Solo poche settimane fa è avvenuta la svolta decisiva in ambito artistico, figlia del consenso ufficiale da parte delle istituzioni all’acquisizione di due opere di quella forma d’arte cosiddetta “generativa”. E ciò non poteva che avvenire in America. Precisamente nella Grande Mela. Due opere realizzate dall’AI hanno trovato ufficialmente posto nella collezione permanente del Museum of Modern Art (MoMA) di New York, suscitando plauso e scalpore verso un nuovo linguaggio che fa dell’ausilio della tecnologia il suo carattere distintivo.
Nonostante i dibattiti in corso sull’originalità e validità dell’arte creata dall’AI, il MoMA ha conferito rilevanza storica al movimento con una scelta secolare. Gli artisti digitali coinvolti sono Refik Anadol, originario di Istanbul, autore di “Unsupervised” della collezione “Machine Hallucinations”, e Ian Cheng, di Los Angeles, la mente brillante che ha ideato “3FACE”.
L’opera di Anadol è stata donata al museo dall’imprenditore Ryan Zurrer. Si tratta di uno schermo dieci metri per dieci che trasmette tre opere digitali. L’azione si svolge in tempo reale, generando continuamente forme nuove e ultraterrene che avvolgono gli spettatori in un’installazione ultra-immersiva. “Unsupervised” utilizza un modello di machine learning addestrato dall’artista e incorpora input specifici provenienti dall’ambiente della Gund Lobby del museo per influenzare le immagini e il suono in continuo cambiamento.
Dall’inizio del 2016 Anadol ha utilizzato l’AI come collaboratrice della coscienza umana. Insieme con il suo team ha raccolto i dati da archivi digitali di arte moderna del MoMa e da vaste risorse disponibili al pubblico. I dati di duecento anni di storia sono così stati rielaborati magistralmente dall’artista turco con tecniche di apprendimento automatico.
Dall’altro lato, il capolavoro “3FACE” di Cheng è stato considerato dall’istituzione museale americana “l’opera sperimentale più ambiziosa fino a oggi per quanto riguarda l’esplorazione delle tecnologie blockchain e la decentralizzazione dei dati”. Il progetto nasce dall’abilità dell’intelligenza artificiale di analizzare le transazioni associate al portafoglio blockchain del proprietario per generare di conseguenza un ritratto visivo basato su quei dati. Ogni singolo ritratto è creato sulla base di tre livelli di coscienza: postura, nutrimento e natura. Le categorie sono poi suddivise in quattro sottolivelli che descrivono caratteristiche ancora più specifiche della personalità di un individuo. Questa installazione in divenire è un esperimento nel campo del “worlding”, come sottolineato da Cheng, cioè la disciplina che esplora la capacità dell’AI di interagire con un ambiente caratterizzato da fattori mutevoli.
Ma il MoMA aveva già acquisito un’opera di Ian Cheng nel 2016. Infatti, la trilogia di opere generative “Emissaries” era entrata a far parte della collezione permanente segnando l’inizio di un percorso che a oggi vive di una propria legittimazione nella storia dell’arte.
Un’altra tappa fondamentale verso questa direzione è stata l’apertura nel marzo scorso della prima galleria d’arte interamente dedicata a opere di arte generativa, la Dead End Gallery di Amsterdam. La collezione (curata) presenta lavori di artisti pionieri dell’AI come Irisa Nova, Maximilian Hoekstra, Lily Chen e Amani Jones.
Le polemiche sono ancora tante e pendono dalla precarietà della proprietà intellettuale, e nello specifico dalla tutela del diritto d’autore, a un futuro pericolo per le libertà personali. Come sempre “in medio stat virtus”. Gli artisti digitali hanno sempre operato rispettando il mezzo con cui sono entrati in contatto e sviluppando nuove ricerche culturali con la collaborazione delle tecnologie più avanzate.