Del nostro scorso Novecento – secolo breve a detta di Hobsbawm – di cui viviamo ancora alcuni lasciti felici (infelici?), Rocco Scotellaro resta una figura talmente singolare e di nicchia da far pensare che gli errori della intellighenzia socialista d’altri tempi abbiano cercato di farlo diventare un poeta laterale (l’etichetta di poeta contadino non è del tutto corretta, né tantomeno l’aver catalogato la sua poesia come «esempio di una cultura populistica ingenua e artificiosa»), un politico locale (non dimentichiamo che nel 1946, a soli ventitré anni, è eletto Sindaco di Tricarico) o peggio ancora uno scrittore dalla scrittura pallida e quasimodea: «rileggendo Scotellaro con occhi puliti», ad avvertirlo è Emilio Isgrò, «un giudizio del genere è semplicemente campato in aria, o va comunque ridimensionato. Perché basta leggere qualche verso per sentire che proprio la musica scotellariana, con tutta la sua cantabilità popolare, è radicalmente diversa da quella ermetica, così come è diversa la musica del pavesiano Lavorare stanca, una esperienza distante ma paradossalmente parallela».
Sullo specchio italiano della cultura il nome di Scotellaro è tuttavia ancora frettolosamente e comodamente etichettato come uno dei maggiori poeti lucani – con Sinisgalli, con Pierro, con Riviello, con Trufelli – o come giovane intellettuale impegnato a descrivere la situazione meridionale (quella questione messa in campo da Giustino Fortunato che ancora scotta a rimuoverne le ceneri poiché «la redenzione delle plebi dalla supina ignoranza e dalla estrema miseria, più che un bisogno, è una imprescindibile necessità nostra», del resto «il paese non è solido finché le classi inferiori sono prive d’ogni tutela, d’ogni patrocinio, d’ogni bene della civiltà»), anche se illo tempore proprio lui, il «giovane uomo dai capelli ricci», così lo descrive Amelia Rosselli, è riuscito finanche a «risvegliare la curiosità» di Bobi Bazlen, uno degli uomini più influenti nella cultura italiana del dopoguerra. «Non sorprende, perciò», la lucida riflessione è di Peppino Appella, «la contemporanea presenza di Scotellaro ai tavoli della Fiaschetteria Beltramme di via della Croce», a cento passi da Piazza di Spagna, «insieme ad Amelia Rosselli (conosciuta a Venezia nel 1950, in occasione del I Congresso della Resistenza, e subito diventata “un sogno di cultura non provinciale, non soffocante, non pettegola”), fianco a fianco con Mino Maccari e Amerigo Bartoli, Alfredo Mezio e Giorgio Bassani, Tito Balestra e Tanino Chiurazzi, Nicola Ciarletta e Libero De Libero, Italo Calvino e Leonardo Sciascia, Ennio Flaiano e un ritrovato Giovannino Russo, sorridente suo compagno di strada nel capoluogo lucano, in un settimanale da titolo esplicativo per un giovane liceale: Potenza fascista».
Scotellaro, ormai lo sappiamo tutti, è stato un giovane intellettuale totale e di grande respiro che ha saputo trasformare il verso poetico nonché la cremosità narrativa in solidarietà umana, in risveglio politico e sociale, in caldo programma didattico (Rocco Mazzarone non a caso ha parlato di una «paradigmatica esperienza pedagogica»), capace di risvegliare ogni animo remissivo per renderlo audace, di convertire la terra in parola, di trasformare il silenzio in riflessione, in spirito d’intraprendenza capace di disegnare l’alba di una nuova coscienza collettiva.
Di recente, a questo personaggio polimorfe d’origini lucane, insieme poeta e socialista, letterario e militante della classe operaia, «sulla scorta di tutte le opere di Rocco Scotellaro pubblicate nel 2019 negli Oscar Mondadori», è stata dedicata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma un’esposizione emozionante – conclusasi da poco, appena lo scorso 19 novembre – il cui titolo, E la mia Patria è dove cresce l’erba (il sottotitolo, 45 artisti per Rocco Scotellaro, indica il nome esatto degli artisti che lo hanno riletto in chiave iconografica), è segnale metodologico, programma aperto all’aperto del mondo: l’erba cresce ovunque e la patria (il paese-patria) per il poeta, si sa, non è altro che il mondo.
Curata e elegantemente impaginata da Peppino Appella al secondo piano della Galleria, negli spazi che affacciano su via Aldrovandi più precisamente, questa mostra mi pare che riapra oggi il dossier Scotellaro per ridefinirlo, per reinquadrarlo, per mostrare finalmente – e una volta per tutte – il volto di uno scrittore la cui scrittura, pregna di realtà e sotto alcuni aspetti neorealista, è stata morbida arma di indefessa difesa, voce sofisticata d’un mondo da sollecitare e destare. «Rocco è del tutto nel mondo contadino, parte di esso per nascita, per costume, per lingua, per solidarietà di natura, e insieme ne è fuori per la sua qualità espressiva», puntualizzerà Carlo Levi: e per inciso Levi accenna anche a una scelta ben precisa (stilistica e politica in Scotellaro), coerente con il proprio sentire.
Gli artisti in mostra sono appunto 45, e devo dire che colpisce ogni singola opera, ogni singolo titolo che richiama un verso, un’atmosfera, una figura. C’è una fragrante tela di Claudio Verna, la cui pittura dà il senso di un campo arato dal vento (Scintille sotto il sole), c’è l’erba vista rasoterra da Ruggiero Savinio (Io sono un filo d’erba) che richiama alla memoria «certi quadri di Joseph Sima», c’è un impareggiabile groviglio plumbeo di Paolo Icaro (Ogni giorno è lunedì “io continuo”: «ho preso in mano un’opera, io continuo, per accompagnare i tuoi versi Ogni giorno è lunedì, per seguire insieme un filo di memorie»), c’è uno straordinario tondo stellato di Giulia Napoleone (Piramidi di stelle) ispirato al verso «le piramidi di stelle in tre quattro punti nel cielo» o ancora un lavoro di Mario Cresci, uno di Giancarlo Limoni e uno di Stefano Di Stasio, artisti d’un’altra generazione, legati al decennio successivo, agli anni Quaranta del secolo scorso. Ad aprire invece quello successivo è Sandro Sanna con Il cielo a bocca aperta, seguito da Ernesto Porcari, da un meraviglioso e a tratti eburneo lavoro di Gregorio Botta (La terra mi tiene), da Giuseppe Modica, da Giuliano Giuliani, da Nunzio (Capostorno è un capolavoro e il suo testo è davvero brillante), da Lucilla Catani, da Roberto Almagno, da Claudio Palmieri, da Giovanni Bolognini, da Giuseppe Salvatori e Gianni Dessì, da Marco Tirelli e Felice Levini, da Enrico Pulsoni il cui Bianco per Rocco sembra librarsi in volo, unire gli inizi e le fini, gli indizi della terra (d’un candido bianco di zinco) e i colori croccanti della poesia: «il bianco della terra», avvisa l’artista, «si sente orfano senza l’apporto dei gialli, delle gamme dei verdi, degli azzurri e del calore del rosso che imperversano […]» continuamente tra le pagine e tra le parole di Scotellaro. Seguono, poi, Salvatore Cuschera con Ora il mare con un occhio solo martella con fatica le sue onde, Andrea Fogli, Franco Fanelli, Giuseppe Caccavale, Elvio Chiricozzi e Elisabetta Benassi.
Eponimo al titolo della mostra è un lavoro di Assadur, mentre E la mia patria è dove l’onda s’infrange è il potente dispositivo offerto da Ciro Vitale: tre libri in cera di diverso colore (bianco, nero, rosso, «rappresentazione simbolica dei principali sistemi politico-ideologici», puntualizza l’artista) su cui affiorano alcuni versi del poeta. Collocato su base, il libro rosso presenta uno spioncino attraverso il quale è possibile guardare un video in cui labili fili d’erba diventano mare e il mare riflessione sulle tragedie attuali.
Nati nello stesso decennio di Vitale (gli anni Settanta), sono Giuseppe Capitano con Sempre nuova è l’alba (ho scelto lo stesso titolo per questo articolo), Giuseppe Ciracì con Fino a te, mare, Pierpaolo Lista con un lavoro lucente (Contadini del Sud) e Francesco Arena con Rocco. Alberto Gianfreda, Laura Paoletti con una delicatissima Vestale solitaria e Ilaria Gasparroni con Io sono uno degli altri, prezioso lavoro in marmo di Carrara che rappresenta una bacheca carica di post-it (di pensieri poetici), sono del decennio successivo.
Di questo viaggio che risale artisticamente le scale del tempo, abbiamo infine Antonio Della Guardia: anche lui ha scelto come Gasparroni Io sono uno degli altri: la sua opera e quella di Veronica Bisesti (Anche una pietra) sono eleganti, preziose come il ricordo di un canto che non sento.
Il catalogo, pubblicato da Silvana Editoriale (120 pagine, 28 euro) è infine un oggetto prezioso, da conservare, leggere e rileggere: accanto agli imperdibili testi di Peppino Appella e di Emilio Isgrò (sua l’elegante cancellazione dell’uva puttanella a pagina 33) ci sono dei piccoli ma suggestivi testi (ora più brevi, ora più discorsivi, ora ancora stringatissimi come «il mio omaggio a Rocco Scotellaro» di Mimmo Paladino) dei vari artisti invitati a rileggere l’opera e inseriti in ordine anagrafico, da Carlo Lorenzetti a Ado Brandimarte con il suo freschissimo e quasi sonoro Vento d’argento.