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Occidentali’s Kapital

Procediamo contro il metodo. Alcuni anni fa, quando la mia generazione si affacciava all’adolescenza e andava strutturando idee politiche (ritenendo la politica ancora valida), impregnati dalle vicende del G8 di Genova, che ci sconvolse e ci educò costruendoci delle categorie che si sarebbero verificate tragicamente utili per il mondo che avremmo trovato a partire dal 2001 in poi, sognando i Girotondi dalla nostra periferia (periferia meridionale e intellettuale), frequentando i salotti eleganti dei guru sessantottini, da cui stillavamo saggezza come gocce di grappa dall’alambicco, e prima di finire schiavi -per mantenersi agli studi- di una qualsiasi multinazionale svolgendo lavoretti sottopagati, andava di moda un libro intitolato “No Logo”, scritto da Naomi Klein, una giornalista canadese figlia di figli dei fiori.

Ricordo che il libro, al gruppetto di studentelli del liceo con sentimenti più irrequieti e la kefiah al collo (oggi precari appesi a un cappio), appartenenti a famiglie appena appena borghesi, con il mutuo della casa sulle spalle, che odiavano Berlusconi, la Moratti, i fast food, la guerra in Iraq e il compagno di classe perché il padre era “pezzo grosso” all’ARS e la madre baronessa e farmacista, il libro dicevo, insieme alla diffusione -quasi clandestina- di fotocopie anarcoidi che contenevano dispacci pacifisti e No Global, diede grande forza critica, divenendo un punto di riferimento per leggere adeguatamente la società, insoddisfatti dalle classiche riviste settimanali, quelle che sottraevo pochi minuti dalla buca delle lettere del vicino abbonato (una sorta di “furto a tempo”), o dai testi scolastici istituzionali, spudoratamente di parte e colmi di messaggi occulti.

La Klein, al capitolo due, narra dell’espansione -eccessiva aggiungerei- del logo nel mondo economico moderno, e in che modo questo abbia tragicamente conquistato il centro della scena culturale. Il branding, dice Naomi, non desidera soltanto aggiungere valore al prodotto, ma «assorbire avidamente spunti culturali e iconografici che i marchi [possono, ndr] riflettere sulla cultura come proprie “estensioni”. In altre parole sarebbe […] la cultura ad aggiungere valore ai marchi».

Cosa significa? Che le multinazionali, consce dell’inutilità del proprio prodotto, e avide di denaro, devono necessariamente associarsi a qualcosa che abbia un’intrinseco interesse, affinché il superfluo non venga considerato tale, ma elemento che sia valido e che soddisferebbe un bisogno: dunque elemento di cui potremmo farne a meno, ma di immediato consumo.

Ciò è quanto accaduto pochi giorni fa: la Gucci ha richiesto in “affitto”, manco fosse una sala trattenimenti per feste di compleanno, il Partenone… così, per una sfilata. La risposta del direttore del museo dell’Acropoli di Atene Dimitris Pantermalis è stata meravigliosa (non saprei giudicarla in altro modo), e sembra estrapolata da Ruskin, Thoreau o Latouche, rivestita di una profondità intellettuale, di una resistenza, che l’Europa contemporanea ha perduto da tempo. Merita di essere annotata: «Il valore e il carattere culturale dell’Acropoli di Atene risulta incompatibile con un evento simile. Non abbiamo bisogno di pubblicità. Il simbolismo del Partenone subirebbe uno svilimento se venisse utilizzato come sfondo di una sfilata di moda». Ci sarebbe da soffermarsi, se il tempo ve lo consentirà alla fine di questo scritto, sul termine “svilimento” associato a “monumento”, e sulla recente storia politica della Grecia e questo rifiuto. (Gucci, suvvia, est modus in rebus!)

Ci sono stati sviluppi dopo il “due di picche”? Certo. Si è fatta avanti Agrigento: città che fu fondata dai Greci, secondo Tucidide, intorno al 581 a. C., ereditando (non meritatamente, in virtù di quello che sto per dire) un patrimonio tra i più belli del Mediterraneo. La città di Pirandello ha colto la figuraccia di Gucci, invitandola -con modi da fine escort- a sfilare dinanzi al tempio della Concordia. La griffe non ha ancora risposto; ma, dal canto suo, ha dichiarato che i “dettagli” apparsi sui giornali in merito alla vicenda ellenica sono privi di fondamento (eh?).

Gucci, non dandosi per vinta, si è dimostrata quello che è: un’immensa industria. È stata diffusa la notizia, quasi in contemporanea alla querelle con la Grecia, che la casa di moda, con un’azione di sapore mecenatistico, più coerentemente aziendalistico, ha commissionato a Jayde Fish la realizzazione di un… un?, presso un muro di Soho, a New York (che l’arte urbana è quasi morta, non essendo ciò che i suoi principi la animavano, lo avevamo capito alla fine degli anni Novanta).

Questo intricato romanzo dimostra che oggi, purtroppo, il valore delle cose, valore inteso alla maniera di Pantermalis, che, ripeto, nonostante l’uomo non sia stato compreso ha fatto storia, si è perduto: non è soltanto dal passato dei Greci che dobbiamo imparare.

Eppure, non impariamo. Vedi il concorso canoro di febbraio testé conclusosi, di cui è innamorata l’italietta in paillettes, performance di strani prodotti che hanno calcato il palco per circa una settimana, sotto il fascio luminoso di un “occhio” controllore posto poco più in basso la graticcia. Sì, ha vinto una canzone orecchiabile. Non bella, per nulla bella. Diciamo che per le masse (alle quali, ho ormai capito, è vietato partecipare alla bellezza) appare perfetta, anatomica.

La nota stonata, non tanto del pezzo di Gabbani, bensì dell’operazione in generale -e questo risulta incomprensibile-, è perché ci siano state autorevoli testate giornalistiche (molte finanziate dallo stesso gruppo editoriale) che, con acrobazie concettuali, tentavano vanamente di spiegare il “valore culturale” di una filastrocca musicata, intitolata “Occidentali’s Karma”. Un valore inesistente, perché si tratta una canzone da juke box, priva di reale cultura, che si ascolta mentre si sbaciucchia un gelato sulla battigia; il cui testo è colmo di un’accozzaglia di luoghi comuni strappati sincreticamente dalla decomposizione del global-pop, buttato giù come se le parole avessero subito la centrifuga della lavatrice; tutto qui.

Se adesso mi concedessi con un «salām», mica, a un tratto, tutta la millenaria cultura araba impregnerebbe lo scritto che hai appena letto, arricchendo il suo ipotetico valore feyrabendiano, no?

Chi lo capisce, bene; chi non lo capisce, pazienza. Vai.

 

Dario Orphée La Mendola 

 

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