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Raffaele Quida | Continuum – 3° ciclo

La performance pensata da Raffaele Quida a Taranto, a cura di Michela Casavola, terza tappa di una trilogia performativa svolta in tre differenti luoghi, vede sedici partecipanti, o meglio “figuranti”, entrare in silenzio, lentamente, come attori di una cerimonia rituale, all’interno di un grande capannone industriale pieno di polvere bianca. Questi sedici figuranti si dispongono l’uno di fronte all’altro e distribuiscono della finissima polvere bianca nell’area circostante proveniente da un’urna in porcellana, che ciascuno di loro sostiene tra le mani, sulla quale l’artista ha lasciato un intervento indelebile, pittorico ed astratto che la caratterizzerà singolarmente. L’atto di spargere la polvere sarà condotto in modo lento e sincronico. Al termine della performance il gruppo dei figuranti posa le  sedici urne, e si allontana in silenzio dal luogo dell’azione. L’intera performance, misurata e austera, sembrerà come un momento simbolico, un gesto di natura catartica carico di rimandi ai riti di purificazione o a certi atti propiziatori ma potrà essere anche letta come l’idea di una promessa di rinascita.

L’opera di Quida si concentra sul processo d’interazione tra spazio ambientale e pubblico. L’azione svolta è un’esperienza comunitaria. Nelle tre diverse tappe è fondamentale la partecipazione dell’essere umano. Il luogo pubblico e il luogo privato sono segnati da gesti che rimarcano una dinamica tanto fisica quanto mentale. La polvere bianca cosparsa lentamente dentro il capannone industriale colmo di materiale edile (i cumuli di sabbia bianca sono come un deserto di graniglia calcarea) rimanda alla purezza e alla trasfigurazione di sapore alchemico. Anzi l’atto silenzioso e concentrato dei figuranti fa da contraltare al rumore ossessivo e invadente delle macchine industriali per la preparazione del materiale edilizio: la scena acquista un carattere mitologico che riporta alla mente la rinascita dalle proprie ceneri dell’Araba Fenice (entità ibrida mitologica). Non mancano possibili proiezioni visionarie, come quelle nella “zona” enigmatica del film Stalker di Andrej Tarkovskij.

Come accennato in precedenza, la performance di Quida a Taranto corrisponde al terzo momento di un percorso scandito in tre atti, messi in relazione, a loro volta, con tre città: Lecce, Bari, Taranto. Un singolare percorso che passa dalla nascita (o tema del concepimento) ai motivi divino/cosmologici della scomparsa e della rigenerazione. Questo percorso appare in bilico tra la sfera biologica del vivente, da una parte, e l’apertura culturale e immaginaria dall’altra.

Alla nascita faceva allusione l’intervento di Bari, (a cura di Antonella Marino) per il quale alcuni grandi contenitori industriali abitavano momentaneamente la Piazza del Ferrarese e interferivano con la scena urbana, catturando l’attenzione dei passanti per il loro contenuto sensibile: il “liquido amniotico”. Le cisterne volevano diventare degli ambienti intimi “embrionali”, stazioni poste come contenitori dell’inizio della vita. Mentre a Lecce, primo atto del percorso, (a cura di Lorenzo Madaro) l’artista si soffermava sui processi relazionali e sociali. Nell’Anfiteatro romano (luogo simbolo della città di Lecce) una pensilina in disuso per la fermata dell’autobus cittadino appariva in modo estraniante e contrastante. Qui la presenza della pensilina nell’arena dell’anfiteatro sollecitava lo sguardo della comunità e suscitava uno stato di spaesamento. La decontestualizzazione portava lo spettatore a fruire direttamente la pensilina e a creare un contatto con essa. Un’ indagine che metteva in gioco un rapporto con l’elemento inaspettato ed estraneo.

Lungo l’intero percorso dei tre atti, Quida impiega oggetti “incongrui” (oggetti industriali), inconsueti rispetto all’immaginario collettivo ordinario, dentro la sfera urbana o negli spazi quotidiani, scanditi dalle abitudini e dalle necessità della gente. Quida stesso dichiara: “Nel primo e secondo ciclo è evidente il mio interesse ad avere un contatto con un pubblico plurale, e instaurare un rapporto di comunicazione più vivo tra arte e pubblico, catturando l’interazione della collettività, sollecitando comportamenti che portano il cittadino a non essere spettatore passivo ma attore vivo. Le forme collocate all’interno della «scena urbana» sono estranee al contesto, sono tentativi di rottura di equilibri indotti artificiosamente, che determinano una interferenza col sistema e il rapporto individuo-ambiente”. Ciò che preme all’artista è veicolare attraverso questi interventi nuove letture riferite ai contesti in cui viviamo o ai luoghi dove operiamo. Come anche produrre operazioni artistiche sensoriali e simboliche che esprimano sia il senso del vivere quotidiano sia ambientale, attraverso un’interferenza con i protocolli sociali precostituiti. (Michela Casavola)

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