Si è concluso in questi giorni il viaggio di una vita di Sarenco, all’anagrafe Isaia Mabellini, nato nel 1945 a Vobarno in provincia di Brescia. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo si sarà certamente stupito dell’unicità e della vivacità di questo artista. La malattia che lo ha accompagnato in questi ultimi anni della sua vita non gli ha comunque impedito di lavorare, di dedicarsi appieno alla sua ricerca di artista e di poeta visivo. Nella sua ultima personale Caravanserraglio (maggio – luglio 2016) presso la Fondazione 107 di Torino si è potuto cogliere tutta l’essenza artistica e poetica di questo grande maestro.
Sintesi del suo lavoro dalle origini a oggi, il caravanserraglio è stato il giusto luogo dove fermarsi per eseguire una breve ricognizione sul proprio operato e poter proseguire così per la propria destinazione. I 200 lavori realizzati da Sarenco in questo suo lungo periodo di convalescenza sono a suo dire la ricostruzione della storia dei temi originari del suo impegno come poeta visivo.
La malattia, come mi spiegò in una lunga chiacchierata in occasione della mostra, lo aveva spinto a memorizzare tutta la sua vita di artista. Infatti, quello che andò in scena alla Fondazione 107 fu proprio un lavoro sulla memoria, ogni opera era legata a diversi momenti della sua vita creativa in cui spiccava il grande amore per l’Africa dove risiedette quasi stabilmente per trent’anni prima di rientrare definitivamente in Italia.
Dalle sue parole traspariva un forte vitalismo e un’insaziabile desiderio continuo di dedicarsi alla sua arte, alla poesia, attraverso la pubblicazione di testi teorici, racconti e romanzi di cui ne programmava l’uscita nei prossimi anni in almeno dodici volumi. Infatti, volle subito precisare la sua identità poetica dichiarando di aver composto la sua prima poesia a soli sedici anni. Ma è con l’iscrizione nel 1963 all’Università di Milano alla facoltà di filosofia che durante il corso di estetica tenuto da Gillo Dorfles scopre la sua natura di poeta visivo. Grazie a Dorfles entra, quindi, in contatto con altri artisti di molto più grandi di lui: Ugo Carrega, Jean-François Bory, Julien Blaine e Eugenio Miccini.
L’incessante amore per la poesia fu sempre espresso attraverso l’ironia come mi fece egli stesso notare ricordando un episodio della Biennale di Siviglia del 2004 diretta da Harald Szeemann, «uno dei più grandi amici della mia vita». In quell’occasione Sarenco promise di rivelare al grande curatore svizzero, qualora lo avesse invitato alla biennale, il segreto dei suoi lavori Artisti sconosciuti. Purtroppo non riuscì a rivelare all’amico tale segreto poiché quest’ultimo sarebbe scomparso l’anno successivo. Nel merito, il suo caustico lavoro si basava sulla mancata ricezione della corrispondenza a dimostrazione dell’inesistenza, e forse anche dell’inconsistenza, di alcuni noti artisti. Era forte il suo dissenso verso il mondo dell’arte che attribuisce riconoscimenti a vario titolo ad artisti, e a presunti tali, per i quali Sarenco provava pena perché ritenuti semplici impiegati e, a suo modo, mi espresse un giudizio chiaro e diretto: «Non tollero quasi tutti gli artisti. Sono tutti stronzi e si credono dei geni».
Proprio lui mi disse questo, lui che aveva conosciuto uno dei più grandi artisti del Novecento, Joseph Beuys e con il quale aveva stretto una sincera e duratura amicizia tanto da avergli dedicato una poesia dopo la sua morte (Joseph Beuys Photostory, 1987).
Ma Sarenco non è solo dissacrazione e beffarda ironia, egli non rompe con l’arte del passato anzi l’ha ben presente e la supera con un balzo in avanti tipico della sua arte ponendosi una domanda che racchiude in sé tutta la cultura legata all’arte ufficiale: Il fu-turismo? (1979). Sarenco irride sui fatti della storia e replica dopo circa quattro anni questo suo gioco ironico scomponendo Marinetti in mari-netti. Da questo gioco di parole il lavoro di una lapide funeraria in marmo con lettere in bronzo: Fu-turismo? Sì con i Mari-netti!
«C’è già tutta la storia nella parola. È già tutto dato, è che la gente non ci pensa. La gente è distratta». Infatti, la gente non pensa, è distratta, non si accorge di aver perso uno dei maestri della Poesia Visiva, un uomo profondamente legato alla vita e ai suoi “maestri culturali” in campo letterario, artistico e poetico: Apollinaire, Marinetti, Breton e Tzara a cui dedica una grande scultura lignea. Figure allungate “alla Giacometti” per rappresentare la loro grandezza, «sono i più grandi di tutti, battono tutti, e poi diventano fantasmi della storia». “Spiriti potenti” in grado di redarguire il poeta impenitente il quale Sarenco sa di essere, lo dimostra il suo Manifesto per i miei cari amici poeti (1984), una dichiarazione d’azione e di appartenenza alla poesia, un inno alla vita senza vincoli e ipocrisie. E così, infatti, Sarenco visse libero nel pensiero e nel corpo di intraprendere un viaggio verso la conoscenza del mondo e degli uomini. L’essere giunto in Africa, terra primordiale dalle culture ancestrali, è sicuramente un passaggio obbligato per un tenace viaggiatore che mal sopportava l’eurocentrismo. Un esploratore assetato di vita e di conoscenza, uno sciamano che nell’approssimarsi alla fine del suo viaggio volle esprimersi nuovamente attraverso la scrittura. Ne Il Viaggio, «uno dei testi più belli che ho mai scritto nella mia vita», sono presenti in nuce tutti gli elementi che hanno reso grande questo artista. Lui che voleva “toccare il mondo con le mani”, risalire al vero significato delle parole da cui poter attingere per poi scagliarle con forza attraverso la poesia visiva.
Di tutto questo lungo conversare la dichiarazione più volte ripetuta «è stata una bella vita, sono una persona estremamente felice» è ciò che più rimarrà nella memoria di coloro che lo hanno accompagnato lungo questo safari. Questo viaggio, tipico della cultura araba che prevede lo spostamento da un punto a un altro, Sarenco l’ha nuovamente intrapreso verso chissà quali altri luoghi dell’arte.
Vorrei congedarmi da questo generoso artista con un estratto del suo Manifesto per i miei cari amici poeti dato che, da ateo integralista, lo ha voluto come sua lettura funeraria.
Miei cari amici poeti:
non siete fatti per la storia
che ha le sue regole e le sue esigenze,
non siete fatti per l’amore
che ha le sue convenzioni,
non siete fatti per il popolo,
che ha le sue ragioni.
Potreste invocare le muse spietate
sorde al richiamo della poesia
da quando l’ultimo poeta
si è tolto la vita invano
sulle barricate della gloria.
Tante volte penso che stiate bene morti
e spesso voglio udire la vostra voce
al di sopra delle altre
che copra il brusio degli imbecilli
che circolano impuniti.
Miei cari amici poeti,
abbiamo solo bisogno di cure primaverili
per la nostra bellezza.
Non rimpiangiamo i nostri anni,
non li abbiamo vissuti:
eravamo degli dei.Un po’ di charme, un po’ di follia
per la nostra poesia.Miei cari amici poeti, io sono come voi.