Su come scrivere qualcosa, qualcosa che abbia senso, e che sia in grado di ricucire una ferita, di risanarla fino a farla scomparire, o addirittura che ci spinga ad affermare che essa non ci sia mai stata, è possibile?
O non indichiamo altro che smorfie di dolore, al dolore di evocarle? E con le stesse smorfie, spesso, pronunciamo parole intere, significanti il tempo che offre e toglie, che districa i grovigli, che offusca gli orizzonti?
A ogni assenza, forse, la nostra attesa è l’inaugurazione di memore non presentabili: «Si tratta piuttosto del fatto che la presenza, dal momento in cui è data, si è radicata e stabilizzata, comincia a dileguarsi, cioè si opacizza lungo il fluire dei giorni e non lascia più passare. […] Nel momento in cui una relazione si è sistemata, e dunque non deve più essere dischiusa, non è più possibile incontrarsi, non è più possibile nemmeno avvicinarsi a essa […]». (F. Jullien)
Di ferite causate da vuoti familiari “scrive” Michele Lombardo con “Transition”, installazione site specific presentata al Farm Cultural Park, perfettamente incastonata allo “Spazio 6”.
A dare il via all’installazione c’è, al centro (centro metaforico), il polittico intitolato “Ad un passo da me stesso” (Kintsugi and others), sei stampe B&W, che illustrano la difficile contraddizione dei costrutti interno/esterno, e che si ispirano alla pratica di riparazione giapponese.
Segue, a fondo della stanza, l’installazione “Your place as your skin”, proposizione declinata in altre forme nel corso del lavoro dell’artista nisseno, qui denotante però il paesaggio urbano, solitamente considerato un mucchio di cemento, e rivalutato quale organismo biologico che riesce a traspirare sofferenze.
Le foto a corredo sembrano fare rima con tutto il resto, o con questo: «[…] ma dove, in che altra parte?/non c’è altro luogo, è qui anche l’altrove – gli oppongo./Lui raggia il sorriso muto della sua mente. È tutto». (M. Luzi)