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Retinico o a-retinico. Procedure dissociative (II parte) 

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1.Conoscere il segreto della terza e della quarta dimensione, penetrare fin nelle viscere di un complesso corpo poetico (e non solo poetico) per capirne le più intime pulsioni, non dà adito a eccezioni. Nell’impervio sondaggio critico, non si sottrae alla regola nemmeno una «linea, un punto, una superficie»; una geometria all’apparenza tanto cristallina, come quella di Remy de Gourmont. All’apparenza, appunto, giacché la colloquiale fluidità del discorso dissociativo non deve fuorviare: ad una disamina appena più approfondita, essa non tarda ad offrire alla critica nuclei semantici di notevole difficoltà interpretativa. La complessità di intendere profondamente lo “spazio artistico” della “tela” e “dell’oggetto comune” (del retinico e dell’anti-retinico), sta nel fatto che essa sfugge ad ogni catalogazione schematica, convogliando in sé i fermenti inquieti e spesso contraddittori dell’età contemporanea e della sua paradossale affermazione; il peso e la forza di uno spessore culturale classico-umanistico, il lacerante rapporto idea-realtà, la tensione ideale ad un universo nuovo di verità e d’assoluto.

Dunque, non sempre è facile la dissezione di questo corpus, carico di umori artistici, in cui gli elementi sono immessi e intrecciati saldamente in un circuito di regressioni retiniche, digressioni aretiniche, simbolizzazioni croniche e a-croniche. Il mediale riconosce nell’arte un modo altro di fare semiosi, o meglio un modo per fare semiotica attraverso oggetti che si qualificano come “altri” rispetto a quelli con i quali è solita lavorare la scienza. L’idea fondamentale dalla quale muove è che nell’arte vi sia un’intelligenza al lavoro, una pratica segnica che non appartiene all’ordine del concetto, ma della struttura formale. L’arte, ci spiega il mediale, non solo mostra ma gestisce una semiosi, mentre la specificità della sua riflessione risiede nel pensare attraverso modalità visive: “Il y a une pensée au travail dans l’art qui ne peut pas être ailleurs” (Hubert Damisch). In queste affermazioni il mediale marca il superamento dei miti romantici, ricollegandosi ad una tradizione che aveva acquisito piena consapevolezza del carattere riflessivo della propria attività artistica. Per Leonardo il pittore pensa, scopre, inventa, mentre la pittura qualifica se stessa come pratica intellettuale votata ad una partecipazione attiva nell’ordine del pensiero. Leonardo Da Vinci (1452-1519) nasce in pieno Umanesimo, un movimento di ricerca della sapienza smarrita dell’età classica che presupponeva una nuova visione del mondo. L’umanesimo lo portò al centro del retinico e dell’a-retinico, rivalutando completamente la sua posizione e le sue potenzialità. Questa indagine appassionata, che cominciò soprattutto grazie agli studi di Francesco Petrarca (1304 –1374), portò con sé anche il recupero del “messaggio ermetico”, con la scoperta di testi relativi alla figura di Ermete Trismegisto, il Thot egiziano, Dio – ibis della sapienza, della magia, della misura del tempo, della matematica e della geometria, della scrittura e del “pensamento dell’interno e dell’esterno della pittura”. Il Corpus Hermeticum, presentato da Marsilio Ficino (1433-1499) nel 1463, diffuse l’ermetismo e i suoi insegnamenti religiosi e arcani presso i sapienti, che la videro come una rivelazione riservata agli iniziati. Leonardo affronta la conoscenza segreta del retinico e dell’a-retinico, perfeziona l’empiricità della pittura e si spinge oltre, e il suo campo sono i codici della natura e dei testi in “volgare” e, grazie allo studio del rapporto tra pittura e macchine, desidera elevarsi a livello degli angeli; quelle macchine del volo che non sono solo “vetri rotti” e “trita cioccolato” con l’illusione delle quattro dimensioni, ma strumenti del messaggio e della comunicazione.

Leonardo Da Vinci, Codice Atlantico

La testualità empirica di Leonardo si presenta nel suo personalissimo stile di appunti, cioè racconti che racchiudono e si concludono con un’etica chiara e definita e che spesso si rifà a Platone e Aristotele: Da Vinci rifugge e non si assoggetta alla moda dell’auctoritas. La critica empirica alla predisposizione dell’auctoritas ricorda vagamente l’atteggiamento di tanti altri precursori dell’avanguardia artistica del ‘900, concezione secondo cui le affermazioni fatte dal potere accademico o da un autore erudito e di chiara fama non possano essere messe in discussione, ma debbano essere accettate per il solo fatto di essere rivelazione di un sapere superiore da una fonte sicura e accreditata. Leonardo, lavorando sul perfezionamento della pittura e l’approfondimento della tecnica, dissente con energia di fronte al concetto del sophisma auctoritatis (“Ipse dixit”: lui stesso l’ha detto) e prepara una disamina autentica per poter abbracciare il di qua e il di là del retinico pittorico. Per “l’artista totale” vinciano una tesi non può essere accettata solo in virtù dell’autorità di chi la presenta ma da chi asserisce e

sostiene la superiorità dell’esperienza diretta. “La sapienza è figliuola dell’esperienza”, dice Leonardo, sottolineando l’influenza di Aristotele che insegnava la sperimentazione come metodologia di indagine. Qui, a tal proposito, potremmo ricordare con Aristotele che “La prima fonte della conoscenza è la meraviglia.  Dalla meraviglia nasce l’interesse. Dall’interesse nasce la motivazione. Dalla motivazione nasce l’impegno a imparare. Dall’impegno a imparare nasce la gioia della conoscenza. E la gioia è, a sua volta, fonte di meraviglia”.

Nelle arti plastiche, secondo Max Weber, esiste la quarta dimensione…che non è un’entità dei fisici od un’ipotesi matematica, né un’illusione ottica: è reale, e può essere percepita e sentita (La quarta dimensione dal punto di vista plastico, 1910). “Io dipingo gli oggetti come li penso, non come li vedo” (Picasso). Libertà nello spazio e nella forma, la quarta dimensione si confonde con l’infinito: Marcel Duchamp con lo spazio-tempo statico, che definisce “parallelismo elementare”, si mette dalla parte dell’enigma irrisolto e ostenta un’estetica della quarta dimensione, che affronta con la sua noia aristocratica, mentre l’idea dell’ombra porta invece Dalì nella Crocifissione alla rappresentazione dell’ipercubo e, quindi, afferma quello che è nei limiti delle sue forze e nello spirito dei suoi strumenti. Oggi, lo sviluppo tecnologico ha facilitato l’avvicinamento fra «arte e progettazione a-retinica»: ciò che fa il medialismo nella sua “arte cinematica”, sviluppando diverse applicazioni software per creare animazioni nel piano e nello spazio di rappresentazioni dentro e fuori la rete: così, la linea fra geometrico e organico diventa ancora più sottile. Max Weber nel citato articolo, per il numero di luglio 1910 di Camera Work di Alfred Stieglitz, assicura: “Nell’arte plastica, credo, c’è una quarta dimensione che può essere descritta come la coscienza di un grande e travolgente senso di grandezza spaziale in tutte le direzioni contemporaneamente, ed è introdotta attraverso le tre misurazioni conosciute.”. Salvator Dalì, da artista retinico quale è, molto interessato alla componente logica legata alla quarta dimensione, nella sua opera CrocifissioneCorpus Hypercubus (1954 – olio su tela: 58,4 x 73,7 – Metropolitan Museum of Art di New York) mette in risalto Cristo crocifisso su una croce ipercubica. Dalì con questo lavoro riesce ad inclinare completamente il rapporto fra semiosi figurativa e plastica, creando un’illusione di quarta dimensione concreta e reale. Raymond Roussel descrive le ingegnose macchine che popolano l’immenso parco di Locus Solus, in ogni più minuto dettaglio, informandoci sul loro funzionamento, i loro meccanismi, la storia e il significato di ogni personaggio – essere umano, animale o automa – che le compone. I processi che guidano il movimento di questi organismi meccanici sono complessi e basati su scoperte scientifiche con cui Cantarel si esalta. La descrizione che ne risulta è pertanto minuziosa, abbondante al punto da essere ipertrofica, eccessiva e ripetitiva. Si prenda come modello uno dei meccanismi descritti più attraenti: un enorme diamante che visto da vicino si rivela agli ospiti meravigliati un immenso recipiente riempito d’acqua scintillante (vedi: Locus Solus seguito da Come ho scritto alcuni miei libri, Einaudi, Torino, 1982, pp. 52-95.). Nel 1917, Marcel Duchamp presentò alla Society of Independent Artists l’opera che lo avrebbe reso, solo negli anni Cinquanta, grazie all’esperienza della neo-avanguardia, il più a-retinico e intricato tra gli artisti della prima metà del ‘900. Anticipando la provocazione che la sua stessa “Fontana” si sarebbe prestata a diventare l’opera più famosa in tutto il mondo, Duchamp decise di vestire egli stesso i panni di “Mr. Mutt”, diventando per primo l’istigazione a-retinica per eccellenza. Infatti, l’originario di Blainville dimostrò ai giudici che, rifiutando l’opera di un auctoritas sconosciuta e priva di alcuna referenza, essi avevano silurato molto più di un antiestetico orinatoio. 

Quella che sembrava inizialmente un’opera stupida e dissennata, e per alcuni persino un’offesa all’arte di stampo retinico, rappresentava per Marcel Duchamp un modo d’intendere l’essenza dell’oltre, della strada che dal quotidiano porta al nuovo “assoluto hegeliano” (confusamente esaltato e poi condannato da Carla Lonzi in Autoritratto). Il fulcro di questo nuovo approccio alla materia-antimateria sta nel reinventare oggetti a-retinici e oscuri, pronti a testimoniare di una quarta dimensione ricorsiva ma giustificata dalla boutade micro-dadaista. Perché possano essere elevate ad opera d’arte, tali atti a-retinici devono essere decontestualizzati, ovvero astratti dalla propria effettività e dalla responsabilità legata alla loro immagine. Questa astrazione pone l’oggetto in riflessione, si allontana dall’immagine per provocare negli adepti della seconda avanguardia una mitologia della “nuova immagine a-retinica”: lo stesso ribaltamento di quello che sembra un comunissimo orinatoio rappresenta il paradigma dell’intera realtà che circonda quello stesso oggetto nel suo contesto (la dissociazione che viene da Remy de Gourmont, ma mai esperita).

Secondo la visione anti-retinica, lo sviluppo artistico ha tre attori principali. Uno è il paradigma, ovvero un complesso di principi, procedimenti e concezioni discriminatorie del retinico universalmente riconosciuto. Esso fa da riferimento al lavoro della “comunità artistica” di una determinata epoca, che è il secondo ed è costituita dall’ipse dixit che, possedendo il medesimo archetipo di dissociazione, condivide la stessa visione, gli stessi criteri di discriminazione, i modelli sedottivi, i metodi e le soluzioni dei problemi e ritiene necessario che i suoi successori siano educati in base agli stessi contenuti e valori. Il terzo è l’arte normale (e possiamo dire retinica), ovvero una fase in cui gli artisti appaiono impegnati a consolidare, confermare e sviluppare i paradigmi vigenti, tramite la soluzione di contraddizioni e “rompicapo” che man mano si presentano. Il giocatore di scacchi, ovvero l’artista che si riferisce al mentalismo, ritiene che l’arte retinica entri in crisi per una serie di “anomalie”, ossia di eventi nuovi e insospettati, che gli autori cercano più o meno faticosamente di adattare dentro “caselle prefabbricate e relativamente rigide”. Ma queste azioni, ripetute nel tempo, portano a indebolire dall’interno il vecchio sistema, fino a produrre una vera e propria crisi.

La rottura rivoluzionaria, ovvero il momento in cui si arriva a una vera e propria svolta, che comporta l’abbandono del vecchio paradigma e l’avvento di una nuova maniera di considerare il mondo dell’arte, coincide con una catastrofe semantica che non riesce più a governare il fondamento stesso dell’arte contemporanea. Gli artisti della provocazione, di fronte ai molteplici problemi che non riescono a risolvere con l’applicazione di un determinato paradigma, mettono in dubbio i princìpi fino a quel momento seguiti e accettati come “dogmi”, e vanno alla ricerca di un paradigma sempre nuovo e sempre aggiornato che però si basa sull’assoluto retinico. Bisogna quindi ripensare tutto: concetti-base, metodi, problemi. Quando mutano i modelli, il mondo stesso cambia con essi. Guidati da un nuovo archetipo, gli artisti adottano nuovi strumenti e guardano in differenti direzioni per conquistare nuove autorità. Ma il fatto ancora più importante è che, durante le rivoluzioni, gli artisti vedono cose nuove e diverse anche guardando con gli strumenti tradizionali nella stessa direzione in cui avevano guardato prima. È quasi come se la comunità degli specialisti fosse stata improvvisamente trasportata su un altro pianeta, dove gli oggetti familiari fossero visti sotto una luce differente e venissero accostati a oggetti insoliti. Successivamente i giocatori di scacchi hanno definito il paradigma anche come una “matrice disciplinare”, suddivisa in 4 porzioni: generalizzazioni simboliche, credenze metafisiche, giudizi di valore su teorie, soluzioni di rompicapo impiegate come modelli o esempi. In questo modo, il giocatore di scacchi (il mentalista) recupera una prospettiva di progresso artistico, che però deve essere sempre rapportata a una situazione concreta e ha una sua validità circoscritta all’interno di una pratica ben definita. Le nozioni classiche di miglioramento e sviluppo possono essere, quindi, gestite solo in campi empirici particolari. La visione del giocatore di scacchi mediale (e quantica) è ancora quanto mai attuale e pone agli artisti un compito avvincente: costruire criteri precisi per valutare se una conoscenza nuova accresca o meno il patrimonio collettivo accumulato nella memoria storica della pratica artistica del web e della quarta dimensione (pratica scansionata nella mostra Medialismo, al Trevi Flash Art Museum, grazie al lavoro in rete di Tommaso Tozzi).

www.hackerart.org byTommaso Tozzi

2.Leonardo da Vinci si muove ed opera nell’era immediatamente precedente a quella di Galileo, quando lo studio della natura si dedicherà ad un metodo d’indagine empirico e scientifico che giunga alla formulazione di leggi fisiche. Leonardo non ne fa ancora parte, ma si avvia su questa strada: non si può definire uomo di scienza proprio perché il suo obiettivo non è risalire alla legge fisica mediante l’osservazione e l’esperienza, ma desidera in ogni modo comprendere le ragioni e i motivi insiti nella natura mediante l’immaginazione accostata all’osservazione, ciò che chiama “cogitatione mentale” (e ciò che rappresenta il vero inizio dell’arte concettuale). La posizione moderna di Leonardo, con un piede nell’Umanesimo e uno nel Rinascimento, gli offre opportunità uniche: dall’alveo umanistico si origina la conseguente «rinascita delle arti, della filosofia, della letteratura», in seguito alla instaurazione delle Signorie e del conseguente fenomeno del mecenatismo (è l’avvento del vecchio sistema dell’arte). I Medici a Firenze, gli Sforza a Milano, gli Estensi a Ferrara, i Montefeltro in Romagna e altri, offrono strumenti economici per creare corti di intellettuali, letterati, artisti e architetti, il cui pensiero e la raffinata atmosfera giova alquanto alla ripresa dell’arte sui generis e l’applicazione del progetto. A Roma, invece, una Chiesa sfarzosa e dedita al comando si impone di mettere il proprio sigillo sulla città e riunisce Michelangelo, Bramante e Raffaello Sanzio, che lasceranno sul territorio una traccia compiuta ed eterna. La scoperta della prospettiva, invenzione di questo nuovo modo di osservare il mondo, contribuisce a rinnovare la pittura e a dare nuove possibilità.

Questa fondazione classica rimarrà strutturalmente nel riflesso del progetto moderno. Pensiamo ad Alfred Jarry che è il poeta, scrittore e drammaturgo francese (nato l’8 settembre 1873 a Laval) che ha portato alla luce la ‘Patafisica’ e ha anticipato tutte le avanguardie del Novecento. Si è fatto notare nella Parigi letteraria dell’epoca per i suoi atteggiamenti stravaganti e la sua insolita proprietà performativa. Incarnando nella vita il personaggio di Ubu e rendendo la sua stessa esistenza come l’arte del teatro (di un continuo teatro e di una continua quarta dimensione) è stato, in qualche modo, insieme a Brisset e a Roussel il primo anti-retinico della storia che ha aperto la strada alla scacchiera di Marcel Duchamp.

Detto ciò, sottolineiamo la nozione di “casuale” e di “vincolo” per evidenziare l’origine aleatoria di quel che, al contrario, siamo soliti considerare una necessità evidente in base alla quale prende forma il concatenamento fra parole: dietro ogni disposizione non esiste mai alcun fondamento assoluto, alcun termine ultimo che giustifichi il senso e lo statuto ontologico dell’evidenza. La modalità di lettura che più si avvicina a questa condizione interpretativa, non a caso, è quella del gioco, dove le regole risultano fine a se stesse, dove non sussiste alcun legame con quanto accaduto in passato o quanto si proverà nel futuro, e dove il piacere della dimensione cubista sta nella possibilità di ricominciare sempre dallo stesso punto. Non è allora attorno al senso della persona o dell’esistenza che va sollevata la domanda della ricerca artistica, ma in merito all’origine e agli sviluppi di quei percorsi che solo il “procedimento” del linguaggio disegna. Senza questa consapevolezza, rischiamo immancabilmente di erogare vaniloqui interminabili, non arrivando mai a capire che cosa determini quel “permutare” rilevato attraverso lo spazio e il tempo. Cogliere questa “verità” è senza dubbio una delle imprese più ardue del senso comune, che sono state precisate da Satie, Brisset, Roussel, Jarry e dalla teoria della dissociazione di De Gourmont. L’essenza del linguaggio, infatti, sta nella sua costante “dissimulazione” (M. Foucault, La pensée du dehors,  1986) e nel rappresentare realtà che esistono solo nel detto e nello scritto, come mostra esemplarmente il “Don Chisciotte” di Cervantes, “il libro dove la finzione dei libri si prende come gioco l’universo in frantumi di una dissociazione sottaciuta”. Svelate le implicazioni dell’autoreferenzialità, il problema di fondo che investe il linguaggio spaziale resta infine l’impossibilità di decidere: esso espone non solamente al rischio di ingannarsi, ma anche a quello di essere ingannati. In particolare, di essere ingannati non da un segreto – visto che nella società del controllo nessun segreto è più realmente tale – bensì dal sospetto che esista qualcosa di segreto. Da una parte questo spiega la scelta di certuni di non voler essere compresi, inducendo a esibire delle identità posticce per meglio mascherare se stessi. Dall’altra il non voler essere compresi è anche il modo per assicurare a se stessi la possibilità di stabilire un rapporto e una comunicazione con l’altro, “rapporto e comunicazione che non sarebbe possibile stabilire, se si fosse dall’altro conosciuti per quel che effettivamente si è”, o meglio, per quel che si pensa di essere. In quest’ultimo senso, “l’esser dissociativi” è dunque un modo per attirare su di sé l’attenzione del pubblico, facendo breccia sull’ostacolo del segreto. Esistono poi casi in cui non vogliamo essere compresi per evitare semplicemente di stabilire un rapporto o una comunicazione con l’altro, in modo tale che non occorra rinunciare alla singolarità o all’eccezionalità della nostra esperienza, o del nostro essere (pur non potendo attribuirgli ancora un’identità definita): sarebbe questo, a ben vedere, il senso più sottile del “mascherarsi” artistico, abito che punta ad accentuare la propria eccezionalità (indeterminata) rispetto a una realtà esterna che, pur apparendo nostra “pari”, viene presa a riferimento per promuovere le differenziazioni del “sé” nel “noi”. Qui un segreto viene opposto a un altro (supposto) segreto, con l’obiettivo di disinnescare eventuali rischi d’inganno su una dimensione e sull’altra. Esistono infine casi in cui il portatore di antiretinicità non vuole essere compreso in una dimensione perché punta a preservare il gioco dell’altra dimensione rispetto a quella riconoscibile: una prospettiva dalle linee profonde che abbiamo appreso e la cui conoscenza si rivelerebbe dannosa per l’esordiente; qui sembra invece trovare giustificazione la “reticenza” di certe correnti culturali che amano farsi “esoteriche”, onde selezionare possibili adepti nella massa e avvicinare solo chi sia davvero in grado di sostenere la vista dell’abisso (potrebbe essere questo il caso di F. Nietzsche e di Marcel Duchamp?).

In definitiva, il segreto del linguaggio viene di volta in volta costruito in funzione del disvelamento di una verità o di una dissociazione. Come ora sappiamo, il controllo punta ad annientare il segreto – di qualunque natura esso sia – nel tentativo di stabilire una verità che possa identificare controllati e controllanti (mediante una serie di categorie predefinite e reciprocamente trasparenti). Ma è inevitabile imbattersi in un paradosso. Riconosciuto il linguaggio come un sistema di vie impercettibili, di cambiamenti di direzione e di lievi divieti con finalità strutturanti, non possiamo fare a meno di constatare come esso operi al contempo sia per annientare ogni illusione dimensiva, sia per favorire uno sdoppiamento e una trasmutazione delle forme più evidenti del segreto stesso: ogni linea appare animata e distrutta, riempita e svuotata della possibilità che ce ne sia una seconda. Questa o quella, né l’una né l’altra ma una terza, o niente del tutto. In un linguaggio che non conosce più referenti, l’idea stessa di controllo finisce per perdere di significato: chi traccia chi? In quale misura è possibile distinguere la finzione dalla realtà? Svelati questi “arcani” della rappresentazione, se non è più possibile sdoppiare il reale attraverso un altro mondo, lo si fa comunque mediante “le dissociazioni spontanee del linguaggio: scoprire uno spazio insospettato per ricoprirlo ancora di cose non dette”. Una nuova domanda, a questo punto, torna a inquietare l’artista: possibile che il metaverso delle immagini (lo spazio rappresentato del visibile) altro non sia che il prodotto del metaverso (l’enunciato invisibile) della parola? Le posizioni di de Gourmont sono sorprendentemente prossime, e risultano illuminate dalla stessa consapevolezza: impossibilità di ridurre l’attività del pittore ad un lavoro puramente tecnico, o di considerare le opere mera illustrazione della cultura storica di un’epoca, giacché queste sono allo stesso tempo atto di semiosi e semiosi in immagine. Il riconoscimento dell’arte quale attività semiotica,  nell’accezione attiva del termine, impone però al mediale una precisazione circa il ruolo dell’arte all’interno dell’ordine cognitivo. Attribuire all’arte una partecipazione attiva nella sfera del semiotico richiederà una valutazione della sua esatta collocazione all’interno del quadro generale della teoria della conoscenza, nonché una considerazione più precisa del rapporto che intercorre tra l’arte e le altre forme, meglio specificate, della conoscenza.

Raymond Roussel

Sostenere che l’arte “segna” non significa infatti per il mediale affermare che questa “segni” in termini cognitivi, né avanzare la possibilità di compararla in blocco alle altre forme della conoscenza. Questo presupporrebbe il riconoscimento dell‟arte come un dominio coerente nella sua modalità d’attività, omogeneo nella sua essenza, ma soprattutto capace di condurre ad “una” conoscenza specifica. Per lo storico dell’arte (semiologo al contrario) l’arte si inserisce tra le molteplici forme della visività segnica; fornisce dispositivi e paradigmi che ci permettono di riflettere, ma la sua rifrazione non conduce ad “una” conoscenza. Sebbene l’arte partecipi ad alcuni processi di ordine conoscitivo, non possiede un ambito di competenza definito in virtù del quale sia possibile isolarla e classificarla accanto alle altre discipline. Come della prospettiva dichiarerà di non poter raccontare che “des histoires”, i termini plurali sono per de Gourmont i soli capaci di rendere ragione di una conoscenza quale quella artistica che si qualifica in termini di incontri e rapporti. Proviamo allora a guardare, per usare una felice espressione di de Gourmont, “attraverso l’accesso di un’altra dimensione”, partendo a rebours proprio da quegli “infiniti” retrostanti lo spazio, che ne dilatano la prospettiva critica, senza però escludere richiami continui al parallelo e indisgiungibile discorso concettuale. Ricorda J. Lotman in un testo del 1993: “Il successo della geometria non euclidea e l’affermarsi della teoria della relatività hanno promosso i concetti di relatività dello spazio, di pluralità degli spazi, della loro asimmetria e complementarietà mutualmente simmetrica. Questo insieme di idee, che hanno rivoluzionato sia gli strumenti matematici della ricerca, sia la raffigurazione della struttura dell’universo, non poteva non influenzare le discipline umanistiche. Negli studi sulla struttura dello spazio artistico si possono distinguere due orientamenti principali. Uno si collega al concetto di cronotopo, elaborato da M. Bachtin alla fine degli anni trenta, ma pubblicato tra il 1973 e il 1975. Lo stesso M. Bachtin lo ha collegato con le teorie di Einstein e di Uchtomskij (1875-1942, fisiologo russo e sovietico, ha trattato il problema del cronotopo nella biologia). L’essenza del cronotopo è costituita dalle leggi che regolano la trasformazione del tempo-spazio naturale nel cronotopo corrispondente alle convenzioni di un genere artistico […] Quindi il cronotopo è la legge strutturale del genere secondo la quale lo spazio-tempo naturale si deforma in spazio-tempo artistico” (Sul problema della semiotica dello spazio, in Il girotondo delle muse. Semiotica delle arti, Bompiani, Milano, 2022, pp. 402-3).

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