Abbiamo una disperata, sadica voglia di essere spettatori. Spettatori attivi, radical, dinamici nel gusto. Di quelli che, tailleur, smoking, uova e pomodori in mano, attendono di riempire di mortificazione l’attore: sul suo palco, al suo spettacolo, di fronte la sua platea; subito dopo una gaffe, una battuta dimenticata, uno starnuto, una qualsiasi distrazione… che zac!
Sì, abbiamo una disperata voglia di urlare, di prendere posizione, di bastonare: votando, astenendoci, testimoniando, dedicandoci da maniaci compulsivi ai meriti, alle competenze, alle leggi, alla scienza. Ma solo per aver qualcosa da dire, solo per ridacchiare sotto i baffi; solo per aver ragione e manifestare la nostra ragione da tele-esibizionisti. Ed essere più di quello lì, quello lì, lo vedi? E certo, certo che non lo vedi! Tu esisti, solo tu; mica gli altri. Guarda, tocca… esistono, gli altri. Te l’assicuro, esistono.
Purtroppo, anche se esistono, abbiamo voglia di separarci linneanamente l’un l’altro, di divorziare con il mondo, di divorziare con il senso di umiltà, con il senso di ironia, con il senso di vivere. O almeno, con uno dei suoi paradigmi. Abbiamo voglia di tifare per x e per y, e lapidare con le parole z. Dagli spalti, dagli scranni. Con gli striscioni, con un post, con uno sbam, con un lungo e sciccoso atto di onanismo pubblico; stitici nella comunicazione, asettici nell’etica, diarroici nell’odio. Abbiamo questa disperata voglia di dividerci, e di salvare il mondo affogandolo con il nostro vomito, creando artisticamente un problema. Oh yeah!
Non riusciremo mai a superare noi stessi, facendoci piccoli piccoli, fin quasi a scomparire. Altrimenti non potremmo più castigare e rimproverare: e questo ci piace, ci piace più di ogni altra cosa. Castigare, castigare, castigare. E rimproverare, rimproverare fino a perdere il fiato, e a far perdere il fiato. Che saremmo, privati della complessità?
Il nostro compito, oggi, pare essere quello di sovrapporre ai disagi antichi nuovi miti che evidenziano le espressioni estetiche della nostra malizia (se ci fai caso, eh). È vero: siamo stanchi di tutto, tranne che di giudicare. Ci viene il reflusso ascoltando la cronaca, le contraddizioni spirituali e materiali. Epperò non passiamo più di un minuto senza mandarci all’inferno.
Come si può aver voglia di parlare di una nave e di alcune posizioni politiche. Come si può aver voglia di offendere, santificare, elogiare, stramazzare? Tutto è un brusio di fondo. Il brusio di una massa che migra i suoi pensieri, la sua personalità, tra i liquidi della TV e dello smartphone. E lì annaspa. Lì canticchia, per assordarsi con una vecchia canzone da discoteca, a mo’ di salvifico mantra: «See, touch! See, touch, my baby!».
Sembra di godere l’ultimo spettacolo del mondo, in attesa della pubblicità. Ed è arte, maledetta arte di comunicare (male, e il male), e nient’altro. Ma questo lo sapevi. Perché la tua vera voglia non è parlare, non è odiare. Non lo è mai stato. Tu vuoi amare, ma ancora non hai capito come. Nessuno finora con te l’ha fatto.