Sulla S in un’ora di traffico e in un’ora di concerto! Un tipo di circa ventitré anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo corto, come se glielo avessero compresso sulla grande testa. La gente scende dal palco. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino che non ha regolato il mixer dei suoni. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso con pretese di vociferazione letteraria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore dopo lo incontro alla sede della Feltrinelli, davanti alla redazione storica. È con un amico che gli dice:”Dovresti far mettere qualche lettera in più a quella grafica di copertina di Oblò”. Gli fa vedere dove e perché”.
Da questo banalissimo episodio di vita quotidiana e tentativo,apparentemente superficiale, di osservazione della realtà,prendono avvio i montaggi di Oblò di Adriano Spatola, esordiente narratore e ben presto singolare poeta totale, dall’intenso e originalissimo“La composizione del testo”(1978).Pubblicati da Tamari(1961),Feltrinelli (1964), Sanpietro (1966): Le pietre e gli dei,L’oblò, Poesia da montare, Zeroglifico,sono libri unici nel loro genere e col commento di Luciano Anceschi, di qualche anno dopo, lo saranno ancora di più:
“E venuto il momento di Adriano Spatola nel senso che ora e qui la sua poesia sembra davvero acquistare una forza emergente. Non fu, al tempo dei Novissimi,in prima fila? Certo, fu in prima linea: e tra i più inquieti; e quello fu un momento fertile per lui,per quel che fece e per l’apprendistato,se si può dir così. Dopo ha riacquistato tutta la forza di una solitudine attiva (e non si parla davvero di isolamento) e di concentrazione. Tutte le esperienze fatte, dalle prime e giovani post-ermetiche, al parasurrealismo, alla nuova avanguardia, alla visual poetry … sono come sedimentate, e messe tra parentesi, se non proprio rimosse. E’ una poesia fatta per esorcizzare la disperazione della poesia sta prendendo figura e corpo in un tentativo non involutivo di ricostruzione, di ritrovamento, di rinnovazione delle strutture. Mentre per assurdi decreti la poesia sembra tacere tra stanchezze, ripetizioni, stampi usati,falsi scopi, rinuncia e senso di morte, Adriano Spatola ha avuto la forza di ricominciare nel deserto, di ritrovare gli elementi costitutivi o semplici di un discorso attivo, e ha ridato fiato a strumenti delicati che sembravano costretti per sempre al museo”.
Credo che pochi altri poeti del ‘900, come Spatola possano essere immediatamente riconosciuti da un brevissimo attacco di voce, un po’ come accade con i massimi cantautori. E senza che ciò – va subito aggiunto – sia da imputare a un gioco di tenace manierismo sulle proprie originali risorse, come succede con altri poeti. Rileggendo di fiato questi scarsi trent’anni di poesia, la più grande sorpresa è infatti accorgersi che il marchio spatoliano è sempre invenzione quanto più lo si rincontra. E il vantaggio del corpus trentennale è poter osservare, in blocco, come si siano articolati e sedimentati i ben noti segni particolari di questa poesia, relativi alla prima linea Novissima, all’immagine vs il post-ermetismo, il parasurrealismo, la nuova avanguardia, la visual poetry. Adriano Spatola è nato il 4 maggio 1941 a Sapjane, allora in Italia e ora in Slovenia, ed è deceduto il 23 novembre 1988 a S.Ilario d’Enza (Parma). Pubblicazioni: “Le pietre e gli dei”, poesia, Tamari, Bologna 1961; “L’Oblò”, romanzo, Feltrinelli, Milano 1964; “Poesia da montare”, Sanpietro, Bologna 1965; “L’ebreo negro”, poesia, Scheiwiller, Milano 1966; “Zeroglifico”, poema a frammenti, Sampietro, Bologna 1966; “Verso la poesia totale”, saggio, Rumma, Salerno 1969 e nuova edizione ampliata, Paravia,Torino 1978.”Majakovskiiiiiiij”,poesia, Geiger, Torino 1971:”Diversi accorgimenti”, poesie, Geiger,Torino 1975:”Algoritmo”, poesia visuale, Geiger, Torino 1976;”Various Devices”, raccolta antologica di sue poesie a cura di Paul Vangelisti, Los Angeles 1977; “La composizione del testo”, Cooperativa Scrittori, Roma 1978; “La piegatura del foglio”, Guida, Napoli 1983; “La definizione del prezzo”, “Tam Tam”, Martello, Modena/Milano 1990;Col fratello Maurizio, ha curato la serie di antologie ‘iper-sperimentali’ “Geiger”, iniziata nel 1967 e proseguita fino all’82, per un totale di nove numeri. Nel 1996, per la cura di Maurizio Spatola, Arrigo Lora-Totino e Franco Beltrametti, è uscito un decimo numero di “Geiger”, omaggio alla sua memoria. Il lavoro di Spatola, vanta oltre 500 titoli pubblicati, fra Geiger, Tam Tam e Baobab, rivista di poesia fonetica pubblicata in cassette. Al nome di Spatola è legata una presenza ardente, altruista, costante; come parassita-stimolatore, trofico-pungolatore, sperimentatore concettuale e anticipatore per nuove vie della poesia e della cultura, scrive, calorosamente, il fratello: “hai lasciato un segno ovunque sei passato, al tuo funerale sono venuti, stupefatti dal vuoto che hai lasciato, anche i tuoi «nemici», quelli che bistrattavi pubblicamente senza complimenti”. Ma il dato duchampiano che si ribalta totalmente del totalismo è che,Spatola,«è molto attivo nel campo delle performances di poesia sonora e nel teatro, impersonando Ubu Roi in Ubu nel monastero”, ovvero l’UBU monaco e commentatore, manipolatore di incunaboli, tipico precursore della medialità, manipolatore e collettore, conflittualizzatore dell’emittenza e della ricevenza. Spatola affascina il lettore con interessanti riflessioni che, portando ad esempio illustri questioni di diversi periodi storici, dimostrano il legame tra immagine e parola. L’autore infatti è convinto della necessità di esprimere i concetti della poesia che rifiuta ogni interpretazione utilizzando un particolare stile, distinto da quello piatto che è tipico della critica angloamericana contemporanea: chi però sappia descrivere con vividezza, trasmettere emozioni, coinvolgere personalmente il lettore, non ha solo uno stile;ha un’espressione capovolta, non sulla mancanza degli strumenti ma sulla sottrazione del disagio:“Quando deve parlare di poesia, il poeta oggi si sente a disagio. E’ un disagio profondo,radicale. Ma questa sensazione di disagio non è legata agli strumenti di cui il poeta dispone per fare il proprio lavoro,ma sorge dalla natura stessa del problema. Solo che il problema non è più quello classico – che cos’è la poesia che cosa sta diventando la poesia? – ma come un altro essenziale: esiste ancora la poesia?”(Poesia,apoesia e poesia totale, estratto del 1969). E, di certo, la capacità immaginifica, l’abilità nell’intrecciare le parole, la disinvoltura nell’utilizzare le regole della punteggiatura, talvolta anche trasgredendole, smussandole, sgranandole, fendendole, smisurandole – si pensi ad esempio ad autori come Céline, Joyce e Hrabal –, sono ingredienti che differenziano un buon poeta da uno mediocre. E, considerando che un poeta-concettuale deve in qualche modo esprimere i suoi pensieri e che la scrittura risulta essere il mezzo più importante a cui lo stesso ricorre, verosimilmente l’indagine critica, al di là dei limiti dell’interpretazione,dovrebbe anche essere una buona ontologia poetica, ciò favorendo innanzitutto la diffusione delle sue teorie.
Non bisogna infatti dimenticare che un poeta desideroso di esperienzialità trofica può essere anche un attento lettore,e dunque un giudice severo di come una particolare costruzione poetico-concettuale gli sia rappresentata e restituita (teoresi del parassita attivo).
Spatola è molto schietto nel criticare, in generale, anche la critica italiana della fine degli anni Sessanta, troppo lontana dall’anima filosofica europea e nord-americana che ha caratterizzato i secoli passati. Non a caso egli comincia il suo excursus “capovolto e copovolgente” da un Dante mediale e smediale, strumento della catena trofica e di quella alimentare, e in particolare dalla sua Commedia, ancora oggetto di diversi tentativi volti ad assegnarla a un dato genere letterario piuttosto che a un altro:“perché questa possibilità abbia corso, la filosofia deve far posto alla poesia: all’invenzione di un mondo, di attori, di eventi”: “il poeta fa fatica a rendersi conto di essere un parassita. Quando scopre questa semplicissima verità, il poeta parla della poesia come se fosse una cosa che non lo riguarda, e si presenta al “suo” pubblico come clown. Tuttavia,così facendo, si sente a disagio. Questa sensazione di disagio non è legata agli strumenti di cui il poeta dispone per fare il proprio lavoro, ma sorge dalla natura stessa del problema. Ma il problema è un problema essenziale: esiste ancora la poesia?”. Spatola pone la sua attenzione anche ad altre opere di Dante,evidenziando la necessità di utilizzare il volgare, la lingua parassitaria del popolo per liberare la poesia da se stessa, per portare il poeta fuori dalla figura rossa dello sciamano e quella nera del funzionario:“per ragguagliare le diverse lingue parlate nella costellazione del quotidiano e del cerimoniale”.
Dopo aver analizzato le opere di Emilio Villa, esempio di “un’etica coraggiosa nel contemplare il paradosso dell’esistenza umana e nel perseguire il minore dei mali in circostanze in cui il bene è muto o assente”, il nostro sembra porre, direttamente o indirettamente l’attenzione su Giordano Bruno la cui morte a Roma il 17 febbraio 1600 è metaforicamente considerata come fusione in un altro elemento, ovverosia il fuoco, il tutto vivendo pertanto in una continua trasformazione, in cui un elemento incorporerà sempre un altro elemento, e così via senza fine. Anche le opere del filosofo nolano si caratterizzano per il bello stile, la cui potenza immaginifica affascina e coinvolge il lettore; di grandissimo significato è la metafora che lo stesso utilizza per comunicare il senso della vita che non può essere fatta solo di luci o solo di ombre: “nessun luogo, dico, condizione e splendore di luce possono esservi se non esistono le tenebre”; e allora, “se il critico può esistere senza la parola e il poeta senza la poesia egli si riversa morto; è il caso di pensare ad un poeta-critico fuori da qualsiasi cerimoniale; bisogna liberare la poesia da se stessa; la poesia deve compiere il salto nel vuoto”. Della stessa specie è la fondazione della parità tra conoscenza intellettuale e sensoriale; tale azione, alle soglie di una sorta di teatro della crudeltà, si pone in contrasto con la lirica. Per Spatola lo stile ignaro e veggente del poeta è capace di trasmettere al lettore la sua passione per l’esistenza, il suo tentativo di restituire dignità al corpo attraverso cui avviene la conoscenza, simbolicamente composta di segni “impressi nell’anima, nel corpo dell’anima”. Il corpo ha bisogno di essere sfidato, di essere sottoposto a delle prove: solo così, accettando la fatica e affinando la disciplina, che è anche sinonimo di volontà, il poeta potrà scoprire nel proprio corpo un mirabile mezzo di conoscenza. Anche di Leopardi Spatola offre al lettore una chiave di lettura originale: “quando si prende in mano l’intera sua produzione, non sembra del tutto corretto, a prima vista, caratterizzarlo come grande poeta poetico: “il poeta si sente in dovere di assumere su di sé a tutti i costi (clow, pseudosciamano, scemo del villaggio, folle di dio, ecc) il ruolo di manipolatore del fantasma (qui il riferimento è a Emilio Villa). Questo fantasma trasferisce su di sé l’aura rifiutata dal poeta (poiché il sacro purtroppo non ha a che fare soltanto con lo sciamano, ma anche con la famiglia, con Dio, con la patria (leggete pure quanto è gramscianamente attuale; qui la Patria è la Lingua), con il denaro, con il potere,ecc …).Il poeta,per Spatola si è fatto fuori dalla “cosa poesia”; egli,lavora sul “fuori della cosa”: paradossalmente è un parassita attivo. Il parassita è colui che procura un danno biologico alla lingua, ma è anche colui che gestisce una simbiosi naturalistica. Spatola,apre, a ciò che altrove abbiamo potuto definire poesia trofica, poesia nutritiva mediale e smediale, catena trofica e catena alimentare.
Infatti Leopardi viene considerato anche un grande filosofo, e lo Zibaldone, esempio insieme ad altre opere di come la filosofia e la poesia possano fondersi in un linguaggio nuovo, ne è una dimostrazione; d’altronde, nell’opera appena citata, si legge che la poesia non è necessariamente in versi e che un linguaggio poetico, ricco di immagini, carico di significati rivoluzionari ed innovativi, può trovarsi anche in prosa – ed anche Un Saison en enfer di Arthur Rimbaud ne è un mirabile esempio. Bisogna nondimeno estirpare quella filosofia che produce il disincanto perché, secondo l’illustre scrittore di Recanati, l’uomo, solo se pervaso dalle dolci illusioni che la Natura gli offre, e mantenendosi vigoroso come se fosse sempre giovane, potrà trovare l’inspirazione poetica e “riscaldare l’idea con il fuoco della passione”.Tale riflessione sul totalismo, che non è il totalitarismo, consente a Spatola di addentrarsi in una esposizione attraverso la quale giunge a mostrare la strategia usata dal poeta-concettuale per le sue opere: “un inventore di parole deve negare a cose e persone il loro ambiente familiare e alimentare, sottrarre per aggiungere, e seguirle con pazienza mentre cercano risposte adeguate a sollecitazioni inattese”. Anche un filosofo cerca risposte, e pertanto sia la filosofia sia la letteratura si pongono come obiettivo quello di decontestualizzare, di staccare le persone dall’ambiente in cui vivono per farle immedesimare in altre realtà – probabilmente uno dei pochi mezzi per combattere l’individualismo e l’egoismo che oggi dilagano: ciò per offrire una conoscenza che sia anche sinonimo di elevazione spirituale e di emancipazione. Nelle ultime pagine del saggio sulla Poesia totale Spatola tira le somme del suo lavoro collegando idealmente il poeta della tradizione tardo medioevale, da cui è partito, al poeta-pop della tradizione tardo moderna, con cui ha concluso; egli avverte dell’errore, tutto odierno, che spesso commettono sia filosofi sia letterati nel tentativo di volersi necessariamente identificare in una categoria di appartenenza.
Probabilmente oggi la società, sempre più tecnocratica, tecnologica e specialistica, contagia anche taluni studiosi, letterati o filosofi che siano, di un’ansia da collocazione. E non si fa fatica a notare che nella vita di tutti i giorni l’esigenza di specializzazione e parcellizzazione invade sino ad annullare una delle doti più ricche dell’uomo – quella dell’immaginazione poetica “altra” – che, nella filosofia come nella poesia, è elemento essenziale e che ha consentito quella trasversalità intellettuale tanto presente anche negli autori citati nel testo di Spatola:Emilio Villa, prima di tutti, e poi Nanni Balestrini, Elio Pagliarani, Magdalo Mussio, Philippe Garnier, Gerard Bisinger, Lamberto Pignotti, J. Moineau, D. Rot, J. Bory, M. Ramous, L. Ferro, A. Faeti, G.D.Bonino, G. Celli, G. P. Torricelli, R. Pedio.
Riguardo alla fuoriuscita dal Museo, già da tempo (da sempre) la critica ne ha sottolineato le rilevanti e irripetibili caratteristiche: il suo saldo discendere dalla tradizione,la sua alta qualità musicale, il costituirsi come una guida e un margine del discorso. Se comunque lo s/verso di Spatola discende dalla tradizione, essa non è certo un residuo,ma una profonda pratica della neo-avanguardia; non ha nulla di citazionistico, come invece nei suoi successivi epigoni, con i quali – a questo riguardo – Spatola non ha niente a che spartire: e i pochi effetti comuni, proprio per la loro esiguità, andranno ascritti a convergenze o coincidenze rinnovatesi nella post-avanguadia mediale, ma non a presunti influssi che nel testo, e nelle testualità totali e dilaganti, non sussistono.
Per Corrado Costa, nel suo orgoglioso artigianato,l’assonanza e la consonanza è un ferro del mestiere indispensabile, amata in quanto tale,naturalmente, e solo successivamente piegata a particolari esiti di dis/canto. Per Spatola il testo è da subito lo strumento mediale per il suo bisogno di attraversamento e di contaminazione;e naturalmente non il solo, ma alla guida di un elaborato tessuto fonico che dà un particolare esito sonoro e visual poetry alle sue prime prove.
Sono immediatamente i primi versi di Hamlet,clowns del ’61, a testimoniarlo, con la loro clownerie:
“Si, l’ho scritta la tua storia: il manoscritto
L’ha mangiato un cane,nel mezzo della guerra.
Poi la carestia.
Si ripete la beffa del pezzo di re
Se certo non un mendicante ma un bambino ebreo
S’è cibato del cane gonfio della carta.
Certo non un mendicante, ma un bambino ebreo
Si è cibato del cane gonfio della carta:
e ritrovare adesso la tua storia, chi può farlo?
Quando lo vennero a prendere
Me ne stavo nascosto in cantina
Non ho potuto vedere la targa né la direzione.
Quelli si sono portati lontano la tua storia:
e ritrovarla, adesso, chi può farlo?
Mio buon amico, io stavo nascosto in cantina,
di loro ricordo soltanto il colore degli stivali.
Non li ho visti, non saprei riconoscerli.
( E poi,tanto tempo è passato:
tutti i miei amori e l’ultimo Pont Mirabeau
se li è digeriti la Senna). 1961
Ricominciare nel deserto, come dice Anceschi, soccorrere a una particolare chiave di lettura, distribuendo assieme tenerezza e arguzia in queste catene di testualità che sembrano sinfonici e dada nella loro forma, ma ben resistenti nella loro fonetica ostinazione. Ogni periodo può essere caratterizzato in base al posto dato al poeta nell’idea che esso si fa e ci dà della concezione del testo. Con la retorica, siamo in presenza della felicità di un accordo fra il senso istituito ( il qualcosa da dire) ed il linguaggio. Quest’ultimo, abilmente manipolato secondo le regole millennarie, è in grado non soltanto di dire, ma di dire in senso totale. Con l’espressione-rappresentazione, siamo di fronte all’infelicità di una discordanza fra il senso istituito e il linguaggio del verso spezzato,tronco,macinato e rabbiosamente trofico. Quest’ultimo, nella misura in cui funge da intermediario,tende incessantemente a deformare il qualcosa da dire. L’epoca classica opera con il linguaggio della sperimentazione; l’epoca romantica contro il linguaggio e basta. Con la produzione,il rapporto fra il senso e il linguaggio mediale si rovescia; il senso non è più un’istituzione prestabilita che occorre fare apparire; ormai popisticamente problematico, esso è l’effetto dei concatenamenti alimentari di una lingua poetica. A causa di questo ribaltamento, c’è un’opposizione irriducibile fra Epoca moderna da una parte ed epoca post-moderna e romantica dall’altra, ma essa è più forte nei riguardi della seconda. Se per essere poeta è necessario aver vissuto esperienze eccezionali o aver dragato gli abissi del proprio io, è chiaro allora che la maggior parte dei lettori, forti magari del desiderio di interagire con la poesia di Spatola, ma privi di un qualcosa da dire si sentiranno automaticamente esclusi dalla pratica della scrittura. Quello del lettore diventa così il destino, necessario alla perpetuazione di un valore poetico. Produrre significa trasformare una materia: parlando di testo – così come faceva Spatola – essa sarà principalmente il linguaggio “non più certo inteso come mezzo di espressione, ma come materia significante; questa trasformazione permette la comparsa di sensi nuovi, cioè esattamente l’opposto di quanto avviene nella testualità rigida e tradizionale, dove ci si trova immancabilmente di fronte ad un processo di riproduzione. In questo modo metafore, descrizioni, suoni, parole, significanti, significati, metonimie del testo poetico cambiano statuto; esse non sono più ornamento del testo, ne mezzi dell’illusionismo; esse letteralmente fanno la totalità della catastrofe e costruzione del testo, come in Spatola. Il lessico,con i suoi vocaboli tendenti al quotidiano e al concreto visuale è quello medio di Spatola, forse anche più anonimo che in altre scritture, dove ricorrono a volte movenze del parlato o tracce di letture colte.
Successivamente, a partire dall’Ebreo Negro(1963) e Reattivo per la vedova nera(1964), Spatola diluisce ogni forma organica del testo e tende ad una particolare sedimentazione, non certo verso un atonalismo fine a se stesso e forse espressionista, quanto piuttosto verso un virtuosismo asciutto e paradossale, pronto al gorgheggio, ai minimalismi, ai post.paundismi, ai majakoskiiismijjj, un po’ come la musica free jazz.
La testualità totale, in queste striature a zeroglifico, rimane l’appuntamento fonematico più convergente, la consonanza che fa scattare la lingua, come una tagliola il sociogramma si inerpica sul pentagramma, né garantisce il mantra, la ripetizione, illuminando i diversi costrutti della parola e dell’immagine, tra il niente che ha sempre più scarnificato, come una scultura pop, come un film di William Klein,il verso spatoliano. A uguale bisogno di stratificazione e architettura rispondono i grumi di immagine nata alla Oblò, alla Tam Tam, alla zeroglifico, e ben lontana tanta dall’analogismo celebrativo quanto dal correlativismo narcisistico. Proprio i suoi margini nuovissimi la rendono diversa dalla medietas per via di un’aspra raucedine alcoolica che cerca sin da Verso la poesia totale una deliberazione plurisensoriale e sinestetica. Nelle migliori prove della composizione la macchina cufica con cui comincia la conferma del totalismo spatoliano appare ben chiara questa qualità di emergenza, di eruttazione, di vulcanica quotidianizzazione. Credo che nessuna definizione della Poesia di Spatola sia più persuasiva di quella di un”alcoos” apollineriano alla seconda:
La deplorazione ha ancora molto dire
da disdire secondo l’amore e la devozione
la sua ricchezza la facilità di linguaggio
astratto
molto presto velocissimo pigro serenamente
avvolgendosi il sesso ovvero l’articolazione
se è questione di niente o se è questione
(1977; Considerazioni sulla poesia nera).
La poesia totale di Spatola inventaria e post-futuristica assembla grandi e piccoli mondi fatti di Passaggio,Viaggiatori, Cacciatori, Corpi sudati, colori forti, oggetti, macchine, prodotti, anoressie, bulimie della fonetica, mezzi di trasporto…tutto estremamente cinetico e cinematico(chi può dimenticare i fonetismi e gli sberleffi di Spatola?).L’immagine,spesso piegata in modo metonimico,incide,profondamente,nel testo, tali precipui e propriamente concreti object trouvè; questi non sono punti di riferimento ed emblemi come nella tecnica del dittafono, tanto più che le valenze allegorico-concretiste sono estremamente scoperte nella dissonanza linguistica totale.
Spatola tiene molto alla scienza che studia il suono delle parole, alla cosalità dei suoi fonoggetti, appunto dirimenti della poesia, in quanto elementi da cui,in qualche modo,parte il discorso e viene catalizzato, come nell’oggettualità dadaista. In Spatola difficilmente il significato può avere uno slittamento emblematico, tendendo invece ad una sua distesa musicale. Se nelle prime prove tale misura, secondo il gusto del tempo, si concretava in collage(Oblò), ben presto – già nelle poesie dell’antologia del testo(La composizione del testo)il refrain e la struttura architettonica mai dimenticata,tende ad allargare i suoi confini,la sua trama di riferimenti e musicalità, a incatenarsi con altri testi, a diventare poematica e romanzematica.
L’immaginario post-surrealista a un certo punto promuove anche le diverse vocalità del testo,quando Spatola, sempre a partire dalla svolta dell’Oblò,costruisce degli autentici personaggi della dissidenza o ruoli che invadono il campo del quotidiano,riducendolo a periscopio o a personaggio uguale del testo stesso, e perciò a contrastarsi. Il linguaggio metastorico, o meglio più che metastorico, new-dada, pop, prosastico viene trattato da Adriano Spatola come “solitudine attiva”. Già ho detto del nesso tra parola e immagine, tra logos e filosofia della composizione, ma va ancora sottolineata l’eccezionale unicità di questo linguaggio dove una massima tensione da visual poetry incontra un toward total poetry! Una ricerca, va detto, assai particolare; infatti da un punto di vista meramente contenutistico: il vitalismo, il carattere cruento, la creatività, le doti di maieutica lo riportano tra Majakovskji, il surrealismo e il dadaismo! Nel progetto degli zeroglifici la parola è distrutta,né rimane solo il tracollo grafico.
“Il sistema non è il testo: esso serve alla sua organizzazione, agisce come codice di decifrazione, ma non può né deve sostituire il testo come oggetto che abbia per il lettore valore estetico” (Sulla poesia: testo e sistema, J. Lotman 1974).
Una ricerca, quella di Spatola, va detto,assai condensata, la ripetizione vuol dire la presenza dell’autore-attore, la soggettività performatica,la fitta opposizione di successionii formali eccessive che si sbudellano,nella ineludibile coscienza dello zero sullo zero tra lo zero semantico.
Lo zero assoluto è la semantica più bassa che teoricamente si possa attenere in qualsiasi sistema macroletterario e microletterario. Si può mostrare,secondo Spatola, con le leggi della testo-dinamica che la temperatura del corpo non può mai essere esattamente pari allo zeroglifico assoluto, anche se è possibile raggiungere semanticità arbitrariamente distruttive vicine al esso. Allo zero assoluto le parole e gli atomi di un sistema testuale scoppiano e il sistema ha il minor quantitativo possibile di energia fonocinetica permesso dalle leggi della corporalità. Questa energia semantica minima corrisponde all’energia del punto zero,prevista dalla meccanica del testo, dalla sua ontologia per tutti i sistemi che si esprimono con un potenziale confinante.
A temperature molto basse, prossime allo zero assoluto, la materia dello zeroglifico si espande, le pronunce traducono oggetti di superconduttività,la superfluidità e la condensazione si diramano nel testo.
Proprio nell’affrontare continuamente una tematica zeroglifica e pronta a chiedere la propria stessa voce, Spatola sputa l’Agone e resiste nella poesia con la diversità del Centauro!La ripetizione esalta la resistenza del testo e nel testo e alimenta la forza di uno dei nostri maggiori poeti-sperimentatori che anche nel proprio aspetto fisico,durevole e granuloso, espressionista e fornacesco, sembra così compiutamente esprimere la più sociale e totale immagine della poesia del secondo ‘900.