Dopo mesi di attesa, l’8 aprile 2017 si è finalmente aperta al pubblico l’attesissima 14esima edizione di Documenta che, per la prima volta nella sua storia, amplia il proprio centro espositivo da Kassel ad Atene. Aprire la storica manifestazione tedesca nella capitale greca è un’operazione politica e culturale che, secondo la visione curatoriale del suo direttore artistico Adam Szymczyk, accorcia le distanze fra i diversi e divergenti contesti storici, socio-economici e culturali fra i due paesi, metaforicamente esemplari di tutte le “distanze” che separano il nord Europa dall’area del Mediterraneo, e che vede e riconosce nella Ελλάδα una “finestra” simultaneamente aperta sull’Africa e sull’Asia. Documenta14, pertanto, oltre a celebrare i suoi sessant’anni di vita, si propone come una piattaforma sperimentale dove le tensioni generatesi dalla crisi europea fra la Germania e la Grecia sono poste a confronto e punto di partenza per strategie artistiche che, in quel Learning from Atene (Imparare da Atene) titolo dato allo spaccato greco, manifestano l’esigenza un nuovo apprendistato. Documenta14 è, quindi, un’esposizione “criticamente” aperta dove, nel periodo antecedente l’inaugurazione, le istituzioni, gli artisti e tutte le persone coinvolte al progetto, ma anche le radio e le TV greche, hanno lavorato in tandem allo staff di Documenta, insistendo su un approccio metodologico finalizzato a far emergere il potenziale trasformativo della realtà di ogni giorno.
Tutto questo è “The Parliament of Bodies”, leitmotiv di tutta Documenta14 che, nel contesto dell'”integrazione” capitalista, ispirato dalla metodologia “Open Form” dell’artista e architetto Oskar Hansen e ripercorrendo la storia dello sviluppo delle società per la liberazione della tratta dei negri iniziata nel XVIII secolo, nel contesto ateniese in collaborazione con la Scuola di Belle Arti, da ottobre 2016 ha continuamente incentivato l’auto-organizzazione delle singole mostre che partono da Parko Eleftherias, sede principale delle Società di Atene, e si espandono all’interno della città contaminando spazi, che vanno da Polytecnico a diversi archivi, a caffetterie fino ad aree inesplorate la città.
Riflettendo sul senso del “The Parliament of Bodies”, sull’idea di una “società” composta da tante “società” (tutte le mostre fra le principali venue più una quarantina circa di altri luoghi coinvolti) ciascuna libera di determinare la propria temporalità e la propria forma di azione, è possibile comprendere meglio l’intero corpo delle opere in mostra in ogni istituzione culturale e i singoli interventi presenti in Atene. In ciascuna delle mostre visitate, dall’ EMST– National Museum of Contemporary Art, al Benaki Museum – Pireos, dall’ ASFA – Athens School of Fine Arts, all’Athens Conservatoire, si leggono, a nostro avviso, essenzialmente tre macro gruppi di opere incentrate sui temi dei Regimi, delle Culture Tribali e dell’Ecologia. In ognuno di questi temi non c’è né critica né protesta, semplicemente essi sono il risultato dell’organizzazione di una determinata società, in un preciso momento storico del passato e nell’attualità. In sostanza questi argomenti sono la visualizzazione di come l’uomo organizza la sua esistenza in un sistema, crede e si adegua ad esso, lo combatte, lo distrugge, lo trasforma.
Pertanto, come ogni esposizione (società), curatorialmente parlando, mostra caratteri propri e indipendenti, così ogni singola opera o gruppo tematico è esemplare di un sistema di società. Allo stesso tempo, come ogni società (mostra) compone Learning from Atene, ogni filone tematico origina un mosaico multiforme dell’organizzazione sociale dell’uomo.
Nel nostro peregrinare durante i giorni dedicati alla preview per la stampa, abbiamo pertanto individuato 13 opere che, a nostro parere, evidenziano quanto appena affermato e che, proprio per queste ragioni, hanno catturato la nostra attenzione.
La prima traccia partendo dall’EMST (guarda la gallery) si palesa nel lavoro di Piotr Uklanski – McDermott & McGough, The Greek Way (Hitler and the Homosexuals) del 2001, dove si tocca anche il tema dell’omosessualità, ossia quelle vittime dimenticate del regime nazista.
Si rimbalza poi al museo Benaki dove la maggioranza delle opere sono attraversate da un forte senso di narratività e dove s’incontra il progetto dell’artista israeliano Roee Rosen, Live and Die As Eva Braun, del 1995-97 che immagina, scrive e descrive fra testi e disegni, gli ultimi giorni della vita dell’amante di Hitler, fra onirici deliri sessuali e coscienza o auto-convinzione di un destino preordinato – e percepito con orgoglio – nell’essere consacrata al dittatore.
Straordinaria la quadreria di Tshibumba Kanda Matulu, artista autodidatta che fra il 1973 e il 1974 ha dato vita a questo ciclo sulla storia del colonialismo Belga in Congo e che, nonostante i colori accesi e squillanti e un’espressività un po’ naif, trascende un disperato appello che chiede ascolto per la sua versione della storia e quella del suo popolo.
Infine segnaliamo il docu-film dei due filmmaker Yervant Gianikian Kal/and e Angela Ricci Lucchi, noti per la loro personale rielaborazione d’immagini d’archivio, presenti a Documenta Atene con lo storico video Return to Khodorciur, Armenian diary del 1986, e che proprio attraverso la forma del diario filmato e tramite la voce di Raphael, il padre di Gianikian, profugo dall’Armenia alla Siria per scampare al genocidio, ricostruisce la sua autobiografia e le vicende di un intero popolo sterminato.
Tornando all’EMST, sul tema delle culture tribali incontriamo un’intera sala allestita con le maschere rituali e le sculture in legno dell’artista Beau Dick, scomparso lo scorso 27 marzo, realizzate fra il 1990 e 2012; poi quelle di animali in corda e tessuto di Khvay Samnang, Preah Kunlong (The way of the spirit) del 2017, un lavoro complesso sulla concezione che la comunità cambogiana di Chong ha sulla storia della foresta in cui vive, costantemente minacciata da colonizzazioni e che essi percepiscono come un luogo spirituale. L’idea della maschera/animale diventa una sorta di oggetto che incorpora il dato spirituale prolungandosi attraverso il corpo, un qualcosa che Khvay Samnang ha potuto comprendere solo attraverso un lungo periodo di integrazione di se stesso in quella comunità.
Alla scuola di Belle Arti c’è l’installazione di Maria Magdalena Campos-Pons e Neil Leonard Matanzas Sound Map, da anni impegnati sui temi della sessualità e della cultura mista cubana, ma anche sulla presenza del corpo nero nelle narrazioni contemporanee. Al Benaki, il lavoro per la serie Each night put Kashmir in your dreams del 2003-2004 di Nilima Sheikh, con grande eleganza, racconta le rivendicazioni sulla sovranità di quei territori compressi fra India e Pakistan.
Al Conservatorio di Musica, Noel Kettly mostra la recentissima Zombification, una scenografica installazione cui si affianca una suggestiva performance ( altra disciplina particolarmente incentivata e sostenuta in questa Documenta), mentre Nevin Aladag, ha organizzato la sua Music Room (Athens) con estrosi arredamenti musicali, veri e propri strumenti che sono stati suonati/attivati con improvvise martellate più volte al giorno andando così ad “attivare” il luogo stesso che li ospita.
Sul tema dell’Ecologia o più genericamente della natura se vogliamo, sebbene siano presenti in Learning from Atene moltissime opere che potrebbero essere prese ad esempio, segnaliamo Plastics Progresses: Memento Mori di Bonita Ely. In Memento Mori l’artista australiana combina le conseguenze traumatiche della guerra da un lato a quelle dell’inquinamento ambientale dall’altro, mostrando quanto la vita da una parte del pianeta possa essere profondamente influenzata dai rifiuti degli altri. Mentre in Plastikos Progressus delinea i pericolosi e imminenti scenari per i sistemi ecologici acquatici, dando vita a nuove specie di faune plastiche accompagnate da relative illustrazioni botaniche che le classificano. Chiude, questo breve giro per Documenta, il lavoro di Bili Bidjocka, The Chess Society che, attraverso la millenaria storia di questo gioco, racconta metaforicamente l’idea di “strategia” sottesa ad ogni epoca politicamente repressiva.
Per terminare, un po’ di poesia. Rebecca Belmore colloca sulla collina di Filippou Biinjiya iing Onji (From Inside), una tenda da campeggio da cui si osserva il panorama mozzafiato del Partenone. Una tenda oramai sempre più una casa per i rifugiati, gli immigrati o persone colpite da calamità naturali, ma che qui la Belmore realizza in marmo, immaginando stabilità per tutti coloro che non la vivono, quella stessa stabilità che trasmette la vista del secolare tempio greco. Biinjiya iing Onji (From Inside) è un monumento dedicato alla transitorietà.
Ma vicino alla nota poetica, per concludere, c’è anche quella polemica. L’intera impaginazione di Documenta14 è ben congegnata e la qualità delle singole opere è indiscutibile, tuttavia non possiamo non fare una breve riflessione che valica il territorio dell’estetica entrando in quello meno lirico dell’economia e del mercato. Il nostro occhio meno ingenuo e disincantato ci fa guardare questa storica manifestazione, la Germania e la sua presenza nel contesto dell’arte ateniese, più a qualcosa che odora di espansione territoriale culturale che non a una vera e propria volontà di collaborazione fra i due paesi.
Photo by Roberto Sala