Iniziato negli anni Ottanta, il percorso artistico di Pujia si dispiega con tappe di intrecciati interessi per generi contigui, che gli hanno sempre fatto mantenere un garbato equilibrio fra radicalità del minimalismo linguistico ed efficacia degli effetti percettivi.
Precisa Tonino Sicoli sulla ricerca di Antonio Pujia Veneziano, artista che ha fatto del segno e del gesto i suoi compagni di strada, che lo hanno condotto alla Purezza dei segni, sua recente personale al Museo dell’Arte dell’Otto e del Novecento (MAON) di Rende (Cosenza), a cura dello stesso Sicoli e di Andrea Romoli Barberini. Il segno di Pujia è iconico, indicale; è l’elemento basilare di un codice linguistico non-verbale personale che, unitamente all’equilibrio del gesto, si lascia decodificare dall’occhio attento del pubblico più sensibile.
Ogni suo lavoro è un sistema complesso che vive dell’unità di significato e significante, che rivela – se indagato correttamente – l’interiorità dell’artista. E d’altronde – scrive Maurice Merleau-Ponty in Senso e non senso – nell’opera d’arte o nella teoria come nella cosa sensibile, il senso è inseparabile dal segno, volendo affermare che la sola espressione verbale, senza il segno, appare incompiuta. E così con i segni puri di Pujia è possibile comprendere cosa sia il pensiero, quale espressione dell’intimità e facoltà dell’essenza, al contempo si può accogliere la razionalità che comunica al di fuori di sé.