C’è un famoso epitaffio a Montmartre,“Arrigo Beyle milanese” , che, per quanto sembri curioso, corrisponde al nome naturalizzato di uno scrittore francese, Stendhal. Giunto a Milano il 10 giugno del 1800 al seguito dell’esercito di Napoleone, Henry Beyle, è il vero nome, rimase talmente colpito dall’effervescenza culturale della città che i suoi soggiorni non solo si moltiplicarono ma appunto, lo portò a sentirsi “milanese” per tutta la vita e oltre. D’altronde, in quegli anni Milano costituiva un punto di osservazione privilegiato per comprendere gli affanni di scrittori e intellettuali in cerca di una identità che fosse finalmente “italiana”. La città era un incubatore di idee, vera e propria fucina di sperimentazioni e prospettive future. Era la Milano capitale della Repubblica Cisapina ma anche del Regno fino al 1814, la Milano degli Scapigliati, e poi di Manzoni , una città aperta verso l’Europa del progresso soprattutto grazie all’impulso fornito da Carlo Cattaneo e il suo Politecnico. Centro dell’editoria e dello spettacolo, Milano, guardando ben oltre la pittura di Francesco Hayez, si scopre centro di una fitta rete di scambi culturali e adesso anche artistici, chiariti con la mostra “Romanticismo” in chiusura alle Gallerie d’Italia e al Museo Poldi Pezzoli. Ma la mappatura dell’arte romantica italiana che presenta un numero considerevole di artisti come Hayez, Appiani, o quelli considerati minori come Bisi, Induno, Molteni, Gigola, non resta confinata alla Lombardia o al nord: ci sono espressioni meridionali come la Scuola di Posillipo composta da Fergola ma anche da artisti stranieri come Sminck van Pitloo, che ne era il caposcuola. Ciò che la mostra, curata da Fernando Mazzocca, sottolinea è che il primato in scultura dell’estetica neoclassica non venne meno neppure in quest’epoca convulsa di rivolgimenti politici.
Se Roma poteva vantare la presenza di artisti come Canova e Thorvaldsen, a Carrara operava Pietro Tenerani di cui ci sono in mostra due sorprendenti sculture; e a Firenze, Lorenzo Bartolini. Oltretutto, ciò che di innovativo succede in questi anni è che oltre la scultura eroica, oltre il superamento del canone di bello ideale, nell’arte italiana e a Milano in particolare, poiché essa aveva assistito direttamente alle polemiche tra il segno “classico” e il “romantico” del 1819, si vedeva comparire finalmente ed elevata al rango di soggetto artistico non soltanto il paesaggio ma anche la figura umile, diseredata. “Masaniello” di Puttinari, del 1845, è una delle prime sculture a tradurre in marmo un brano apparentemente di banale quotidianità. Questo tratto era soltanto la premessa per ciò che diventeranno gli “umili” di Verga (1881 “I Malavoglia”) e senz’altro, una lezione imparata da Manzoni (1827 i “Promessi Sposi”). Presenti ovunque, da nord a sud, e oltre i confini italici, sono vedute e paesaggi. Questi si che riassumono visivamente l’aspirazione poetica all’infinito di Leopardi. Non è un caso, infatti se il motivo iconografico della finestra (sulla città, sullo studio, ecc.) ricorre in modo intenso. L’artista adesso scruta il reale attraverso questo affaccio sul mondo; e la natura, sublime o spaventosa che sia, esprime la dimensione più intima e individuale degli uomini e delle donne del tempo.