Dalla fascia di mezzo si osserva ciò che è oltre da un lato con il microscopio dall’altro con il telescopio.
Edgar Morin
Le presenze che animano gli ultimi lavori di Serena Riglietti, per la prima volta nei tanti anni della sua attività e ricerca, non seguono tracce narrative proposte da scrittori, così, in questo caso, esili figure in transito all’interno di uno spaccato di globo terracqueo, liberate dalla parola, si mettono in gioco mostrando senza limiti e filtri lo sviluppo poetico del suo pensiero artistico, in uno spazio popolato da figure con rimandi all’iconografia delle creature celesti, dove le ali diventano appendici necessarie per mantenere, mantenersi in equilibrio, elementi di congiunzione tra mondo animale e umano, tra cosmo e terra. Ali a volte socchiuse o in una posizione che non suggerisce, nell’immediato, l’azione del volo come percorrenza e viaggio, ma lasciano intatta la possibilità, nell’evidenza della sua probabilità. Presenze consapevoli del potere del silenzio, sublimano l’arte di tacere nell’actio che abbandonato ogni obiettivo di persuasione presente negli antichi modelli politici e religiosi della retorica, amplifica e da voce, attraverso i gesti, ad un silenzio, espanso ed inclusivo, nel quale esperienza, tempo, mondo non si chiudono, a sottolineare la natura mobile e permeabile dell’irreale – ciò di cui non si ha conoscenza – e del reale. Non è dato intuire se gli angeli-presenze, mentre rilevano e determinano la casualità dell’occasione in questa fascia di mezzo dove nulla è dissimulato o nascosto e nulla è totalmente rivelato, vivano, oppure transitino in un clima di scanzonata e circospetta attesa. Gli angeli, presenze discrete e irriverenti, tratteggiati da Serena non appaiono come i diretti discendenti dei demoni della biblica compagnia dei ribelli, segnata dalla caduta del Portatore di Luce. Distanti da Lucifero il distruttore, ambizioso e megalomane, non appartengono neanche alla schiera dei redenti che espiano la colpa in attesa del premio, la contemplazione della luce eterna. E comunque, se qualcuno ritenesse necessario individuarne gli avi, forse un gene ereditario della compagnia dei caduti, rintracciabile negli angeli di Serena, potrebbe appartenere a Belzebù, se non altro perché prima di diventare, da divinità filistea, principe dei demoni nel Nuovo Testamento pare fosse appellato con il nome di signore delle mosche, dall’ebraico Ba῾alzĕbūb. Reietto svolazzante tra gli avanzi di un’umanità viva, sicuramente mostra un lato più umano e terreno del suo omologo biblico, Satana il prescelto che, creato da Dio come il più bello, ricco e glorioso tra gli angeli, accecato dall’invidia per il suo artefice, nei testi sacri, è condannato ad assumere il ruolo del perenne avversario, capace di esprimere tutta la sua aggressività contro gli uomini alla ricerca di una sua personale revanche. Gli angeli di Serena non sono in cerca di vendetta o riscatto e i loro sguardi non raccontano di una condizione umana che oscilla fra il bene e il male, non si allontanano con lo sguardo rivolto alle rovine del passato perché nessuna tempesta, per il momento, agita e impiglia le loro ali né, tanto meno, li spinge verso un ignoto, preoccupante futuro, come scriveva a proposito dell’Angelus Novus di Klee, Walter Benjamin. Non esprimono il tormento della ricerca del superamento dei limiti, perché, consapevoli, li vivono, nel loro poter essere ovunque, liberi nello spazio-cosmo, liberi dall’ansia di una verità inequivocabile, forti di uno sguardo che gli consente di essere contemporaneamente dentro e fuori dal mondo e dal tempo. Non sono toccati dal dualismo corpo anima perché sono, nel loro essere presenti, attenti, curiosi, anarchici, aperti al possibile. Specchi per chi, di volta in volta, li sceglie come riflesso, attivano un flusso di scambio là dove né il corpo rappresentato, né il corpo fisico di chi osserva è un recipiente ermetico, custode impenetrabile, di materia ed emozioni.
Queste strane creature, dal corpo leggero e antropomorfo, in alcuni tratti felino, dallo sguardo attento, lucido e spiazzante, a volte inquietante, osservano e si osservano. Scrutano dal fondo marino, o acquattate e guardinghe da un luogo aereo non ben definito dall’interno del rifugio invisibile di un perimetro personale. Guardano il riflesso in un lago, lontano dalla certezza del delirio di Narciso, tra curiosità, perplessità e volontà di osare. Portano con stridente naturalezza i loro pesi e le loro ferite, lasciano ad altri l’illusione di aver disegnato maschere sul loro volto, o ancora, impegnati in azioni quotidiane a tratti ludiche ma sempre determinate e svincolate da ogni possibile restrizione, si e ci collocano in quello spazio diviso e congiunto dell’io e del noi. Spazio dell’esistenza dove linee s’interrompono e si riallacciano, marcando zone private d’azione indicando, allo stesso tempo, la possibilità di comporre nuovi scenari attraverso combinazioni altre, ricordando che ogni cosa è solo e sempre nel suo divenire. Così pure, orologi, non sincronizzati segnano un tempo che non è il dominus della totalità del cosmo e della vita terrena, agli antipodi di una chioma, nido e gabbia, luogo di gioco e convivenza, d’individualità e unione, ricomposta e delineata da un fitto gioco di rami e sezioni come un globo di meridiani e paralleli non rispondente alla statica misurazione stabilita dall’uomo. Un reticolo dalla morfologia che riunisce, nella visione, l’intreccio dei rami di una chioma, priva di foglie evocate dall’atmosfera dei colori, al reticolo delle radici, dislocando l’alto e il basso della natura – radici e chioma – riunendo in un’unica figura poli agli antipodi – terra e cielo – ribaltando, inoltre, il senso simbolico della funzione della radice, di ancoraggio necessario al primario nutrimento, per aprire, come gli angeli di Serena Riglietti, alla vertigine della consapevolezza che possiamo essere solo se felici migranti nell’universo.