[…] ciò che abbiamo conosciuto finora è obsoleto – La fine del Mondo – non vuol essere la rappresentazione di un futuro catastrofico imminente, ma insieme presa di coscienza della condizione di incertezza in cui versa il nostro mondo e riflessione sugli scenari che ci circondano. I mezzi, anche concettuali, d’interpretazione della realtà che noi abbiamo conosciuto non sono più in grado di comprendere il tempo presente. Di qui, da questo cambiamento strutturale, nasce un senso diffuso di fine […]». Con queste parole Fabio Cavallucci, neo direttore del Pecci di Prato, argomenta il concept della mostra inaugurale per la riapertura del Museo toscano che, chiuso nel 2013 per lavori di ristrutturazione e completamento dell’ampliamento architettonico, punta dritta al cuore di quelle diffuse sensazioni d’impotenza e sfiducia nell’avvenire, penetrate subdolamente in ogni singolo aspetto della nostra società e del nostro vivere quotidiano.
Fabio Cavallucci, coadiuvato oltre che dal team interno, da un pool di advisor internazionali composto da: Elena Agudio, Antonia Alampi, Luca Barni, Myriam Ben Salah, Marco Brizzi, Lorenzo Bruni, Jota Castro, Wlodek Goldkorn, Katia Krupennikova, Morad Montazami, Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, Giulia Poli, Luisa Santacesaria, Monika Szewczyk e Pier Luigi Tazzi, simultaneamente stimola e pungola ciascuno di noi, a riflettere sul tempo presente con uno sguardo ampio e allargato, capace di abbracciare i diversi temi della cronaca, oltre il singolo problema, causa o incognita che ci riguarda. A questa necessità di visione globale, paradossalmente mancante mentre viviamo la “globalizzazione” si lega il vero nodo di questa mostra, ossia l’incapacità odierna di codificare e interpretare la realtà dell’oggi, di creare correlazioni di causa ed effetto tra la parte e il tutto, dettata dall’inadeguatezza e dal superamento degli strumenti linguistici che finora hanno regolato relazioni sociali, politica ed economia. Con La fine del mondo, pertanto, si ricomincia dal presente. Bisogna allora iniziare a capire cosa sia questo presente, e per farlo Cavallucci parte con il prendere le distanze da esso, stimolando la collettività, attraverso le opere di oltre 50 artiste e artisti internazionali, a vederlo da lontano. Tuttavia, la sola osservazione non basta. E l’arte contemporanea, in questo caso, non è solamente il volano per comprendere aspetti celati dell’attualità, ma anche il viatico per vivere un’esperienza, dove le opere, in quest’occasione, diventano a loro volta materia per esperirla in modo diretto e non compendiario. Dunque, il pubblico è invitato a entrare nella nuova ala del Pecci progettata dall’architetto Maurice Nio, e immaginata come una «sorta di navicella spaziale atterrata da chissà quale pianeta e pronta con la sua antenna a emettere onde o a ricevere messaggi “cosmici” – trovandosi poi – di fronte all’installazione dell’artista svizzero Thomas Hirschhorn, noto a livello internazionale per le sue scenografiche installazioni site-specific. L’intento del progetto curatoriale verte, dunque, intorno all’idea, spiega Cavallucci: di «sperimentare la sensazione di vedersi proiettati a qualche migliaio di anni luce di distanza per rivedere il mondo di oggi come se fosse un reperto fossile, lontano ere geologiche dal tempo presente, – vivendo – la sensazione di essere sospesi in un limbo tra un passato ormai lontanissimo e un futuro ancora distante». Così distante, che le nostre vite paragonate alle «in- commensurabili distanze cosmiche e ai lunghissimi tempi della storia della Terra e dell’Universo» appaiono come piccoli «frammenti inconsistenti». Sarà in questa distanza, quella di un tempo che la nostra psiche non riesce neppure a concepire, che il mondo ci apparirà, probabilmente, come realmente finito. A ritmare questo inedito percorso ci sono le opere di molti artisti, il cui talento in campo internazionale ampiamente riconosciuto: Jimmie Durham, Carlos Garaicoa, Qiu Zhijie, Cai Guo-Qiang, cui si affiancano i più giovani Henrique Oliveira e Julian Charrière con un lavoro realizzato a quattro mani insieme al tedesco Julius Von Bismarck. Ma c’è anche la storia dell’arte del Novecento, quella con la A maiuscola e rappresentata dalle opere di maestri che hanno modificato sensibilmente il modo di concepire il “fare” arte, come Marcel Duchamp, Pablo Picasso, Umberto Boccioni e molti altri. Un mix di artisti, mischiati nel tempo, nella geografia, nell’eterogeneità delle ricerche, ma tutti specchi possibili entro cui si riflette il presente, si guarda al futuro, anche se sbiadito. Nella più felice tradizione del Pecci: «lungo il percorso espositivo tutte le espressioni e i linguaggi artistici saranno interconnessi: la musica, il teatro, il cinema, l’architettura e la danza non rappresenteranno solo eventi collaterali, ma si snoderanno come momenti integranti della mostra, contribuendo a costruire una narrazione immersiva e coinvolgente».
Questa nuova riapertura del Pecci, pertanto, con la direzione di Fabio Cavallucci, che raccoglie tutte le eredità dei suoi predecessori: Marco Bazzini, Stefano Pezzato, Daniel Soutif, Bruno Corà, Antonella Soldaini, Ida Panicelli, sembra idealmente ripercorrere soprattutto le tappe che portarono Enrico Pecci (purtroppo scomparso a gennaio dell’88, poco prima di poter vedere concretizzato il suo sogno) a concepire il progetto di un Museo ex-novo di Arte Contemporanea in Italia, in ricordo del figlio Luigi, e poi quello di Italo Gamberini, per quel che concerne l’intervento architettonico, infine quello di Amnon Barzel negli intenti programmatici. Inaugurato nel 1988, la dichiarazione d’apertura recitava: “esclusivamente dedicato alle esperienze artistiche dei nostri giorni”. Un evento all’epoca che finalmente affrancava anche il Bel Paese alle coeve esperienze internazionali in materia di contemporaneo e al contempo sdoganava la tradizionale concezione del museo come luogo dedito alla sola raccolta e conservazione delle opere d’arte del passato. Dunque, il Pecci avviava la sua attività affermando l’importanza del “presente”, così oggi nel 2016 si riparte da una rinnovata ipotesi di comprensione dell’attualità. All’epoca, inoltre, va sottolineato che, il progetto di Italo Gamberini era un’assoluta avanguardia in campo architettonico, concepito, e per la prima volta in Italia, come luogo atto ad accogliere oltre al museo un Centro per l’informazione e la documentazione delle arti visive.
In un’intervista a cura di Silvia Del Buono sulle pagine di “Segno” in uno speciale dedicato al Pecci, è lo stesso Gamberini a chiarire le ragioni del suo progetto. Nel descrivere il vuoto architettonico – tutto italiano – di edifici dedicati al contemporaneo, l’architetto sollecita il lettore sull’inesistenza di «musei “attivi”, dinamici, in grado di accogliere ed esporre le opere d’arte contemporanee, divenendo allo stesso tempo, luoghi d’incontri, sperimentazione, ricerca». Affermando parallelamente la necessità di riportare attenzione «agli interscambi fra arti visive e altri fenomeni culturali», Gamberini traccia gli intenti innovativi sottesi alla politica del Pecci che, nel «godimento abituale del visitatore», modella uno spazio vivo e pulsante, «in grado di rispondere adeguatamente all’evolversi dinamico delle arti nel tessuto sociale». E sull’idea del generare un luogo corroborato da energie vibranti, il Pecci prende forma tanto concettualmente quanto strutturalmente, prevedendo la possibilità simultanea di esposizioni di pittura e scultura, progetti installativi, rappresentazioni teatrali, musicali, performative, in sostanza qualsiasi «manifestazione espressiva che – avesse – a che vedere con ciò che, comunemente – all’epoca era – designato come arte». All’alba degli anni ’90 per la Museologia, il Pecci rappresenta in Italia la rivoluzione. Ultima affermazione di Gamberini, e forse la più pregnante è quando dichiara: «il museo deve organizzarsi secondo una visione spaziale dinamica, interna ed esterna, suscitatrice anch’essa di immagini». Proprio questa frase mi pare sia la chiave di lettura più interessante per interpretare la storia di questo museo, avvicendatasi dalla sua nascita a oggi, intorno alla volontà di creare, attraverso le arti (che per definizione ha come oggetto di studio e del proprio fare le immagini) nuove immagini rispondenti al presente.
Oggi, il progetto architettonico della nuova ala progettata da Mauricie Nio, si colloca concettualmente in continuazione con quello originario di Gamberini, tuttavia ideato, non solo per accogliere differenziate esperienze artistiche, ma potenzialmente per farle vivere, non solo convivere assieme. Prova ne è data dall’inedita concezione strutturale della mostra, dove musica, teatro, cinema, architettura e danza (con inediti interventi della cantante Bjork, dell’architetto Didier Fiuza Faustino, del drammaturgo e attore Pippo Delbono, del musicista elettronico Joakim), sono concepiti, come detto poco sopra, non come eventi collaterali, ma come momenti costitutivi della stessa. C’è inoltre, un’affezione al “vedere” che lega l’esperienza del 1988 a quella del 2016. Una propensione sostenuta sin dagli esordi, oltre che da Gamberini, da Amnon Barzel, primo direttore artistico del Pecci, che Cavallucci recupera idealmente come motore principale atto a far muovere il pensiero contemporaneo.
La fine del Mondo è ovviamente un’intelligente provocazione, che tocca la collettività tutta, e naturalmente anche l’universo dell’arte. In una società dove lo scandalo non attecchisce più, men che meno quello artistico, dove tutto appare profondamente appiattito, e seppellite tutte le possibili ideologie, riuscire a leggere il futuro sembra un miraggio. Partendo da questa consapevolezza, che al contempo nobilita ancora di più le originarie intenzioni che mossero l’apertura del museo nell’88, il Pecci riapre le porte, fondamentalmente avendo a coscienza che un modello (istituzionale, politico, economico) si è esaurito, ma che uno nuovo può e deve essere originato, e che ciò può avvenire prendendo le giuste distanze da quello che oggi appare come “il nulla dopo la fine”. E da un museo, che sin dalla sua mission iniziale si prefiggeva l’apertura al circostante e a tutte le forme espressive d’arte, era logico aspettarsi anche un’apertura diversa sia alla rete e al suo modo d’intenderla, sia alla comunità, non solo quella esclusivamente accademica. Ricordiamo, infatti, che, questa riapertura è preceduta dal “Forum dell’arte contemporanea italiana” svoltosi a settembre 2015, un’iniziativa nata nella rete e che ha richiamato poi nel concreto a Prato, artisti, critici, curatori, galleristi, operatori museali di enti pubblici e privati, ma anche letterati, economisti o altre figure professionali che in un qualche modo hanno contribuito al dibattito sul futuro delle istituzioni museali italiani e sulla loro economia. Lo stesso web, è stato completamente rinnovato, diventando una piattaforma virtuale di costruzione stessa della mostra inaugurale. In particolare è nel “Journal” del Pecci che trovano spazio le voci, non solo degli umanisti, ma anche quelle provenienti dal mondo scientifico, cui si sommano tutte quelle di coloro che avranno voglia e desiderio di costruire il futuro dell’arte, e non solo, dopo La fine del mondo.
L’articolo è pubblicato sul n.259 di Segno Settembre/Novembre 2016 pag.4,5,6,7