Alessandra Angelucci, classe 1978, è stimata collega, docente di Lettere, critico d’arte e giornalista attiva al quotidiano «La Città» di Teramo, l’allegato de «Il Resto del Carlino», ma anche alle riviste specializzate d’arte «Exibart» e «Contemporart», oltre che conduttrice della rubrica radiofonica Colazione da Alessandra, in onda due volte al mese su Radio G Giulianova.
Proprio da questo programma sono estrapolate alcune delle interviste raccolte nel suo ultimo libro intitolato Il Rovescio delle Lettere, volume che raccoglie e condensa la sua esperienza da giornalista nel mondo dell’arte, attraverso la trascrizione d’incontri con artisti di generazioni e formazione diverse, fra cui, tanto per citarne alcuni: Alberto Di Fabio, Luca Alinari, Omar Galliani, Fathi Hassan, Rabarama, Giuseppe Stampone ma anche i più giovani Maurizio Viceré ed Elena Bellantoni, o figure trasversali come Luca Bigazzi (direttore della fotografia de La grande bellezza di Paolo Sorrentino) e Gianluigi Colin (storico Art Director del «Corriere della Sera»). Ma nel libro ci sono anche le conversazioni con critici e curatori come Achille Bonito Oliva, quelle con direttori di Musei, Fondazioni e Gallerie private, e con autori di libri impegnati nella divulgazione artistica o nel narrare temi sociali, politici o che hanno a che fare con la preservazione della memoria. È questo il caso di Edith Bruck, testimone della Shoah o di Tony Gentile, autore di un volume fotografico sulla storia della mafia siciliana e celebre per lo scatto del 1992 che ritrae Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sorridenti, divenuto il manifesto di una generazione in lotta.
Invertiamo i ruoli e oggi l’intervistata è lei, Alessandra Angelucci.
Maria Letizia Paiato. In questa raccolta d’interviste, ho notato dei termini ricorrenti che si evidenziano in più conversazioni: Bellezza, Resistenza, Informazione, Provocazione, Natura-Spirito, Femminile, Volo, Viaggio, Parola, Comunicazione. In più occasioni gli artisti, ma anche i critici da te intervistati denunciano, chi più apertamente, chi più velatamente, una sorta di mancanza collettiva del senso di Bellezza, cui rispondono con un atto di resistenza che si palesa nell’ostinazione di portare avanti il proprio progetto di ricerca, comunicandolo attraverso un gesto che è poetico ma anche politico. Tu pensi che oggi l’arte in Italia possa occuparsi anche solo di se stessa? Guardare alla sola dimensione estetica? O credi ci sia bisogno di una presenza sociale dell’artista più incisiva? Ti seguo spesso sui social e so che assegni alle parole un significato importante, quale dai tu a quelle che ho evidenziato? Ti sembra emergano nel tuo volume?
Alessandra Angelucci: «La parola è l’atto costitutivo dell’essere uomo. Essere consapevoli di ciò significa esserlo anche di se stessi e di ciò che ci circonda. È un po’ come per gli artisti avere coscienza della funzione della luce, e dunque dell’origine del colore. La tua domanda mi rimanda a una considerazione di Franco Loi: oggi “viene a mancare persino l’educazione alla parola. C’è una confusione dei significati che contribuisce ulteriormente alla confusione dei valori, e aggrava la servitù a tutto ciò che viene dall’esterno” (“Educare la parola”, Editrice La scuola). Essendo io anche docente, confrontandomi tutti i giorni con i ragazzi e prendendo atto della povertà del loro lessico (le cui ragioni non stiamo qui ad analizzare), credo che tornare a prendersi cura di questo aspetto – anche della semplice comunicazione quotidiana – sia un buon punto di partenza per ricreare una “stabilità di significato” e “un dialogo in cui riconoscersi”. Da qui anche il fine della collana d’arte Fili d’erba che dirigo per la Di Felice Edizioni, nata con l’intento di collocare al centro l’artista attraverso il racconto di se stesso. Attraverso la parola, non l’immagine.
I termini che hai citato sono tutti figli delle interviste articolate nel libro e legati da un sottile file rouge rintracciabile nell’uomo e nella sua potenziale forza d’azione. In un ipotetico abbecedario – e proseguendo per metafora – potrebbero rappresentare i volti che, passo dopo passo, si svelano all’interno di una matrioska. Di fronte a una scultura o a un’installazione è anche così: qualcosa si coglie, qualcosa sfugge; qualcosa è immediatamente decifrabile grazie ai codici interpretativi, qualcosa è residuale, latente, non sempre dato. Non penso che l’arte possa guardare alla sola dimensione estetica. Quando la significazione di un’opera d’arte si misura sul bello, bisogna comunque fare i conti con quelli che Diderot definiva i “qualitativi di relazione”, “la percezione dei rapporti” o “la bellezza – appunto – intesa come qualcosa che nonostante la sua origine “fattizia” si avvicina all’idea di una vera e propria condizione, di un presupposto trascendentale “storico-naturalistico” o di un principio estetico che insieme alla riflessione rende possibile una coerente attribuzione di senso a questa e a quell’esperienza determinata”. E secondo me, oggi più che mai, l’attribuzione di senso di un’opera d’arte germina soprattutto “in rapporto” al contesto sociale. Lo dico anche perché sono d’accordo con Ágnes Heller, quando sostiene che “la bellezza è forse l’idea più ambigua che sia scaturita dal vocabolario dell’uomo”(“La bellezza (non) ci salverà”, Edizioni Il Margine).
MLP Nell’intervistare personalità così diverse, hai percepito se l’arte contemporanea è sentita come qualcosa di elitario? O ti è parso che emerga un desiderio di penetrare il tessuto sociale dal basso? In questi giorni si parla molto di “mediocrazia”, pensi che l’arte, possa riorganizzare il proprio comunicare per elevare il livello medio di cultura in questo paese? O è una partita persa?
A.A.: «È una domanda – questa – che meriterebbe un approfondimento a parte, perché spinge subito a collocare al centro l’importanza delle istituzioni cui è affidato l’arduo compito di educare e formare i giovani, senza dimenticare quelle cui si richiede di promuovere e sostenere la ricerca e la tutela del patrimonio. Non si può comprendere ciò che non si conosce: è un fatto. E converrai con me che la storia artistica del nostro paese, con cui tutti i creativi sono in qualche modo costretti a confrontarsi, spinge ancora a guardare con un certo pregiudizio i linguaggi espressivi contemporanei. Questo perché l’arte viene ancora intesa da molti così come accadeva nel Medioevo, quando la condizione dell’artista era legata a quella artigianale. Con il termine “Arte”, infatti, ci si avvicinava – allora – al concetto di abilità e si indicavano linguaggi espressivi più prossimi alla scienza e alle attività manuali che all’arte nel senso attuale. Per questo, dunque, credo che l’arte contemporanea possa essere intesa ed interpretata dai fruitori come qualcosa di elitario, cioè un mondo a cui non tutti riescono ad avvicinarsi spontaneamente, perché il confronto con la storia dell’arte medievale e rinascimentale ha un suo peso, ma anche perché nelle scuole non arriva ancora un concetto fondamentale: il Contemporaneo artistico e letterario costituisce la base di orientamento delle giovani generazioni che purtroppo, invece, continuano ad essere schiacciate da programmi scolastici vecchi, ripetitivi, dove il gancio con il mondo reale è fiacco, quasi inesistente. La “mediocrazia” è il verme nella mela dell’attuale sistema culturale italiano, intendendo con tale termine non una realtà di incompetenti, ce ne faremmo una ragione; peggio ancora una realtà che si è stratificata, giorno dopo giorno, sulla scelta di individui mediamente competenti a discapito dei supercompetenti. Un sistema culturale basato sulla “mediocrazia” è più facile da controllare e soffoca lo spirito critico di quelle menti più agili, argute e preparate che – entrando in un’ipotetica stanza dei “stanza dei bottoni” – sarebbero pronte a mettere in discussione il potere dall’interno. Parlare di arte significa parlare di cultura; parlare di cultura significa parlare di educazione. La partita in gioco che giochiamo oggi non investe solo l’arte, ma tutta la rete delle istituzioni deputate alla formazione degli individui e alla conoscenza dell’intero nostro patrimonio».
MLP. Mi ha particolarmente colpita l’intervista a Fathi Hassan, artista egiziano, transitato per l’Italia e ora residente a Edimburgo, che alla fine ha preferito migrare a nord piuttosto che restare qui a fare l’artista, sostenendo in sostanza che da noi c’è un eccesso di creatività che genera “saltimbanchi e furbetti”, rendendo difficile ai professionisti emergere con successo. Sei d’accordo? E’ davvero così? Nella tua esperienza giornalistica e di critico d’arte come ti muovi per discernere ciò che si definisce arte? Forse è ora di ricominciare a chiedere il pedigree agli artisti? Un po’ come ha fatto Okwui Enwezor nell’ultima biennale, sovvertendo quanto sdoganato da Gioni nel 2013 che ha inserito opere e presenze non provenienti da ambiti prettamente artistici?
A.A.: «La storia di Fathi Hassan è a dir poco poetica. Nel libro “Un africano caduto dal cielo”, uscito nel 2014 con la collana fili d’erba, c’è tutta la sua essenza e il ricordo del suo esodo dalla Nubia. È vero che ha preferito Edimburgo all’Italia, ma è vero anche che all’Italia deve molto: il suo essere stato ri-conosciuto, l’essere stato il primo artista di origine africana a partecipare alla Biennale di Venezia (Spazio Aperto 88 della XXIII edizione). In Italia non è facile, oggi, per un artista, arrivare ai galleristi e farsi conoscere al pubblico. In passato si tessevano contatti diretti: si andava in galleria per mostrare i propri lavori, e qualcosa accadeva; oggi, invece, è tutto più complesso: sono in tanti quelli che si lamentano di non ottenere neppure un appuntamento o una risposta via e-mail. Per i giovani è davvero complicato, soprattutto perché il mondo della creatività si basa su una costante ricerca che richiede un dispendio notevole di risorse, soprattutto economiche. Nel concreto il mondo dell’arte deborda, è sotto gli occhi di tutti: un’accurata e maggiore selezione non guasterebbe. Personalmente rimango sempre colpita dall’autenticità e sono poco interessata a quel linguaggio che restituisce un eccessivo citazionismo».
MLP Fra le interviste ai critici, quella che mi ha turbata di più è quella ad Achille Bonito Oliva, perché parla di noi critici e curatori d’arte. Dice apertamente che siamo in un periodo di “sopravvivenza”, dove c’è “un numero di disoccupati che si sentono dei curatori, ma che in realtà, fanno solo manutenzione: non hanno cultura, non hanno intelligenza critica […] non sono alternativi alla sua generazione”. Non siamo dei “critici totalizzanti”, non pubblichiamo libri, non scriviamo sui quotidiani, non insegniamo nelle Università. Non ti sembra un giudizio troppo duro? Non sarà che oggi, invece, se pur dotati di qualità, si sia ridotto l’accesso ai luoghi dove produrre pensiero? Ma aggiungo anche, non credi che per le donne tutto ciò sia ancora più difficile? Alla fine, scorrendo i nomi dei tuoi intervistati, balza all’occhio l’esiguo numero di presenza femminili. Cosa ne pensi?
A.A.: «Credo che la verità stia nel mezzo. Bonito Oliva ci ha abituati, nel corso del tempo, al valore della provocazione, nell’arte come nella vita: un atteggiamento che scardina il precostituito e sveglia l’addormentato. Nella provocazione che si lancia non affonda il giudizio, secondo me, ma la volontà cosciente di scuotere, di creare appunto una scossa: un movimento che, dall’ipocentro delle coscienze di chi opera nel campo dell’arte, arrivi alle zolle più superficiali del vivere – l’epicentro, appunto – per creare azioni altre, nuove, di pensiero, persino sconcertanti, ma azioni. E l’agire – consapevole e selettivo – forse è qualcosa che manca al nostro tempo, alle generazioni più giovani, purtroppo disorientate e fagocitate da una proposta artistica dove spesso è davvero difficile distinguere il talento, essere “cacciatori”. Certo, negli anni Sessanta, in modo particolare, muoversi nel campo dell’arte significava essere immersi in un continuo e favorevole processo osmotico. Basti pensare al Gruppo 63 e alla Roma del tempo: arte, cinema, letteratura, giornalismo, teatro, tutto era sconfinamento e nutrimento. Essere totalizzanti – volendolo – non era soltanto un sogno. La speranza di “essere” attraverso il “fare” era una concreta possibilità. Oggi “essere” è una tiepida dimensione che non trova sempre sostegno nella possibilità del “fare”. Ai curatori attuali non mancano le qualità e le abilità ma dall’altra parte, come tu affermi, “si è ridotto l’accesso ai luoghi dove produrre pensiero”. E – aggiungerei – “una grande abilità senza discernimento fa quasi sempre una fine tragica” (Léon Gambetta). Totalizzanti o no, credo sia più urgente recuperare – a fronte di una consolidata ed acquisita conoscenza del proprio mestiere – una efficace capacità di discernimento, intesa come impegno nel valutare una situazione, al fine di operare scelte corrette ed oculate nella realtà lavorativa in cui ci si muove. Le donne? Non mi piace pensare alla forza dell’arte e del pensiero critico secondo una declinazione di genere, ma il problema esiste, da sempre. Penso a due libri: “Perché non ci sono state grandi artiste” di Linda Nochlin e “Quando anche le donne si misero a dipingere” di Anna Banti. Sottolineo: “anche le donne”. Senza escludere le recenti dichiarazioni di Marina Abramović, secondo la quale le donne artiste sono meno forti degli uomini perché non rinunciano ai figli e all’amore per la famiglia. Non condivido affatto».
MLP Anni fa, nel 2011 ho preso parte a un convegno organizzato dall’Università di Ferrara sul tema dello stato dell’arte fra formazione e comunicazione. Manuela Gandini nel suo intervento afferma che il giornalismo d’arte in Italia non esiste perché siamo una categoria tendente a “assecondare, compiacere e descrivere impersonalmente ciò che viene recensito” (M. Gandini, Lo stato dell’arte fra formazione e comunicazione – Atti del Convegno, Unife, Aracne 2011). Sei d’accordo con questa affermazione? Posto che dal mio punto di vista ciò non riguarda il solo settore artistico ma tutto il mondo del giornalismo italiano, forse dobbiamo esporci di più? Rischiando di essere in una qualche misura voci fuori dal coro?
A.A.: «L’arte produce nuovi processi di conoscenza. È “un inciampo”, direbbe ABO, che dà “la capacità di attivare l’attenzione di chi vive distratto nella società”. Il giornalista che si occupa di cultura non dovrebbe esprimere giudizi, ma muovere riflessioni, riportando i fatti con spirito critico. Figuriamoci compiacere. Questo attiene alla deontologia professionale. Come sostiene Tullio De Mauro ne “La cultura degli italiani”, “il rapporto con i potentati economici e la dipendenza dalla pubblicità hanno costretto gran parte dei giornali a una chiassosa effervescenza”. Sì, credo che ci sia bisogno anche nel mondo giornalistico italiano di tornare ad “inciampare” – in questo caso sull’inchiostro – volendo intendere per “inciampo” la capacità dei giornalisti di essere più coraggiosi nella scrittura, cercando di mettere in risalto anche quello che “nuoce” alla vita del sistema dell’arte, e culturale in genere. Meno glamour e divismo. Solleticare il dubbio è segno di intelligenza; quando accade, i paraocchi cadono all’improvviso e un buon giornalista non dovrebbe mai scrivere pensando di avere di fronte un lettore disattento, per non dire sciocco. Come un insegnante, in classe, non dovrebbe mai fare una lezione, pensando di avere di fronte alunni “ignoranti”. Il lettore dei quotidiani e delle riviste di settore comprende spesso cosa “scivola” fra un’interlinea e un’altra. Non si può cadere nella presunzione di poter cambiare le cose “con la penna” – certo – sarebbe un’intenzione errata a priori. Ma scrivere sempre con responsabilità, sì: questo è un dovere. Come dovrebbe esserlo offrire finestre nuove di pensiero. E non è poco in questa società abulica. Hai detto bene: “essere in qualche misura voci fuori dal coro”. Delineare con le parole quello che potrebbe definirsi il sospetto di un futuro piuttosto che la utopica certezza di un presente. Tornare ad essere dei “corsari”. Magari!».