della storia dell’arte e del figurativismo:
Fabio Giagnacovo: Ha da poco inaugurato la sua personale negli spazi del Museo di San Salvatore in Lauro, a Roma, dal titolo “Pandemonio”. Leggiamo nel testo critico scritto per la mostra da Cesare Biasini Selvaggi: “Ogni tavola, carica di enigmatici piani narrativi, temporali e musicali (questi ultimi dai ritmi ossessivi della visual music praticata dall’artista), è abitata da un universo in eccesso mescolando aspetti classicheggianti a creature oniriche dalle forme bizzarre colte nella loro espiazione, sull’orlo del baratro, il lato mostruoso, le angosce e le inquietudini del nostro tempo”; ma poi leggiamo: “Tuttavia, sullo sfondo di ogni composizione, balena il lampo della possibilità visionaria di redenzione per l’umanità, quindi di fede nella salvezza”. È innegabile che i suoi quadri abbiano molto a che fare con l’interiorità dello spettatore, con la sua azione psicologica che ne metabolizza le pennellate attraverso i propri occhi e il proprio cervello, potendo scorgerne la possibilità redentrice o scivolando sulla superficie riflettente delle inquietudini contemporanee. Cosa pensa del rapporto che le sue opere instaurano con il pubblico? E come si relaziona alla loro “componente enigmatica”?
Sergio Padovani: È un rapporto certamente molto complicato. Come diceva Lei, le mie opere riguardano una dimensione molto personale, molto intima, privata, sia mia che, sorprendentemente, di chi le osserva. Inizialmente prende il sopravvento la componente estetica, che non ricerca il bello ed il piacevole, ma che subito separa e divide, subito implica la scelta se voler approfondire o no. E qualcuno si ferma li. Parlandoci, mi rendo immediatamente conto che, nella maggior parte dei casi, il mio interlocutore considera un quadro come “abbellimento di ambienti”, e qui mi fermo io. Al primo tentativo di reale avvicinamento all’opera, invece, succede spessissimo che si percepisca un “meccanismo”, un archetipo di appartenenza che in qualche modo apre una comunicazione tra il quadro ed il suo osservatore. Quest’ultimo riconosce nella pittura davanti a se qualcosa che ha provato, che magari non ha ancora rivelato a se stesso, qualcosa di indefinibilmente proprio. E’ li che le persone sentono il bisogno di confrontarsi con me e, ogni volta, più che la spiegazione di un quadro , desiderano raccontare la loro “esperienza” con esso. Per me, questo accadimento, è sempre un enorme valore aggiunto. La “componente enigmatica” nella mia pittura esiste, viene sicuramente percepita, ma non può essere decodificata da chi la osserva. Sono, infatti, troppo personali ed intimi i riferimenti al mio vissuto ed i relativi intrecci e richiami presenti in essa. Chi guarda un mio quadro, probabilmente anche grazie a questa componente, riesce a darne una lettura personale e, come dicevo, a ritrovare in essa i nodi già sciolti o ancora da sciogliere del loro quotidiano.
F.G.: Sembra che nelle sue opere dionisiaco e apollineo si relazionino in uno straniante equilibrio. Secondo Nietzsche proprio l’azione combinata di questi due opposti determina la liberazione estetica del dolore, nella tragedia greca. Cosa ne pensa?
S.P.: Credo che siano due presenze imprescindibili ed indivisibili del mio operato. Non solo nel risultato finale, ma anche nella composizione stessa dell’opera. Questa dicotomia è il cuore pulsante del mio agire artistico e, compatibilmente, anche del mio agire come essere umano. Sono convinto che, in questo modo , proseguendo nel citare Nietzsche, “la vita divenga tollerabile e meritevole di essere vissuta”.
F.G.: Nei suoi quadri riecheggiano epoche passate: il Rinascimento italiano, ma soprattutto fiammingo, i mondi folli di Hieronymus Bosch, con il suo horror vacui, ma a volte anche un architettonico horror pleni quasi bizzantino, con una temperatura cromatica uguale e contraria a quella di Piero Della Francesca. Questo non solo idealmente, ma anche tecnicamente, con l’uso del bitume mescolato all’olio e una pittura che, a volte, fa pensare all’affresco. Ma questi rimandi non annullano minimamente la loro contemporaneità, anche perché nei suoi lavori riecheggiano evidentemente elementi contemporanei, essenzialmente moderni: la sua produzione su formati che vanno dai pochi centimetri quadrati ai quadri che coprono un’intera parete, la totale assenza di bozzetti preparatori in una sorta di dominio dell’intuizione, il rimando ad una certa mostruosità alla Francis Bacon immersa in un genius loci italiano. È così? Come si relaziona alla storia dell’arte?
S.P.: Ha individuato pienamente il “linguaggio” atipico del mio percorso. Il rimando a Bacon (poco citato quando si parla del mio lavoro ma, per me, estremamente presente) mi interessa molto, visto che, tecnicamente, condivido il primo approccio all’opera, istintivo, fisico ed intuitivo, e che, di lui, ammiro da sempre l’estetismo della solitudine dell’essere umano. Inutile dire che il mio legame con la storia dell’arte è fortissimo, basato sul continuo studio, non solo con l’osservazione delle opere rigorosamente dal vivo, ma anche con l’apprendimento delle vicende di vita personali degli autori che amo. Il mio obiettivo è di trarre insegnamenti dai maestri del passato per poter identificare chiaramente il mio ruolo nel contemporaneo. Non amo, invece, quando si utilizza la storia dell’arte come contenitore dal quale attingere in mancanza di idee.
F.G.: Nell’esposizione, tra le tante opere pittoriche, troviamo il video “Pandemonio”, realizzato mettendo in relazione un’opera musicale del suo progetto Macchina Anatomica e l’Intelligenza Artificiale generativa. Il risultato è straniante e sinestetico, angosciante e profondo, misterioso e illuminante (e questo non è per nulla scontato quando pensiamo a questo tipo di operazioni artistiche). Quali sono le motivazioni che hanno spinto un pittore come lei a sperimentare questo tipo di nuove tecnologie?
S.P.: Chi segue il mio lavoro dagli inizi sa che la mia pittura è dominata dalla continua trasformazione. Per me, creare un opera significa principalmente saper accettare il rischio, il pericolo del fallimento, anzi, mi correggo, quasi desiderarne il suo avvicinarsi, aspettando di intravedere il famoso “punto di non ritorno”. Questo perché credo che il miglioramento di un artista avvenga solamente quando lo stesso è disposto ad osare, a percorrere strade in salita, tortuose e difficili, o, come dice David Lynch, a cercare il pesce più grosso tra le acque profonde. In quest’ottica ho voluto offrire al visitatore di “Pandemonio” un punto di vista diverso del concetto e dei parametri della mostra. La modificazione incessante e continua degli algoritmi che creano immagini artificiali ha una similitudine effettiva coi pensieri incrociati, con le influenze reinterpretate, con i procedimenti tecnici assemblati che sono alla base della nascita di un mio quadro. Così, questa diversa dimensione visiva, che contiene anche i suoni da me composti, in qualche modo delinea con maggior completezza i confini di questo “teatro” immaginario.
F.G.: Lei è pittore autodidatta, seppur artista da sempre, essendo anche – e inizialmente – musicista sperimentale di un suono che presenta alcune caratteristiche mimetiche a quelle che sono le sue pennellate. Sembra che, in qualche modo, lei, anche nella sperimentazione di media tanto diversi (o tanto simili?), cerchi modi e percorsi differenti nella presentazione di un topoi universale, un’urgenza che segue e segna tutta la sua sperimentazione artistica. Crede che un avvicinamento alla pittura più “accademico” avrebbe preso le sembianze di una gabbia?
S.P.: Assolutamente. Fin da subito ho allontanato da me ogni “tentazione” di imparare da qualcuno il mestiere del dipingere. E’ un mio personale “credo” che l’azione in pittura non possa essere insegnata. Possono essere insegnate le tecniche per farlo ma non ha nulla a che vedere con lo sviluppo del talento originario di un artista, visto che il saper riprodurre fedelmente un immagine è un procedimento che chiunque, con il duro lavoro e l’impegno costante può raggiungere. Il miglior insegnante è l’artista stesso, la sua capacità di osservazione, il fallimento e l’errore, il lavoro e studio continuo su come le proprie capacità possano “interloquire” con la storia dell’arte ed i suoi maestri. Per rispondere più chiaramente alla sua domanda ,se avessi studiato in accademia non solo mi sarei sentito in gabbia, ma avrei sicuramente smesso di dipingere: non avrei avuto gli strumenti individuali e soprattutto completamente liberi per poter sviluppare un vero dialogo con la mia interiorità, architettura sulla quale tutta la mia produzione si regge.
F.G.: Lei è essenzialmente un pittore figurativo (semplificando colpevolmente in un’etichetta il suo ampio lavoro), fautore, dunque, di un procedimento artistico che tra i suoi alti e bassi nella Storia ha dimostrato la sua immortalità. Nella fitta giungla contemporanea di procedimenti artistici tanto diversi quanto tutti validi, ha senso parlare ancora di “figurativismo” o il formalismo è finalmente diventato desueto? Lei percepisce ancora una tensione nell’eterna battaglia tra figurativismo e concettualismo (non considerando che la stragrande maggioranza delle volte i due termini si penetrano vicendevolmente)?
S.P.: Ancora tanta gente è “affezionata” ai formalismi. E’ estremamente umano cercare di far confluire ogni forma d’arte in generi prestabiliti, ampiamente definiti da regole e strutture. Fornisce leggibilità, gestibilità, archiviazione culturale, comunicabilità. Ed è oltremodo umano amplificare il contrasto tra forme diverse. Sono, probabilmente, battaglie che non moriranno mai. Personalmente non mi pongo il problema: da fruitore seguo l’arte che mi sublima e mi fa ragionare, dove trovo talento, ingegno, lavoro, intelligenza, vita vissuta, narrazione del proprio tempo; da pittore amo la figura perché sono convinto che il bisogno primario dell’uomo (e i graffiti preistorici lo testimoniano), sia quello di raccontare la sua esistenza su questa terra, e per farlo, l’unico modo genuino per l’essere umano è quello di rappresentare se stesso.