Alle origini della tragedia
L’ultima stagione del nuovo teatro è stata per molti versi interessante, non solo perché ha prodotto risultati di notevole rilievo, ma soprattutto perché ha mostrato la transizione verso qualcosa di nuovo. Molte sarebbero le considerazioni da fare su questa stagione che ha avuto come momento centrale la rassegna The return of Wun Man Sho (versione scherzosamente cinesizzata di The return of Wun Man Show (versione scherzosamente cinesizzata di The return of One Man Show); le rimandiamo ad altra occasione per concentrarci qui sul momento conclusivo rappresentato da Passaggio a Sud – Ovest, rassegna organizzata da Giuseppe Bartolucci con la collaborazione del Teatro Studio di Caserta e svoltasi dal 22 al 24 giugno nella famosa reggia vanvitelliana e nel suo magnifico parco. Non c’è bisogno di sottolineare l’indiscussa capacità di Bartolucci e la sua spiccata sensibilità nel cogliere ogni accenno di novità presente nell’aria; queste doti gli hanno permesso comunque di realizzare un’iniziativa che si è rivelata uno specchio esemplare della situazione attuale. La manifestazione, che prevedeva interventi di giovani artisti presentati da giovani critici, ha mostrato chiaramente il disagio della critica – anche di quella giovane – di fronte ad una situazione di passaggio e di transizione, una situazione ribollente sul piano creativo che sottolinea l’esigenza e l’urgenza di rivedere completamente sia gli strumenti critici che i meccanismi pubblici di intervento. Tipici a questo riguardo gli interventi dei critici di “Paese Sera”; Enrico Fiore di Napoli, che, con una simpatica messa in scena, operava la sua “trasgressione” trasformando la sua presentazione del Teatro Studio di Caserta in una sorta di poetica, narcisistica autocitazione (scritta “da un punto imprecisato di una lontanissima/vicinissima galassia”) e Andrea Ciullo che, con solo cinque parole (“mi avvio verso il mare”) esprimeva la sua intenzione – poi attuata – e la sua artistica reazione alla difficoltà di estrinsecare il suo ruolo. Altri interventi, ciascuno riferito ad un gruppo, di Lorenzo Mango, Rossella Bonfiglioli, Giulio Di Martino, Oliviero Ponte Di Pino, Gianni Manzella, Carlo Infante, Serenella Romano. Questi interventi erano stati preceduti da una relazione di Claudio Marchese, giovane studioso dell’Università di Pavia, che ha centrato il tema di un sottotitolo della rassegna (Alle origini della tragedia), sottolineando l’importanza di Artaud in questo nostro secolo tormentato e la validità del suo richiamo a valori originari forse non perduti e recuperabili con un teatro non più sottomesso al dominio della parola. I temi di questo discorso introduttivo avrebbero trovato, come vedremo, un riscontro pratico nell’ultima performance. Come abbiamo detto non erano presenti nomi più noti del nuovo teatro, con l’eccezione di Giorgio Barberio Corsetti, che qui si presentava sena ormai la sua famosa “Gaia Scienza. Corsetti, ben spalleggiato da Ennio Fantastichini, non ha deluso le attese, producendosi in una performance dal titolo Il ladro di Bagdad che ben si adattava al parco, al verde prato e alle pozzanghere, residuo di un’acquazzone da poco terminato. Il lavoro di Corsetti era qualcosa di veramente completo con le sue componenti teatrali, pittoriche e musicali. Si aveva infatti una interessantissima interazione improvvisativa fra performer e musicisti (flauti e trombone) che si colorava letteralmente con la polvere Blu (richiamo a Blu Oltremare presentato anche alla settimana della performance del 1978 a Bologna), gialla, rossa e verde: che effetto quel verde dentro altre tonalità dello stesso colore della vegetazione del parco! E il vitalistico balletto produceva una specie di quadro colorato su una serie di lucide lastre metalliche, già usate in precedenza come materiale sonoro. Corsetti si allontanava poi lasciando una scia di alluminio che, abbandonato il verde, lo portava a concludere fra le pozzanghere di un ombroso vialetto questa performance che costituisce una “summa” perfettamente riuscita di alcuni anni di apprezzato lavoro.
I milanesi Roberto Taroni e Luisa Cividin hanno rapportato l’analisi del tempo allo specifico spazio della sala dell’Istituto di Storia Patria della reggia; la relazione fra presente (azione dal vivo) e passato (azione registrata) era analizzata a più livelli, come nell’esemplare scena della progressiva distruzione della sedia, operata da Roberto che ci si sedeva violentemente, tenendo in mano un proiettore che mostrava immagini, balzellanti, a causa dei suoi movimenti, rappresentanti ancora una diversa distruzione di una sedia (e una sedia con le gambe tagliate era presenta in scena in modo quasi angosciante). Il loro Tempo reale rappresenta un originale uso teatrale di vari audiovisivi – film e video – che diventano protagonisti come gli stessi attori con cui si rapportano. Se il lavoro di Taroni_Cividin ha qualche relazione con, Il Carrozzone per l’uso dei tubi al neon, quello di Dal Bosco-Varesco richiama il gruppo fiorentino per la ripetizione ossessiva di gesti minimi fermati come fotogrammi di un film. Il loro Miami, qui seguito dalla specificazione sequenza del progetto, si è ben adattato alla sala dell’Istituto di Storia Patria, utilizzandone anche gli arredi. E le immagini del film proiettate sulla parete laterale (Lassù qualcuno mi ama, con Paul Newman) e della diapositive alle spalle di Francesco Dal Bosco e Fabrizio Varesco (con gli ormai immancabili occhiali scuri, hanno ben contrappuntato l’immobilità dei due trentini seduti sul divano e i loro rapidi movimenti (quasi tic o spezzoni di film). La sera poco dopo il tramonto, quasi all’uscita interna della reggia, il pubblico poteva osservare uno schermo bianco con un neon che si illuminava di rosso e si metteva in relazione con una pulsante proiezione rossa. Si poteva trattare di un altro lavoro minimal basato sulle luci, ma in lontananza, nella bella prospettiva del viale del parco, si potevano intravedere alcune persone misteriosamente indaffarate intorno ad una macchina; il contrasto risultava di notevole effetto. Lotus Seven 2600 si sviluppava così nella mente degli spettatori prima di prendere consistenza con la ripetuta corsa in direzione del pubblico della macchina che scaricava uno per volta Toni Servillo e gli altri componenti del teatro Studio di Caserta, tutti in bianco con cravatta nera e occhiali scuri, oltre ad una vamp stile Hollywood. L’analitico annullato in immagini da rotocalco con richiamo a pubblicità cinematografica o a violenza politica; e l’ambiguità era accresciuta da una grande stella a cinque punte proiettata sullo schermo.
Dimenticando le precedenti opere, ben costruite, i gruppi napoletani procedevano ad una specie di annullamento del teatro: Vittorio Lucariello (Spazio Libero) limitava in Magic Record la sua funzione a quella di speaker, mentre i piloti professionisti davano vita ad una vorticosa corsa di moto intorno al laghetto dei cigni; Mario Martone (Falso Movimento) lasciava il campo – cioè il parco – ad un bravissimo aeromodellista, così che lo spettacolo era costituito dal rapporto fra le acrobatiche evoluzioni degli aeromodelli teleguidati e il pubblico sul prato (il significativo titolo Theatre Functions Terminated si componeva e ricomponeva, essendo scritto a parole separate sulle magliette di alcuni attori-spettatori). Sulla stessa linea Giles Wright e Ezio Ballerini (Il manoscritto ritrovato nel 4000) facevano diventare attori, loro malgrado, alcuni partecipanti che, con delle radioline ricetrasmittenti, tentavano una impossibile comunicazione. Il gruppo milanese Oh-Art con Antonio Saletta, Marina Bianchi e Oliviero Ponte di Pino, trasformava la sede di via Majelli del Teatro Studio per proporre con Marina’s Cieloplastic Pops, una messa in scena – fuori programma – di private situazioni. Cinque ragazze, Ippolita Avalli, Caterina Casini, Monica Gazzo, Gloria Guasti e Marzia Mealli (il lorogruppo non ha ancora un nome; forse sarà the-a-tre dal loro primo spettacolo) reduce da esperienze di teatro alla Maddalena hanno proposto in piena utilizzazione serale del magnifico parco con il loro Demetra Good-by la loro azione è stata intralciata dalle norme pubblico riversatosi nel parco, ma ha dimostrato una notevole forza comunicativa e momenti di sincera attenzione.
A questo punto già risultano evidenti la ricchezza di stimoli forniti, la varietà delle proposte il senso di disagio caratteristico dei momenti di transizione e avvertito dagli artisti; tuttavia la rassegna non sarebbe stata completa senza l’appropriata conclusione avvenuta nella notte di domenica 24 giugno con la splendida performance di Benedetto Simonelli con riferimento alla data giorno di San Giovanni ha proposto nei giardini della flora dilato al Palazzo Reale Midsummer night’s dream, Dando una chiara risposta agli interrogativi di quei giorni con un lavoro che riportava davvero alle origini della tragedia: quasi una a attuazione di alcune teoriche affermazioni della relazione di marchese (presa come testo di regia) e delle profetiche visioni di Artaud, Benedetto Simonelli illuminato dai fari della macchina guidata dalla sua compagna Esmeralda, ha realizzato un evento fatto di cose minime, ma vibrante di una tale carica espressiva da riuscire a trasmettere sensazioni di maestosità e di solennità caratteristiche di una profonda ricerca interiore che diventa contemporanea- mente ricerca delle origini del teatro. I problemi della vita e della morte il duro cimento esistenziale l’ansia di vivere con pienezza il momento il istante sono stati mostrati nella loro essenza facendo assumere ai gesti più comuni un in consueto valore sacrale. Aldilà dell’analitico e del concettuale, superando la dicotomia freddo-caldo altro sottotitolo della rassegna, Simonelli ci ha ricondotti all’essenza del teatro, facendoci vivere un magico Sogno di una notte di mezza estate.