Lo scorso 21 dicembre 2017 è stato presentato MACRO Asilo (il museo ospitale) il progetto di Giorgio de Finis per il MACRO di Via Nizza di Roma che prenderà concretamente forma dal prossimo ottobre 2018. Da mesi, e anche in queste ore, tale proposta ha scatenato un’infinità di commenti e pareri che continuano ad alimentare un dibattito che, al di là delle personali opinioni – non sempre condivisibili nei toni e nei modi – obbliga la collettività tutta (non solo gli addetti ai lavori) a confrontarsi e misurarsi con una “crisi culturale” che parte, nella specificità del progetto di de Finis, dalla città di Roma, ma che inopinabilmente riguarda l’intero Paese. Sul tavolo i temi che scottano sono molti e gli interrogativi sollevatisi intorno alla sua nomina, dovuti probabilmente a un agire fuori dagli schemi tradizionali (de Finis lo ricordiamo è l’ideatore del MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, messo in campo nell’ex fabbrica della Fiorucci salumi occupata sulla via Prenestina), non fanno altro che confermare la necessità, sentita da più parti di una riorganizzazione del sistema culturale. Al centro del dibattito ci sono il senso e la definizione di Museo, la sua organizzazione, gestione, strategia e marketing, c’è la convenzionale nozione di mostra, c’è la ridefinizione di ruoli e professioni, c’è una riflessione sulle competenze, sull’agire creativo, sul valore dell’educazione artistica, sulla trasmissione di forme e memorie. In sintesi è in atto una rielaborazione del racconto legato alla realtà e all’uomo che corrisponde a un possibile mutamento dello status quo, all’introduzione di nuovi sistemi, nuovi ordinamenti, nuovi metodi di produzione, trasformazioni che potrebbero modificare o provocare uno svecchiamento degli ordinamenti sociali sulla concezione generale del fare, produrre e vivere l’arte. Prima di lasciare la parola a Giorgio de Finis, con il quale ho dialogato in questa lunga intervista, non solo per precisare le ragioni del suo progetto, ma anche per conoscere a fondo il suo punto di vista sulle questioni sopracitate, fondamentale, se davvero si è intenzionati a capire la sua proposta, è mettere in luce un dettaglio. Spesso ci esprimiamo e usiamo le parole senza fermarci a pensare al loro reale significato, alla loro etimologia. La lingua italiana è ricchissima e difficilmente lascia spazio a interpretazione, offrendo solide e limpide spiegazioni per molte cose. La parola progetto, prima ancora di essere mutuata dal francese projet affonda le proprie radici nel latino proiectum che significa lanciare, gettare in avanti. Molto semplicemente, allora, per terminare la polemica intorno al MACRO Asilo basterebbe riflettere sul fatto che di questo stiamo parlando: di un progetto, di qualcosa lanciato in avanti, di un atto sperimentale che non ha senso di essere posto a verifica prima ancora di essere esperito. È un’ipotesi, una proposta sicuramente diversa da ciò che finora in questo campo conosciamo, non priva di dubbi, ma pur sempre un’ipotesi che merita una possibilità.
Maria Letizia Paiato
Prima di entrare nel merito di MACRO Asilo desidero cominciare con il porti una riflessione sul concetto di museo di arte contemporanea oggi. Trent’anni fa, nel 1988, a Prato nasceva il Pecci. L’allora direttore artistico Amnon Barzel dichiarava: «Un museo d’arte contemporanea non è una sala espositiva, ma una macchina che non si ferma mai e che è collegata a molti organi. Intorno alla mostre c’è innanzi tutto l’intenzione di creare una collezione che sia documento e testimonianza del nostro tempo. Se noi pensiamo che il lavoro dell’arte è testimone del nostro tempo bisogna che il museo raccolga questa testimonianza. Perciò, a parte le mostre e la creazione di una collezione, il museo dovrebbe essere un Istituto di servizi culturali per il pubblico […] Un museo non può essere statico, deve essere sempre in movimento e andare verso gli artisti: bisogna che individui che cosa è la creazione oggi, quali sono le cose comuni all’interno di una generazione, quale è la caratteristica della creatività in ogni momento e giungere a formulare una teoria» (Lucia Spadano, intervista ad Amnon Barzel, in «Segno» n.76, giugno 1988). Nel rivedere questa intervista mi sembra che le parole di Barzel siano quanto mai attuali. Non voglio entrare nel merito della situazione del Pecci, ma ti chiedo se nel leggere queste affermazioni trovi una rispondenza fra il tuo pensiero e quello di Barzel? Dove ti trovi d’accordo e dove no? Il sistema museale contemporaneo italiano in trent’anni si è effettivamente evoluto nella direzione da lui auspicata? O invece, tali parole confermano una situazione di stallo? Se sì, dove l’istituzione museo è oggi manchevole? Per te ha senso l’idea che il museo perseveri nella creazione di collezioni? Personalmente l’idea di individuare cosa sia la creazione oggi, quali le cose comuni all’interno di una generazione mi sembrano pensieri che dovrebbero sempre essere alimentati. Come la pensi in merito e come nella tua carriera ti sei relazionato a questi temi? Vorrei in sostanza che spiegassi la tua visione dell’arte e il rapporto che essa dovrebbe intrattenere a tuo sentire con la società?
Giorgio de Finis
Il dibattito sul dispositivo museale e sulle sue funzioni non è nuovo. Ne discutono critici, storici dell’arte, manager (ahimé), e lo hanno fatto anche molti artisti, dalle avanguardie in avanti, decostruendolo e riproponendolo in forme nuove. Anche il mio lavoro è stato annoverato all’interno della cosiddetta critica istituzionale di ultima generazione. Cosa che va bene purché sia chiaro che a me interessa più la pars construens che la destruens. Quello che credo vada tenuto presente è che la riflessione sul museo si inserisce oggi nella più generale questione degli spazi pubblici e delle politiche culturali. Esistono ancora spazi pubblici e politiche culturali? O tutto si risolve in una mera questione di marketing? Al museo mausoleo deve sostituirsi certo qualcosa di vivo, e concordo con le parole di Barzel che trovo molto calzanti, ma non per farne un nuovo polo dell’entertainment ma affinché questa istituzione un po’ desueta divenga in grado di giocare un ruolo forte nella più ampia riflessione che produciamo sul mondo e la società che ci circonda. Possiamo iniziare a dire, ad esempio, che questo dispositivo sarà partecipato da persone e non da un “pubblico”? Credo che l’arte abbia in sé una carica sovversiva, ci regala nuove visioni in un mondo sempre più omologato, aiutandoci a combattere il pensiero unico e lo status quo; è una istanza di libertà che a volte fa paura e che spesso si sente il bisogno di controllare, di contenere (per questo, credo, Cristiana Collu ha voluto leoni e leonesse fuori dalle gabbie – quasi fossero appena scappati dal vicino zoo comunale – sulle scale della nuova Galleria Nazionale). Inoltre l’arte, come anche il gioco e altre sfere dell’agire umano, ci ricorda che non assomigliamo affatto a quella caricatura che ci propone la semplificazione dell’homo oeconomicus, tutto teso a massimizzare i profitti e ridurre gli sforzi. L’arte è sempre dispendio. L’arte è “inutile”, ma senza di essa non ci sarebbe l’umano come lo conosciamo dai tempi di Lascaux.
A questo punto, dobbiamo parlare di MACRO Asilo. Innanzi tutto, per fare chiarezza, vorrei che mi spiegassi effettivamente con quale ruolo entrerai negli spazi di Via Nizza. In molti hanno scritto che sei stato nominato “direttore del MACRO”, da qui la polemica della non emissione del bando. Puoi gentilmente spiegare, invece, che cosa andrai a fare e con quale ruolo?
Dal punto di vista contrattuale sono il “direttore artistico di Macro Asilo”, il mio progetto sperimentale per il Macro, che però di fatto è l’unica cosa che sarà ospitata dal Macro nei prossimi due anni. Possiamo anche pensarlo come una “mostra”, dove è il museo (ripensato) che mostra se stesso. O l’arte che si mostra fuori del sistema dell’arte, come parte della vita e non come parte dell’economia. Ho ricevuto l’invito a elaborare un progetto ad hoc per il museo di arte contemporanea di Roma, in qualità di artista, in ragione delle esperienze realizzate in precedenza, il MAAM, il Dif, ma anche il Corviale Capitolino, che è rimasto solo una idea sulla carta. Di fatto sono stato chiamato a fare me stesso, che è l’unica cosa che so fare e l’unica qualifica che sento di possedere. Il mio biglietto da visita è il lavoro svolto sul campo.
MACRO Asilo è un progetto a termine sul quale è stato posto un budget di gestione. 800mila € per due anni? Puoi spiegarci definitivamente a quali voci di spesa corrispondono questi soldi?
Esatto, Il Macro dispone di 400mila euro all’anno per funzionare, stipendi inclusi. Non credo che serva un esperto per capire che di fatto avremo solo le chiavi per entrare in un posto pulito e ben illuminato.
MACRO Asilo dunque cosa sarà? E perché credi che questa sia una strada percorribile capace di rispondere ad una “emergenza culturale?
Macro Asilo sarà un museo dove stare e non da visitare, una casa e una piazza dove gli artisti e la città possono incontrarsi, con l’ambizione che questo incontro possa avere esiti trasformativi, di crescita culturale, sociale e politica. Un museo “reale”, secondo la definizione proposta da Cesare Pietroiusti proprio in una lectio marginalis tenutasi al MAAM. Un grande laboratorio di riflessione e sperimentazione a scala urbana. Dove gli artisti sono “presenti”.
Nel tuo progetto si legge: «Gli artisti saranno convocati tramite un “appello”, momento performativo aperto al pubblico. Potrà aderire alla chiamata chiunque si definisca “artista”. Solo gli artisti che si sono presentati all’appello, che hanno scelto cioè di aderire per (auto)candidatura a un processo collaborativo, avranno diritto a partecipare alle fasi successive di gioco». Questo è il nodo più contestato. In sostanza stai affermando che chiunque si senta artista è legittimato a prendere parte a questo progetto. Ne deduco, pertanto, che nelle tue intenzioni c’è la volontà di creare un “accesso” al sistema – cosa spesso e per vari motivi negata a molti seppure talentuosi –, tuttavia mi chiedo se davvero chiunque si senta artista poi lo sia effettivamente. Quale sarà, pertanto, il criterio che determinerà il prosieguo in questo percorso? Se il sentirsi artista non corrispondesse all’esserlo? Cosa accadrebbe in quel caso? Chi saranno le persone a giudicare tali azioni? I critici, i curatori, gli storici dell’arte saranno coinvolti in questo processo? o stai affermando che tali ruoli e competenze possano deviare la spontaneità dell’arte? Non credi e non si rischia, tuttavia, che il delegare qualsiasi giudizio a persone prive di studi specifici, non possa creare più confusione nello svolgersi della storia dell’arte? O il tuo discorso tende essenzialmente a svincolare qualsiasi pregiudizio dettato da possibili influenze economiche e politiche?
Il discorso dell’autocandidatura è complesso e provo a spiegarlo ancora una volta. Per me è innanzitutto una presa in carico di responsabilità che ciascun artista si assume nei confronti del museo, vale a dire di uno spazio che vuole essere non solo spazio pubblico ma “spazio del comune”, basato sulla collaborazione, l’incontro e la valorizzazione delle differenze. Ciascun artista che lavora nel territorio di Roma (ma non solo) è invitato a dare il proprio contributo al progetto, in modi che possono essere anche diversissimi. Faccio presente che una regia esiste, e che ciascun contributo proposto sarà valutato e inserito nel programma in modo ragionato.
Mi è stato molto contestato il fatto che io prenda per buona l’autolegittimazione dell’artista, che mi accontenti del fatto che l’artista si dichiari tale e che pratichi questa difficile professione, al di là degli esiti che sta conseguendo, del valore che il sistema gli riconosce. Da sempre l’artista è colui che prima di tutto, e a prescindere dal riconoscimento che in seguito gli viene o meno accordato dalla comunità, risponde a se stesso operando una precisa scelta identitaria, che è alla base del suo lavoro. La medaglietta di artista se la mette da solo. Inoltre vorrei ricordare che la Saatchi Gallery qualche anno fa ha fatto la mia stessa scelta, senza che nessuno si sia permesso di scandalizzarsi tanto. Cito dal bel libro di Mario Perniola dedicato all’arte “espansa”: “Le varie decine di migliaia di artisti della Saatchi Gallery online si sono autodefiniti ‘artisti’”. Viviamo nell’epoca delle moltitudini. Non ci sono mai stati tanti artisti quanti se ne registrano oggi, e mai tanto “singolari”. Come si può pensare che qualcuno, la critica, il museo, possa arrogarsi il compito di operare una selezione che non risulti parziale a monte (perché di fatto incapace di passare al vaglio tutto quello che si produce)? Oggi gli artisti vivono una condizione di grande solitudine, sono come naufraghi che tentano di comunicare col mondo inviando messaggi in bottiglia dalla loro isola deserta. Non sarà il museo col suo setaccino a separare i migliori e i più “talentuosi”. Probabilmente lo farà il mercato e più avanti la storia dell’arte. La nostra chiamata, l’appello, potrebbe essere la prima vera (auto)mappatura degli artisti che operano sul territorio cittadino.
Ma ancora, supponiamo arrivi un numero ingestibile di (auto)candidature, con quale criterio saranno selezionati gli artisti?
Un palinsesto giornaliero come quello che ho proposto credo darà a tutti la possibilità di raccontarsi e di lavorare. Aggiungerei che aprire la porta del museo a tutti gli artisti non vuol dire affermare che tutti sono bravi e interessanti allo stesso modo. Il mio dispositivo è accogliente, nel senso che non rifiuta a priori nessun artista, ma poi è estremamente duro e “selettivo” al suo interno, perché a questo punto il museo non ti protegge più, non dice al pubblico “zitti tutti, anche se non vi piace o non vi interessa questa è arte perché lo dico io”, ma lascia che l’artista si confronti direttamente con gli altri, addetti ai lavori e non. Deve essere capace, deve essere convincente, deve capire qual è la sua collocazione in mezzo agli altri. Nel mio museo gli artisti sono degli adulti (non bambini come qualcuno ha scritto), il bambino è il museo stesso, l’opera che nascerà dal lavoro fatto insieme.
Chi sono allora per te l’artista, il critico e il curatore? C’è bisogno di ampliare queste categorie in relazione all’oggi? O forse potrebbe bastare in questo momento aprire il mondo dell’arte a una trasversalità? C’è forse più bisogno che l’artista, il critico dialoghino con l’ingegnere e lo scienziato? Dico per ridisegnare il presente e il futuro stesso dell’arte?
C’è bisogno che tutti dialoghino con tutti. Non capisco perché si sente sempre questa esigenza di chiudere, di confinare, di alzare i muri. Io sono un artista quando immagino qualcosa che non c’è e predispongo un dispositivo a tavolino, un curatore quando mi prendo cura degli artisti che invito a condividerlo con me, un antropologo o un critico quando provo a valutare i risultati di quello che stiamo facendo. Ho scelto l’antropologia perché mi affascinava la sua libertà di spaziare in tutti gli ambiti della produzione umana, segnica e fabrile. Poi ho scoperto l’arte, che, forse, è ancora più libera, perché non solo può indagare il mondo a tutto tondo, ma può reinventarlo. Inutile dire comunque che il Macro Asilo sarà un progetto transdisciplinare.
MACRO Asilo sembrerebbe più un esperimento sociale che artistico? È’ questo che ti interessa?
Artistico e politico allo stesso tempo. L’arte è sempre politica, per le ragioni discusse sopra. Inoltre, qui, stiamo lavorando alla ricostruzione dell’istituzione.
Dunque al MACRO per due anni saranno sospese le mostre. Pensandoci questo fermo temporaneo sembra sposare le teorie di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione, attualmente in libreria con un volume edito da Einaudi intitolato Contro le mostre, dove si scagliano in opposizione, così lo definiscono, al vizio italiano di produrre esposizioni blockbuster. Ti ritrovi in queste opinioni? Una provocazione. Ritengo che aldilà di qualsiasi pratica l’arte si misuri infine sempre e solo con l’opera. Senza le opere l’arte come si misura, soprattutto nel tempo? O le opere nel corso e alla fine di questo processo avranno un loro peso specifico?
Il Macro Asilo non sarà un museo senza opere, sarà un museo senza mostre. Per la ragione che le mostre costano (e quindi finirebbero per pagarle le gallerie, cosa che trasforma lo spazio pubblico del museo di fatto in uno spazio privato, con una programmazione che si limita ad essere subappaltata). E anche per la ragione che, in un dispositivo ad alta partecipazione come quello proposto, non si potrebbero fare mostre a tutti. Troveremo altri modi per portare le opere al museo, perché naturalmente non intendo realizzare un museo iconoclasta. Ci sarà intanto la collezione, che intendo rendere fruibile, e che penso di allestire come una grande installazione corale, un po’ come le quadrerie del XVIII e XIX secolo, affinché la prossimità di lavori anche tanto diversi ci rimandi in immagine quello che il dispositivo proverà a fare giorno dopo giorno, cioè mettere insieme gli artisti. Poi ci saranno gli atelier, dove a rotazione si lavorerà live, le conferenze e le presentazioni (le opere si possono vedere anche sullo schermo), le performance, e i lavori partecipati realizzati in loco. Sarà l’opera museo che si mostra nel suo divenire. Il libro di Montanari e Trione l’ho letto e la critica alle mostre blockbuster non posso che condividerla. Ma attenzione a cedere ad un atteggiamento che rischia di suonare un po’ aristocratico ed elitario. Troppo spesso nel testo (di Trione sopratutto) viene evocata la “sacralità” dell’arte per alzare gli scudi contro la cultura massificata, che si combatte piuttosto che sacralizzando l’arte (che è prassi umana, come ben ci ricorda Georg W. Bertram), riumanizzando il “pubblico”, e riconoscendo a tutt* il diritto a fruire di arte e bellezza e la capacità critica di rapportarvisi.
C’è un obiettivo che ti sei posto alla fine di questo progetto? Cosa ti attendi da MACRO Asilo? o come un vero ricercatore hai considerato anche l’eventualità di non arrivare a un risultato?
Il fallimento va sempre contemplato, tanto più se la sfida è ambiziosa. E questa lo è. Perché non solo vuole ripensare la funzione del museo, ma anche ricordare che l’arte non è il sistema dell’arte, ma una prerogativa di quella forma di vita che chiamiamo Homo sapiens. E, proprio perché l’arte è una istanza di libertà, è dispendio, è gioco, pensiero non funzionale, è un’attività disinteressata, come la scienza, voglio provare a creare, per il suo tramite, un’isola cittadina non più governata dall’egoismo e dalla competitività, dal mors tua vita mea, ma dalla generosità, dalla fantasia, dalla intelligenza, dalla voglia di costruire insieme, dove concentrare tutte quelle meravigliose “anomalie” che si chiamano artisti (che proprio la critica, il mercato, i musei, vorrebbero separare, ordinandoli e classificandoli per tipologie come si trattasse di patologie), affinché possano liberarsi e detonare. Noi stiamo provando ad attuare una rivoluzione in vitro. Con una speranza, non esplicitamente dichiarata, che il virus sfugga dalla provetta.
Un’ultima cosa: il tuo profilo professionale è molto variegato. Nelle tue biografie sei definito antropologo, filmmaker, artista e curatore indipendente, autore di libri e contributi scientifici, il che francamente mi pare corrispondere pienamente alla trasversalità dell’oggi. Non ho memoria intorno a me di figure completamente pure come poteva accadere in passato. Lo storico dell’arte spesso è anche critico, è curatore, è giornalista, è progettista, è saggista etc. Perché credi ci sia dunque così tanto accanimento verso la tua eterogenea formazione e in questo frangente? Non sarà forse che in tutto questo discorrere quello che manca davvero, o quello che si è perduto, è la figura dell’intellettuale? Quella persona attinente all’attività dello spirito?
Io sono un outsider, un “intruso”, e quindi non seguo (conosco?) le regole del gioco. Non amo le etichette e i sottopancia e non credo in una cultura divisa in professioni e specializzazioni. Abbattere i confini e rimanere curiosi è un modo per rimanere vivi, aperti e liberi.