La produzione dell’appena scomparso Luca Maria Patella è un esempio chiarissimo di un’attitudine essenziale dell’arte contemporanea. Un atteggiamento irrinunciabile, che non vede nella sperimentazione qualcosa di fine a sé stesso e che però, proprio per questo, appare in grado di formalizzare i tentativi più inaspettati. Si tratta specificamente di prendere atto d’una complessità che non concerne solo il “mondo” e che quindi non può essere ricomposta o addirittura redenta dall’ordine più o meno sensato che un artista ricerca nelle opere; una complessità “caotica” che travolge ogni specialismo, ogni formula estetica, e che di conseguenza mina la possibilità di adagiarsi in etichette e classificazioni. Non a caso, in non pochi scritti apparsi in questi giorni per commemorare Patella viene costantemente sottolineata la tipicità inclassificabile della sua produzione, aperta a pratiche differenti e in apparenza inconciliabili.
Patella infatti era Atopos. Cito qui una definizione teorica (non riferita a Patella, del resto) di Franco Rella. [A Rella intendo dedicare uno scritto argomentato, nel prossimo futuro]. L’opera “atopica” “ci desitua nel dappertutto di un’esperienza del mondo, che ci spinge al di là dei nostri confini, al di là dei confini consueti”.
Quanto fosse irriducibilmente “atopico” l’atteggiamento di Patella è noto a chiunque si sia confrontato con lui e/o con la messe di opere (non di rado realizzate in collaborazione con la moglie Rosa Foschi), documentazioni, “gazzette ufficiali e ufficiose”, testi, fotografie, ecc.
Propongo qui due testimonianze, ben diverse, del suo atteggiamento. All’inizio dell’ “emisfero Sud” di Prolegomeni all’atlante speciale di Luca Patella (1978; il libro si divide in due “emisferi”, ovvero due blocchi di pagine contrapposti specularmente e invertiti: la prima di copertina è anche la quarta, e viceversa…) Patella scrive (e si badi: l’elemento tipografico e soprattutto gli “a capo” sono fondamentali, per le operazioni di Patella sui codici linguistici e visivi):
Emisfero Sud LUCA PATELLA LU’ CAPA TELLA
Per le tavole di operatività & rima ndi, r apporti, tras formazioni dell’ “Atlante speciale di Luca Patella” 258 pagine 159 immagini da leggere 74 grafici mentalsinergici
Poi, sotto, nella stessa pagina, fra due fotografie: lui, Luca sceglie telline patelle, perle, per le: tavole dell’Atlante!
Si colgono qui alcune peculiarità dell’atopia di Patella. L’importanza assegnata alla composizione grafica rinvia ovviamente a un sapere futurista e/o lettrista. Ma si presenta in modo esplicito anzi clamoroso l’amore per i giochi di parole. In particolare, qui appaiono alcune variazioni sul suo nome (Luca Patella / Lu’ capa tella), in riferimento anche a telline e patelle. Il gioco di parole manifesta un che di inconscio che inevitabilmente si ri-vela in tutto ciò con cui abbiamo a che fare (e vengono in mente esempi del resto ovvii, come le esperienze joyciane e il “metodo paranoico-critico”). Ma c’è qualcosa in più: Patella sembra voler sfuggire all’affascinante e malinconica consapevolezza dell’insignificanza ontologica del “mondo”. Facendo riferimento alla classica distinzione fra simbolo e allegoria, dirò che per Patella il mondo era certamente la “foresta di segni” che Walter Benjamin indicò appunto come luogo barocco e contemporaneo del dominio dell’allegoria, ma che per Patella ogni variazione, ogni connessione “mentalsinergica” fra parole e parole, parole e immagini, immagini e immagini conservava un valore simbolico, sia pure forse indecidibile (o inafferrabile come il Reale). Una presenza costante di quei nessi “mentalsinergici” d’altra parte era la natura naturante, la connessione con un’energia vitale.
L’altra testimonianza mi sembra confermare quanto ho appena scritto. In una lettera risalente al periodo in cui pubblicammo il suo romanzo Stazione di vita sul sito postcontemporanea.it (oggi non raggiungibile), Patella mi propose dettagliate e complicatissime indicazioni di editing. Poi aggiunse, a matita: “ti confondo le idee? ma tu sei specialista di (con)-FUSIONE!”
Non credo di essere “specialista di (con)-FUSIONE”. Ma Patella lo era, di certo. Per lui ogni codice poteva essere fuso con ogni altro, e non per la loro irrilevanza o per la loro indistinzione ontologica, bensì in quanto manifestazione parziale d’un Altrove che ogni singola operazione di “fusione” (o “con-fusione”) faceva balenare, in termini scientifici o para-alchemici. Di conseguenza, operazioni anticipatrici di codificazioni in seguito destinate a entrare nel circuito degli usi correnti, come la “fusione” di cinema d’artista e performance del meraviglioso SKMP2 del ’68 (il titolo è l’acronimo di Sargentini, Kounellis, Mattiacci, Pascali, Patella) vanno ricondotte allo spirito dei tempi e simultaneamente devono esserne in qualche misura separate. Perché nell’intera produzione di Patella emerge la sua “tipicità inclassificabile”. Si tratta di un ossimoro, beninteso: come può essere tipico un che di inclassificabile? Eppure, si tratta dell’ossimoro, simbolico e tutt’altro che “postmoderno” all’interno di cui ha agito il fotografo, performer, regista, scrittore, ecc. Lu’ capa tella. Capace di proporre ogni sorta di “(con)-FUSIONE”; capace di suggerire di essere altro da sé, o perfino “ogni possibile altro”.
“Fusioni” – “(con)-FUSIONI”, come quella fra il pieno e il vuoto, nei suoi vasi, contenitori per definizione, che nel loro contorno (ovvero in una linea che in effetti è assente, giacché il contorno di un volume è una superficie, non una linea) rinviano al contorno di volti, assenti, definiti ossimoricamente proprio mediante la loro assenza. [Ad esempio “‘Vasa Physio-nomica’ (1982-’83), crateri in marmi pregiati; notare, nello stagliarsi dei vasi, o nelle loro ombre: i profili di Rosa & Luca (Rosa Foschi & Luca Patella). I Vasi Fisionomici sono vasi-ritratto torniti su profili di personaggi storici o viventi (vedi anche i Vasi Fisionomici di DEN & DUCH -Diderot e Duchamp-, i vasi-ritratto di Diderot e Goethe, i ritratti – dalla Storia al presente – della collezione di Vasa Physiognomica alla Galleria De Crescenzo & Viesti di Roma, 1997” cfr. https://www.lucapatella.altervista.org/immagini.htm].
O come la “fusione” manierista/ultramoderna del libro MONTEFOLLE, su lidi di luce / mai di nessuno prima (2003), fra immagini opulente, trasparenze e inversioni.
Oppure come la “fusione” essenziale (ed era forse quella a cui teneva di più) fra noi, gli umani, e l’Altrove per eccellenza, il Naturale, la natura nel suo farsi-noi, indagata per esempio nell’installazione del 1970-71Un boschetto di Alberi Parlanti e profumati, e di Cespugli Musicali, sotto un Cielo, o nel cortometraggio del 1967 Terra animata: mente, percezione, individualità, azione, connessione estatica.