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Scacchiera: postmodern o postmortem (III parte)

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“Chi sei?”

“Sono la Morte dell’Arte … Sei pronto a mettere fine al decennio ’70?”

“Lo spirito è pronto, ma il corpo non ancora, abbiamo bisogno di retorica negativa, di allegorie della morte, di scavi nel lirismo della Wehrmacht, di idiozie che piazzano curatori nudi – con i pisellini di fuori – per esaltare ambiguità omofobe e ricchezze di genius loci …”

“È vero che sai far finta di giocare a scacchi?”

“Chi te lo ha detto?”

“Lo narrano le leggende sull’Alchimia del Dadaismo, le mitologie junghiane, i predatori dell’Arte Perduta (1981), le galassie dello spettacolo che si trasformano in mitografie …”.

Così la morte dell’arte degli anni 80 annuncia ad un Cavaliere, di ritorno dalle crociate del nuovo spettacolarismo, che è venuta la sua ora da celebrare in diretta, così come se fosse una diaspora «Engelssturz» nella folgorazione post-moderna. Recentemente è stato possibile ammirare l’immagine di quell’occhio divinatorio sulla scacchiera in una rassegna milanese dedicata a Giorgio de Chirico. In quella sede, il visitatore attento ha potuto ammirare nelle tele metafisiche del Pictor Optimus, dipinto sulla parte superiore delle teste degli enigmatici burattini e racchiuso da due linee scure, proprio il terzo occhio: schiuso, esperto, intimo, allarmante, perso per sempre nel nero che lo costituisce e sorprendentemente, rispetto ai modelli a cui l’autore si è ispirato, privo di iride. Che sia stato distrutto (come scrive Platone nella Repubblica) o addirittura annientato, vittima di quel riflettere l’originario, che l’ha assimilato al suo interno? O è, invece, quell’unica grande pupilla a rappresentare interamente l’occhio divinatorio, dalle capacità visive, dalla straordinaria competenza predittiva, dall’autentica forza educativa, quale «occhio del mondo» impegnato nella conoscenza puramente oggettiva? Scegliendo questa direzione, lo sguardo acquista chiara consapevolezza del mondo e delle cose e lì apprende come sono in sé e per sé nell’intuizione oggettiva.

Sulla Riva della Laguna, non vista dallo scudiero, Ella, la damiera dell’arte, tratta solo con Il Signore degli Anelli e ne accetta la sfida per raccontarci le peggiori giustificazioni della crisi della ragione e dell’anticomunismo. Si sorteggia chi dovrà giocare con il nuovo citazionismo e muovere per primo: alla Morte dell’arte tocca la finzione del tardo neue wilden… e non poteva essere altrimenti. L’ambientazione è Salonicco, che il protagonista soprannomina la «città inquietante», città antropomorfizzata che è insieme uno spazio onirico e testuale. Si impone poi, nel testo La partenza dell’Argonauta, il più lungo tra gli altri, il motivo del viaggio come cammino verso l’ignoto e contemporaneamente attraverso il tempo. Come per gli Argonauti guidati da Giasone alla ricerca del vello d’oro, è la potenza dell’ignoto ad essere messa in evidenza, quel «magnifico prurito dei perché» che spinge l’uomo alla scoperta. Come ci dice lo stesso Kiefer: «Squassato dalla potenza dell’ignoto, l’artista non si lascia abbattere, ma si compone e reagisce […] fino a che, con la tenacia e la perseveranza, non abbia strappato una vastità nel sipario dell’γνωστον (notabile), donde spia, vede … e sorride». C’è, in questa citazione, ripresa da Savinio, quel carattere tipicamente rivolto indietro di chi guarda attraverso l’ignoto e riesce a scorgere ciò che era nascosto; quel carattere, di cui il sorriso, che è un sogghignare, è chiara manifestazione. Qui inizia il viaggio e il treno diventa un «drago terrestre» che trascina il protagonista, una «casa rotabile» alla cui vita lo scrittore si sente intimamente accomunato. Si percepisce chiaro il richiamo alle origini, al treno visto come «casa» con le ruote e al viaggio come riscoperta di se stesso. E la dimensione onirica è spesso richiamata dal continuo alternarsi del sonno e della veglia, descritto con puntualità come a voler scandire un ritmo sacro e inviolabile, un ritmo che spesso diventa così puntuale e ripetitivo da confondere e sfumare i limiti dei due mondi. In questo modo, la narrazione tutta si tinge di sogno e, mentre il lettore scopre di poter attraversare i terreni bui dell’inconscio, il treno stesso assume le fattezze di questo mondo inconscio.

La partita sulla scacchiera procede serrata; e non soltanto sulla damiera, ma nello stesso viaggio degli allievi di Joseph Beuys: i rinnegati della Difesa della natura. Nell’ultimo tratto di cammino che lo separa da Aperto ’80, dai suoi Castelli di fango, c’è l’ombra de Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman. Ma per capire bene il senso di questo lavoro, che stringe sugli ultimi due decenni di condizionamento tra retinico ed aretinico, è necessario tener presente quasi ogni particolare, che nel simbolismo di Bergman coincide quasi sempre con i furori del Neue Wilden, ispirandosi senza dubbio a motivi veramente tradizionali. I peggiori nemici dei rivoluzionari e del processo vandalico dell’Internazionale Situazionista, nell’ultimo capitolo della terza parte di Also Sprach Zarathustra, intitolata appunto “Die Sieben Siegel” (I sette Sigilli), aveva considerato la “vita come un giocare a dadi coi numi … alla mensa degli dei che è il mondo”. Insomma, si tratta di diffondere nullismo fine a se stesso, consenso anti-brechtiano, emulazione di un’immagine che non c’è, un nomadismo di estrema destra che metta fine alla strategia colorata del dopo-anni ’80, che accordi il liberismo che sormonta la post-crisi petrolifera del 1973 e dia adito alla soppressione di tutta l’esperienza situazionista! Come Nietzsche, Bergman cerca il senso della morte al di fuori e al di dentro dell’insulsa pianificazione del mondo moderno; ma l’urgenza di una chiara rotta veramente teleologica e trascendente del nullismo pone il regista su di un piano ben diverso da quello del filosofo tedesco. Il suo film è tutto e soltanto una partita a scacchi con la Morte dell’Arte, anche se di rado, nel corso dei due tempi, lì dove ci è dato di vedere (o forse nascondere) la Morte della Rote Armee Fraktion, nel corso di due tempi, tutto si consuma sulle sponde della scacchiera, alle rive del retinico e dell’aretinico. L’obiettivo li lascia ogni volta al giuoco per volgersi su altre mosse strategiche, a ostentare i personaggi del dramma collettivo mentre Daniel Buren passa dalla “critica istituzionale” all’Istituzione della retorica allestita, sia pure per riprendere più tardi la partita. Il giuoco infatti è continuo; è attorcigliato su se stesso, è giuoco il viaggio di Baselitz e di Kiefer ed è altrettanto giuoco quello di Marina Abramovic ed Eva Hesse: è svago l’intrattenersi col manierismo della morte, portata al supplizio con una retinicità stentata, quasi a carpirle il segreto delle sue più allucinanti testimonianze di compromissione; è giuoco ogni lacerto di immagine, ogni domanda, ogni sguardo della Sfinge!

Georg Baselitz, Camera da letto, 1975

Al vecchio pittore nullista ed espressionista, alla Kiefer, manca la storia. E se ne vanta continuamente mentre finge una ridicola autocommiserazione. Tre semplici norme pratiche gli bastano per regolarsi con il tempo di Emo: gli altri vanno fatti aspettare (se qualcuno chiede un appuntamento urgente è perché lui ha bisogno di te); le situazioni bisogna risolverle subito e definitivamente; se qualcosa non va o si guasta chiamare l’esperto (il più veloce e meno scacchista).Gli altri pittori, le situazioni, le cose, gli oggetti da copiare sono tutti affari da sbrigare (e con cui sbrigarsi). Ascoltare un po’ meglio il proprio nullismo, pensare ad una diversa soluzione, occuparsi personalmente delle cose è così antieconomico! Delegare e decidere, questo è il grande segreto post-moderno! In una società che si pensa creativa, manca il tempo per l’invenzione. Tutto deve essere fatto nell’azzeramento. Il prendersi cura e il pazientarsi sono vizi da vecchi modernisti. Niente ha il giusto tempo per maturare. (Così, contrariamente a quanto si crede, il tempo della scacchiera post-moderna viene, in fondo, capitalizzato molto bene). La contemplazione è un abuso irritante, un vivere alle spalle di chi davvero si dà da fare. Perché contemplare? Per capire qualcosa bastano tre mesi di full immersion nel relativismo. Il giudizio affrettato e tagliente, senza ripensamenti, sostituisce la comprensione. Perdere la durata, diffondere l’indolenza, afferrare l’età … agire su comunicazioni fuori istante. Scacchiere piene di mosse, appesantite dal gioco di migliaia di numeri telefonici e indirizzi importanti che credono nel nullismo (per chi? per che cosa?), che seguono freneticamente gli spostamenti dei proprietari. Uffici stampa devoti sbattuti sulle scrivanie della propaganda nei momenti di collera, pasticciati nei momenti di ansia. Agende di tutto il mondo, unitevi!

Se non si ha più tempo, la vita diventa grossolana. Il nuovo pittore selvaggio e nichilista non può mai avere grandi aspirazioni. I suoi slanci sono controllati (pianificati), i suoi pensieri regolati dalla contabilità del dare e dell’avere, il suo futuro è … la data del giorno dopo. Si riconosce nei messaggi pubblicitari di Palazzo Strozzi. “Io sono Emo”. Una strategia pubblicitaria che significa solo: gli altri si adattino a me che faccio “tendenza” (artistar).

Paradosso: al nuovo nichilista è essenziale la società. La sua società: uno scongiuro alla solitudine. E alla meditazione. Gli altri gli sono fondamentali, purchè siano sempre “nichilisti” e propagandisti e non diano che pensieri di morte. 

Pensare davvero al proprio pessimismo, non si sa come fare. Si ha quasi l’impressione che il nuovo nullismo sia molto poco cinico, non ami molto il suo sferragliare, i suoi desideri di perdita più veri; si appiattisce su modelli che non ha inventato lui, ma che gli danno la sensazione di esserci davvero. Al centro non ha il proprio «io scacchistico», ma un’effimera apparenza duchampiana, un’immagine prepotente che lo ammalia e gli sgretola l’anima. “Io, siamo decadente” = “Io, non psono solo liberal”.

Ricettivo ad una scacchiera eccessivamente rumorosa, il “nuovo selvaggio” è diventato sordo ai propri desideri più silenziosi. Ascoltare le più inaccessibili intimità sarebbe realmente egoista, e poi laggiù si finisce sempre per incontrare anche l’Immagine di Morte: questo sarebbe un nichilismo davvero nuovo sulla piattaforma della scacchiera. Persino la fotografia del film è quasi priva di mezzi toni; ora tutto sembra oscurarsi nell’ombra della Biennale di Transizione, nel bosco e nella tempesta di quel nomadismo che risale all’impianto iconico dell’astrazione; ora tutto sembra somigliare al cimitero di Buchenwald. È il giuoco del retinico e dell’aretinico, è la contesa della “nuova finzione” e del non essere, del sì e del no, del positivo e del negativo, delle istanze dello scacchista neo-fauves e di quello che risente di più del Blaue Reiter! La vita della pittura non è che una dilazione della morte; perché nascita e morte, di fronte al distendersi degli avi del tempo della fine, non sono che due palpiti brevi e serrati. È questo un motivo caro al commissario tedesco Klaus Gallwitz (Padiglione Germania della Biennale dell’80); e lo ritroviamo nelle mostre successive di “Anselm”, quando il cigolio del carro funebre si confonde col vagito di un neonato, mentre il feretro della pittura oscilla come la culla di un atleta. Alla pittura del riverbero spetta sempre la prima mossa, quella più sporca, alla pittura della materia spetta la seconda mossa verso l’ignoto e l’inganno, e in ognuna di quelle mosse il vermiglio del tubetto di colore ostenta qualcosa che ha da essere eterno!

Ciò che, soprattutto nello spegnimento deve ostacolare, sono le parole di Giulio Carlo Argan, una vera e propria radiografia critica:

“Non credo che possa salutarsi come la resurrezione dell’Arte dopo tre giorni dalla sua morte, probabilmente è soltanto un’ultima convulsione … non è la crisi, ma la sua fase terminale: la crisi è cominciata molto prima, ha la sua origine nella debolezza ideologica delle Avanguardie vecchie e nuove, nell’irresolutezza del quadro intellettuale in cui si innervano, nei ripetuti scacchi politici che hanno subito. […] Non credo che l’arte possa sopravvivere alla scaduta idea di valore e all’intenzionalità organizzata del progetto … è irrevocabilmente chiusa l’epoca dei progetti? […] Si assiste allora alla morte lenta dell’immagine prigioniera della materia (e si sente l’eco lontana del materismo delle correnti informali). Perché questo improvviso interesse alla fisicità e quindi alla degradabilità dell’immagine? Si parla di immaginazione castrata, di sessantotto represso, di estrema velleità rivoluzionaria rintuzzata dal sistema. Ma ciò che non vedo è proprio la protesta, la sfida ad una cultura che, autoprogrammata, fa a meno del criticismo e dell’operatività del progetto. È sicuro che, sotto sotto, non siano state allacciate altre intese, e che l’arte si sia posta davvero fuori dal sistema? […] … la prostituzione accettata per sfida fa parte del gioco provocatorio come nella narrativa di Charles Bukowski. Si ritrova un rapporto con la società: non più educativo o edificante, ma di gioco, di rissa, di complicità. Assieme a una torva allegria, per altro, da questa ressa di immagini scatenate promana un acuto sentore di morte” […] (Giulio Carlo Argan, Avanguardia Transavanguardia, Electa, Milano, 1982).

Franz Marc, Horses Resting, 1911

Il confronto con la laguna, con Venezia, è un motivo ricorrente più volte durante tutta la partita a scacchi. È sempre la materia, nel senso metafisico, che si porge alla forma dell’inusitato retinico; laddove la possibilità dell’essere si sfrange su se stesso e sul suo narcisismo; laddove la scacchiera, anche quella materia che assorbe il retinico e l’aretinico, ne è la misteriosa impenetrabilità. Il cavaliere decide di condurre quei saltimbanchi al suo castello, proteggendoli per tutto il cammino attraverso il “bosco heideggeriano”. E la giovane manovalanza “neue wilden” sarà la sola a sopravvivere. Due gli estremi: la tenebra dell’abisso aretinico e la luce del verbo pittorico che il passato non crea più; e nella contesa di quelli, o meglio nella vittoria del verbo sull’abisso, ecco i sette colori dell’arcobaleno post-moderno, come dello smagliante rigoglio dopo una ennesima derealizzazione, dopo un lavacro di morte che spazza via il novum del corpo e la miseria dell’anima. Al rompersi del primo sigillo dell’Apocalisse, appare il Cavallo Bianco di Marcel Duchamp e il Cavaliere del Blaue Reiter. Al quarto fiasco appare la morte che per Nietzsche e Heidegger, è figura maschile. Ma al Settimo Sigillo “ … si fece silenzio nel ciclo per il tempo di circa mezz’ora” (Apocalisse, VIII, 1). È quella la pausa della morte; l’unico momento in cui la morte sembra porsi non tanto per servire alla vita, quanto in sé come tale; è pausa, è silenzio, è sospensione di parola, sospensione del verbo; è dubbio. E anche il vice-cavaliere duchampiano di turno – nel dubbio – teme che tutta la sua esistenza sia un errore. Ridotta nel suo schema essenziale l’arte è contesa con la pena capitale, lo scacco è bianco e nero; ogni colore dell’iride si direbbe vana apparenza, come vane apparenze son credute le visioni del saltimbanco dalla pittura picassiana! C’è poi la figura del Pagliaccio felliniano che fugge nei camerini di Rrose Sélavy. Quando lo scapolo offeso trova la coppia adultera ci si attende il sangue e la vendetta. Non però lo scudiero, l’artista concreto e razionale, che non si entusiasma per gli alti ideali di liberazione in nome dell’arte, e nemmeno si lascia impressionare dagli eventi; egli prevede già che l’astuta concubina quieterà lo scapolo con la promessa dei piatti prelibati. Prevede il momento di come andranno le cose tra Rrose Sélavy e il marito, con «l’autoritratto» firmato da Carla Lonzi! Eppure il suo non vorrebbe essere un cinismo. Sono invece classicisti e new-dadaisti, con l’acrobata scapolo e galante, ad apparirci oltremodo ridicoli … e borghesi! Infatti, se il fantino è l’artista, nel senso universale del termine; i saltimbanchi, con Nietzsche e Heidegger, sono la società del nostro tempo: l’artista della produzione e gli istrioni. Un genere di artisti, questi ultimi, che nel medioevo era posto al bando, ma che oggi – sia col divismo, sia con il costume politico tribunizio e parlamentare – costituisce l’elite ormai qualificata dagli applausi delle folle. Ed è una società moribonda che sembra essere giunta ad un punto morto e, pertanto, anche se disperatamente, è inevitabile il divenire, ora, più di ogni giorno. Il saltimbanco muore nel Parco Lambro, ridicolo come è vissuto, senza nulla capire dell’arte; mentre uno spoliatore di “cadaveri squisiti” – il profittatore che specula sulle disgrazie – crea peste senza riuscire ad unirsi al Manifesto del Nuovo-Nuovo Post-moderno!

Gli altri muoiono al Castello; finiscono i loro giorni concludendo il viaggio. Ed è merito del dadaista che li ha guidati e protetti giocando viso a viso con la Morte dell’Arte; è merito di una tradizione che nella sfida perenne alla Morte sa ritrovare il senso della storia di tutta l’umanità. La dama, che sola attende al Castello il suo Cavaliere, è sposa e madre a un tempo, è il principio e la fine dell’arte. “Ti sei pentito di quello che hai fatto?” chiede al marito che torna dalla crociata; e nell’aristocratica fermezza dei suoi occhi c’è un’ombra di timore: “No, non sono pentito; sono soltanto un po’ stanco”. È quella stanchezza il segno evidente che, ora, anche il corpo della performance è pronto a morire. E la sposa, al sentire che il suo uomo non è pentito d’aver combattuto per la guerra santa, subito si rasserena, e apparecchia la mensa.

Ecco infine la pausa nera della scacchiera della morte. Uno per uno gli scacchisti sono chiamati al trapasso. Lo scudiero, positivo e razionale, muore dignitosamente protestando; anche perché la ragione è, di per sé, arte. La dama dello scudiero – il sentimento estetico dell’anima onesta – accetta la morte inginocchiandosi in silenzioso atto di fede. Sopravvive la giovane famiglia di saltimbanchi fuggita col carro. Una fortunosa interruzione del gioco a scacchi aveva infatti permesso al buon saltimbanco di scorgere la Morte dell’Arte e di abbandonare la comunità di artisti. Il giovane musicista emergente è un mansueto; è artista da poco anche lui, ma è docile alla grazia di Dio che per il suo sangue prepara la riscossa sul perfido; prepara la nuova forza di un nuovo mondo santamente equestre. Il giovane musicista dei due saltimbanchi si chiama Sterminio. È il nome del Diavolo vittorioso su qualsiasi altro artista e curatore; è nome che, nel dialetto e nel gergo dell’arte, si legge: “Chi come la Morte dell’Arte?”. 

E, dunque, sfida delle tenebre, dell’essere al nulla, al male. Bergman ha sentito che il senso della vita ha da cercarsi nel pervenire; ma non come per Nietzsche, nelle nozze dell’eterno ritorno, bensì nel ritorno per l’eternità; nel pervenire uno e irripetibile. Kiefer ha intuito che il senso della vita è da trovarsi nel fine ultimo, là dove le vane gesta del mondo cadono giù come le stelle della volta celeste, là dove i tempi si fanno eternità nelle nozze col fegato della pittura; e la stessa Morte dell’Arte, quasi festante, tutto trascina nel Cielo con le vite degli artisti salvi. Oggi, con le scacchiere in briciole e gli stessi curatori ridimensionati, il nodo delle designazioni torna in versione Novecentista. Si mettono assieme personalità indigene, notabili di umili gruzzoli, podisti inesausti da uno schieramento all’altro. Si recuperano volti mediatici e episodi personali in grado di scuotere un sistema funerario, che tuttavia appare inalterabile alla facile seduzione. 

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