Un connubio di concettualismo, minimalismo e ascetismo si dipana dalle opere di Pietro Coletta, che sembra riprendere l’ambizioso intento di Paul Klee di “rendere visibile l’invisibile”. Oscillando tra visibilità e invisibilità, l’artista concilia eidos e materia, conferendo alla realtà una rinnovata componente immateriale.
Nelle sue opere il raggiungimento della presentificazione dell’assenza si traduce in un suono vibrante, espressione più intima dell’essenza della cosa stessa, cui la ricerca dell’artista ambisce. Come in una melodia, le pause si alternano alle note, così i pieni e i vuoti si equilibrano, scandendo un ritmo delicato, ma incalzante.
Ma per Coletta, lo spazio – traslato nel vuoto – ha un carattere prettamente irrazionale. Esso è la presenza virtuale di una non realtà. La dimensione virtuale è una costante nella poetica dell’artista pugliese, non nella misura in cui si può intendere attualmente, ovvero alla luce delle sperimentazioni tecnologiche nell’ambito dell’arte, che sono esenti dal suo operare. Tale virtualità deve essere riconosciuta nel carattere dinamico dell’opera che la rende immateriale e al contempo “aperta” al fruitore. Soglia, Meteore, Phanein non si limitano ad occupare semplicemente lo spazio, ma lo dilatano, realizzando una simulazione virtuale attraverso l’immaginazione del possibile fruitore o dell’artista stesso. Si inverte così il rapporto tra opera ed ambiente circostante, un rapporto ribaltato in cui è lo spazio ad abitare le sculture.
In Pietro Coletta. Bagliori, personale alla Biblioteca Sormani di Milano, a cura di Luigi Sansone, la luce è protagonista, poiché si manifesta come luogo di confine – e anche di contatto – tra il mondo del visibile e quello dell’invisibile, esplicando il suo essere, duplicemente, fenomeno fisico e fenomeno spirituale.
E se il fenomeno della luce e la conseguente esperienza della visione sono connessi con l’attività conoscitiva dell’uomo, in riferimento ad una condizione intellettiva – che sia anche visuale e ottica -, atraverso l’uso poetico della luce, strumento e substantia dei suoi lavori, Coletta si interroga, ripercorrendo a ritroso tappe del passato, esempi nella storia dell’arte, in particolar modo seicenteschi, in cui l’alternanza di luce ed ombra sottendeva ad incertezze esistenziali. Della luce drammatica e spirituale delle opere barocche cosa affluisce nel XXI secolo? Sembra suggerire Coletta, che pur nella consapevolezza della “particolarità” della visione, non esita a dar risposte alle molteplici domande che la sua arte gli pone.
Io non so se le mie opere siano la mia risposta a questo momento
di evoluzione climatica, che, oggi come nel Seicento, si sta mescolando
indissolubilmente a svariati fenomeni di crisi nella vita sociale,
certo è che, queste mie opere, lavorano sul concetto dei chiari
e degli scuri esattamente come Caravaggio e Vélazquez, certo è
che, nelle mie opere, attraverso il fuoco eracliteo, la luce è portata a
emergere dagli abissi delle tenebre.
Pietro Coletta