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Nove domande ai critici | Gabriele Perretta

Per fortuna ci sono gli artisti: condividi, e in che misura, questa intonazione o inno che dir si voglia?

Lentamente, sospirando fra una frase e l’altra, con lunghissime pause di riflessione e di stupore, anche l’altro da me si è sottoposto ad una intervista o a una riflessione: non a Roma, dove lui napoletano risiede e lavora da più di un’anno, ma nella sua casa sul web, in una stanzetta piena di collegamenti skype e di libri rimediati dalla biblioteca dell’Ecole di Palazzo Farnese, appollaita fra i tetti che guardano fuori verso l’antico paesaggio della capitale. E già questa residenza non mondana (non è un attico panoramico, con i giardini pensili, terrazze, dondoli e ombrelloni),di un uomo imparentato coll’arte, la poesia, la letteratura, la musica e la teologia, basterebbe a far dell’Altro da me un caso sui generis; perché l’altro da me è anche quello degli ortonimi che si perdono nel lavoro e nella scrittura di Altri per Altri: totalmente anonimi, etc….; perché l’altro da me è anche quello delle poesie che stanno per uscire (per un editore …), i saggi che continuano ad essere pubblicati, gli articoli di didattica dell’arte, etc…; come sociologo ha lavorato per il Club di Roma, come storico ha lavorato per gli Annales d’histoire de l’art et d’archéologie (U. L. de B.), come consulente professionale ha lavorato per  vari Enti, e poi ancora … per Paris IV, l’EHESS e in particolare al fianco di Ferruccio Rossi-Landi, Roland Barthes e Karl Otto Apel. Ne fra questi due termini c’è maggiore contraddizione di quanto non ci sia fra molte circostanze della sua vita, che dal di fuori sembra davvero tutta imprevedibile: “l’enfant terrible” del ‘1977’ parteciperà ad un movimento di “strani studenti/un po’ indiani metropolitani e un po’ post-punk”; e se continua a scrivere pezzi facili e difficili, racconti e saggistica, ha alle spalle una grande varietà di curatele e ideazioni legate al movimento medialista: la lunga dimestichezza con la realizzazione del medialismo e le Accademie, i corsi di semiotica e di estetica. “I miei peccati non sono di distrazione, come vede”, dice l’Altro da me rispondendo alla prima domanda.

Mi ascoltava da tempo spiegando perché facevo questi colloqui con me e l’altro da me; e lui sospirava, seduto davanti al pc, e muoveva le dita sulla tastiera, in continui accenni di appunti e contrappunti, come per darsi un contegno. Gli avevo chiesto come si sentiva collocato nella credenza dell’esser artisti o critici oggi: perfettamente presenti oppure no? E nella sua facilità c’era forse anche una punta di polemica con i difficili discorsi e identità del doppio? L’Altro da me si guardava intorno, sorrideva, sembrava che non volesse rispondere; e poi, lentamente, aveva cominciato a farmi parlare e forse a integrarsi in “Noi”: “E’ difficile rispondere…ma mi sembra di poter dire che la polemica, nei miei atteggiamenti, ci sia – se c’è – in minimo grado. Vede: forse le sembrerà perfino strano; ma la mia compagine, tutto l’ambiente in cui son vissuto e mi sono formato, è stato sempre molto d’ avanguardia. L’arte somiglia moltissimo ad un circo, oppure alla fine disastrosa di un circo. Tutto ciò che capita nel corso del concepimento, della preparazione o del montaggio è utile all’arte e al suo stesso senso. Tutto è importante. La malattia di un artista, il rifiuto di un produttore, la pornografia indotta, l’incidente che blocca l’avanzata di un movimento, non sono degli ostacoli, ma proprio gli elementi in base ai quali si fa un’opera d’arte o un evento. Al giudice Anastasi, dice il semiologo Angelo Schlomo Tirreno, bisognerebbe assegnare la “statuetta della pornografia d’oro”: i suoi arresti e sequestri sono stati la migliore campagna pubblicitaria per i porno-media, i porno artisti, e per le storie d’arte in genere. E’ ora che anche i sociologhi e moralisti han concluso che lo scandalo artistico, detto anche porno arte, non fa male a nessuno e che se uno è guardone è meglio che si guardi le cronache del successo in arte nelle aste piuttosto che andare a infastidire gli innamorati in camporella o dentro alle chat, ci si può chiedere: “Per fortuna ci sono gli artisti: intonazione o inno che dir si voglia”[?]; chi confeziona la fortuna degli artisti, queste narrazioni di vita porno-popolari o soltanto popolari che si presentano a noi alla luce di una grande mediamorfosi. Le compagnie dei mercanti e dei curatori di questo genere nascono e muoiono come funghi, non fai a tempo a metterci le mani sopra che il panorama è già cambiato, sono morte sei gallerie d’arte e ne sono nate altre dieci, legate ad altrettante mode di durata imprevedibili. Rifacciamoci al fenomeno della Brit-art, approdato lussuosamente sugli schermi, acquistabile in rispettabili fiere, visionarietà studiata a tavolino e che nessun lumpen-borghese (nuova classe sociale dopo la crisi del 2008, in via di definizione) pensa di nascondere agli occhi del visitatore occasionale. Intanto fra i fattori che svolgerebbero una funzione distintiva dei significanti sono da annoverare anche i tratti prosodici o soprasegmentali dell’arte. Essi non riguardano il singolo segmento o forma artistica ma la catena di ciò che l’arte enuncia. L’intonazione, per dirla con il senso della domanda, è costituita dalle variazioni del tono che formano la curva semantica dell’opera e che veicolano informazioni supplementari (e – nell’opera contemporanea – dove sono queste cose?); ad esempio la gioia, la rabbia, l’implorazione all’interno di un tessuto artistico, nell’immagine esclamativa, la domanda nel segno interrogativo. E’ poco evidente, quasi invisibile, il valore connotativo dell’intonazione nel linguaggio artistico e in particolare è quasi scarso o nullo a partire dalla pittura; soprattutto l’accento astratto e informale. Tutti sono astratti e informali, tutti gli artisti sono casuali e aprogettuali. Non parliamo poi dell’inno,l’inno, in origine, era un componimento dedicato a una divinità di cui si ricordavano nomi e fatti prodigiosi, spesso a fini propiziatori. Non mi sembra che l’arte dopo la caduta dell’aura abbia una storicità prodigiosa! Lo stesso Gino De Dominicis ha dimostrato che tutto ciò se praticato oggi finisce per divenire strategia di mascheramento dell’artista più che rivendicazione poetica. L’inno odierno, integrato nella società mediologica, che assorbe tutto, “non servì” per esprimere nuovi sentimenti, particolarmente solenni, civili, filosofici, ma solo la condizione dell’economia artistica contemporanea, quella che alla fine degli anni ’80 ho chiamato la sua “impresa mediale”. Quanto tempo avrà trascorso il Capitale liberale contemporaneo dinanzi ad una gabbia di scimmie allo zoo, per incarnare con tanta destrezza una bertuccia di montagna, un King-Kong del Gran Sasso, dondolandosi con un barcollio brachiatore e gracchiando con una ruggente raucedine da avvinazzato vecchietto della finanza artistica, che a tratti prorompa nelle escandescenze del turpiloquio antiartistico, anti-accento, anti-intonazione e anti-inno? Quanto sono profonde nel mainstream e nell’establishment di gusto para-attuale, le radici dell’anti-arte e del dadaismo? E qual è il prezzo che i sistemi artistici nazionali devono pagare rispetto a quelli internazionali? Il  dadaismo è partito radicalmente rivoluzionario ed è giunto a noi pompiere. La modernità “inusuale” del dadaismo ha lasciato la provocazione dentro al Pissoir capovolto di Duchamp e in quello rimesso al suo posto e “reso d’oro” da Cattelan. Il messaggio propulsivo e rigeneratore del dadaismo, la sua natura spiccatamente di sinistra, la sua poetica del caso è conflagrata nell’action painting. Un notevole contributo dato alla definizione di nuova estetica classica sono i ready-made. Oggi il termine indica una nuova forma di Rhetorica ad Herennium.

Considerando la “liquidità” della nostra epoca, quali sono, se ci sono, i limiti del soggetto artista?

Domandare a Perretta (e  soprattutto “all’altro da se”) della sua idea di liquidità, delle sue ragioni poetiche è difficile; più facile è ascoltare da lui (a sprazzi, in quel suo tipico modo di aprir parentesi e digressioni) una catena di giudizi inquieti, radicali sulle sue avventure di autore controverso, segnato dalla battaglia dell’artista, dell’intellettuale, del compositore: ma per Perretta e soprattutto per l’altro da se (in sé) il momento dell’analisi senza confini non è ancora arrivata, ne può venire. Nel campo della teoria artistica si cerca di trovare una risposta al problema di come l’artista sia capace di acquisire la consapevolezza della propria lingua. Questa consapevolezza può essere definita come una “struttura che non connette” che l’artista, rispetto alla forza ed all’azione del capitale, non sono riusciti a dominare la lingua visiva ma è la lingua pubblicitaria che domina noi. Andy Warhol, con delle dichiarazioni che risalgono al 1975, parlava di teoria del nulla che si stava affermando e di un domani in cui si diffondevano solo gli odori. Forse siamo vicini a quella superficiale profezia: odori sì, ma di nucleare!. Queste due domande, quindi, ci pongono di fronte a due problemi: 1. Qual è il sistema di regole che, padroneggiato da un artista gli permette di utilizzare la propria lingua con libertà? 2. Il secondo problema consiste nell’accertare quale sia la caratteristica di base della natura artistica contemporanea, che consente di assimilare questo sistema speciale di regole, qualunque sia il sistema linguistico considerato! Io credo che la conclusione più giusta che si può trarre è che il sistema di regole assimilato da un artista normale è estremamente ricco, astratto e assai distante, per sua natura, dai dati immediati dell’esperienza. Se ciò è vero per la maggior parte delle nostre attrezzature, lo è ancora di più nel caso del linguaggio artistico. Questa certezza significa che lo studioso della natura artistica si trova di fronte ad un problema gravissimo quando deve spiegare come un sistema di regole straordinariamente ricco, e articolato in modo tanto complesso, sia assimilato da un artista sulla base di un’esperienza molto frammentaria. La difficoltà non consiste nello spiegare come si sviluppino i comportamenti sulla base dell’apprendimento e neppure come vengano assimilate le generalizzazioni sulla base della liquidità, della flessibilità post-fordista; al contrario, il problema si avvicina – sotto diversi aspetti – molto di più a quelli di un artista di concetto capace di creare una teoria artistica sulla base di un’esperienza frammentaria e non ordinabile. Noi sappiamo bene che il capitale impedisce che esista alcun mezzo per raggiungere il risultato dell’identità, il capitale mira a creare l’altro, e nell’altro l’affermazione dell’altro è una lotta impari. Dunque, se gli artisti sono capaci di ottenerlo, ciò è dovuto al fatto che sono naturalmente dotati di una capacità specificatamente umana che permette loro di assimilare proprio questi sistemi di sublimazione e non altri di tipo diverso. In altri termini: vediamo se riesco a rispondere al primo interrogativo, presupponendo pure la risposta della seconda domanda. Proviamo a mettere insieme e a replicare in maniera complessiva alle due domande, dando per scontato che terrò conto della definizione baumaniana introdotta e cercando di spiegare “un po’ tutto!” In sostanza va bene “l’intonazione” ma c’è da capire la musica! Va bene, se va bene, anche il liquido sociologico di Bauman, ma sono proprio i “liquidi” e i “limiti” che ci possono far chiedere “se ci sono gli artisti, se oggi ci sono artisti e come sono[?]”. Pensiamo subito a Banksy: è un artista, è l’artista, è l’eco dell’artista o è forse l’altro dell’artista stesso che in tutta la sua liquidità, tra la metropoli e la rete, non fa altro che estendere il mio discorso sul medialismo, tra il 1984 e l’uscita di art.comm (del 2002)! Gli artisti ci sono? Potrei rispondere così: gli artisti ci sono in quanto co-autori di un sistema, ma il sistema fa in modo da farci porre tale domanda? e poi, potrei, pensare subito alle performance di Carmelo Bene sulla discutibilità dell’attore o sul problema ontologico; perché la tua domanda si riferisce al verbo essere, tutti ci riferiamo al verbo essere; ma quanto nel verbo essere, grazie al capitalismo è ancora nell’essere umano e quanto dell’umano è nella proprietà e nel valore verbale dell’essere, che tu chiami “dell’essere artista”.

Qual è il tuo filo diretto con l’artista, il suo mondo, la sua vita privata?  Ti sei mai innamorato di un artista?

“Ma allora – guidando l’invito alla domanda – si potrebbe dire che in lei […] agiscono ancora delle spinte di corrispondenza? … Ah, io sono un pessimo soggetto per far fili diretti … lo dicono le mie storie d’amore … Direi che le mie ricerche di presa diretta hanno bisogno di un trampolino …”. Il mio filo diretto è: “con l’opera dell’artista”, se l’opera c’è e si riesce realmente a percepire; per me l’artista è la sua poetica, è il suo fare. Un fare che può apparire tanto meramente teorico e tanto meramente pratico. Mi ricordo che su queste questioni, spesso, mi soffermavo a ragionare con Ezio Cuoghi o con Paolo Rosa. Quest’ultimo sentiva il bisogno di ricordarmi che anche quello che facevano (fabbricavano) ed insegnavano i componenti di Studio Azzurro era teoria. E come non può essere vero: l’arte, soprattutto quella a contatto con i media, è una delle principali espressioni della nostra personalità e  della nostra teoresi(teorèsi, dal gr. ϑεώρησις, der. di ϑεωρέω «vedere, indagare»]; stranamente e in maniera contraddittoria l’esercizio della teoresi contiene proprio l’attività artistica contemporanea; perché il fare contemporaneo è ravvisare; l’artista contemporaneo dotato di un superamento dello spazio ottico nello spazio concettuale ha unito il vedere e l’indagare: provocando la pratica artistica odierna), e si colloca in quella vasta dimensione creativa che caratterizza l’essenza stessa del pensare. Per una accresciuta sensibilità estetica l’artista contemporaneo esige il teorico (prima ancora che il bello e il piacevole) in tutto ciò che produce, e non si accontenta più del funzionale, dell’utile e del tecnologico fine a se stesso. Definita l’arte come pensamento e creazione del pensamento e come interazione allegorica di valori percettivi e cognitivi, la prassi si propone come un’opera in sé [azionismo], “processo” nel quale vengono praticati i concetti e i problemi da sempre associati “all’usanza” del “modo di pensare (modus operandi)”. Naturalmente su questa questione ci sono degli artisti, come Andy Warhol che hanno espresso, volontariamente il vuoto, e che sfortunatamente rappresentano il vuoto, facendoci sforzare a digerire il vuoto come un loisir del pieno e ci sono degli artisti come Marcel Broodthaers che erano importanti sia nella vita privata, che in quella pubblica e nel loro mondo/modus. Imperdonabilmente ho lasciato passare il 2017 senza ricordare il quarantennale del movimento del ’77, il movimento che mi ha formato e, se non mi do da fare, lascerò passare il 2018 senza ricordare un testo fondamentale che è stato Contre l’art et les artistes ou naissance d’une religion, che uscì presso Seuil  nel 1968. Quest’anno si compiono cinquant’anni dalla sua uscita e vorrei raccontare perché per me quel libro è stato importante. Chi mi parlò di Gimpel e dell’arte come religione, dopo che l’avevo già letto nel 1976, è stato T. Todorov nel 1979, lui soprattutto e poi anch’io allievo di Roland Barthes. Todorov mi fece leggere un passo del suo Dictionnaire pubblicato nel 1972 (insieme a Ducrot), sempre per Seuil: “Il termine poetica, come ci è stato trasmesso dalla tradizione, indica in primo luogo ogni teoria interna alla letteratura. Esso si applica, inoltre, alla scelta fatta da un autore tra tutte le possibili soluzioni letterarie (nell’ordine della tematica, della composizione, dello stile ecc): “la poetica di Hugo”. In terzo luogo esso si riferisce ai codici normativi elaborati da una corrente letteraria, come complesso di regole pratiche il cui impiego diventa allora obbligatorio”. In effetti già da allora affrontai questo passo come teoria dell’opera letteraria che risale all’omonimo libro di Aristotele, a cui si possono affiancare il trattato di autore ignoto Del Sublime, l’Ars poetica di Orazio e le affascinanti poetriae del Mediovo, in cui è prevalente la riflessione sull’aspetto retorico dell’operato artistico. Con molta eresia della sorte, in una prospettiva metafisica e poi anche post-metafisica, la teoria si avvicina sempre più al fare artistico, fin quasi a confondersi con esso. Tra gli artisti concettuali (e le mie mostre e i miei libri del 1997-98: intorno al concetto e alla nozione di “Opera-pensiero” lo dimostrano) si sostiene che la teoria sia fare artistico in prima istanza, alla radice. Pettinati contropelo, grazie al loro contenuto retorico, i testi contraddicono ciò che enunciano come “verità”. Le stratificazioni di significato del testo scritto dicono sempre più o meno delle intenzioni e delle ambiguità dell’autore, aprono reti di significati e corridoi di senso che s’impongono da soli. Decostruire un testo significa analizzarlo retoricamente per farne emergere ogni riserva di senso ma non so se può significare ridipingerlo.

“Eppur mi son scordato di te”, cantava Lucio Battisti, o un’amnesia momentanea: chi ne ha fatto le spese quel giorno?

“Vedi, io ho sempre ascoltato il “dimenticato”. E ancora cerco di ascoltare tutto quello che è possibile ascoltare. Ma mi succede spesso che una specie di subcosciente mi fa da cane da guardia per sottolineare le amnesie, chi ha pagato di più. E poi mi succede che all’ora delle riletture si provoca il bilancio”. Il mediale caratterizza una nuova fase della memoria che segue  quella dell’espansione capitalistica. Siamo, per le riflessioni mediali, di fronte ad un fenomeno di concentrazione del potere, che porta, tra l’altro ad una nuova concezione del diritto o, meglio, ad una sua nuova trascrizione, che, a sua volta, comporta nuove forme di obbligo e di soluzione di conflitti. Questo momento del dominio del capitale richiama da vicino il passaggio, dalla società disciplinare alla società del controllo. Se, nel primo caso, il dominio della società avviene attraverso le strutture repressive classiche e il loro eventuale consolidamento, nella seconda il controllo avviene attraverso l’ingiunzione sulla sfera biologica. Quello che cantava Battisti e la Formula 3  mi sembra inutile. Le amnesie vengono sostituite da altre memorie, memorie (e mnemotecniche) che conflittualizzano il personale e l’impersonale, il fantasioso e il nichilistico. In alternativa, gli interventi performatici del mediale hanno, in seguito, ulteriormente descritto questo momento attraverso la “produzione sociale”, che hanno definito però caratteristicamente “inafferrabile”. Per i nostri momenti di riflessione più densa, invece, queste intuizioni possono chiarire le nuove forme del dominio, solo se ad esse si coniugano il concetto di “intellettualità di massa” e quello di general intellect. Infatti, nella fase attuale il lavoro, perdendo la qualità industriale, ha acquistato un carattere nuovo, intellettuale e culturale, legato alla conoscenza e alla comunicazione.

22 lezioni di vita imparate leggendo Harry Potter, o è sempre meglio il nostro Pinocchio? Chi è il Geppetto dell’arte?

“Questa tendenza a non poter parlare di bello e di brutto – dice l’altro da me – come vedi mi circonda un po’ dappertutto. Per l’ADM (o l’ADS: l’altro da me o da se) è diventata una specie di angoscia che propone di continuo la tentazione di isolarmi sempre di più, di lasciare del tutto gli amici di un tempo … L’incredibile, e il contraddittorio – mi sembra -, è che gli “impegnati”, come si dicono, neghino a seconda dei casi la legittimità di un committente, e le necessità specifiche che si presentano al lavoro di un’artista o di un critico. A seconda del giudizio che gli impegnati danno di queste legittimità e di queste necessità, le varie situazioni artistiche sono vagamente accettate … Anche se poi il panorama è quello che vediamo”. Nell’immanenza del dominio parassitario della forma di produzione capitalista, che mai come oggi ha esercitato una forma di supremazia così feroce e violenta, il medialismo ri-scopre la forza viva della “performance nuda”,  ovvero come principio positivo di irriducibilità o, meglio, d’incommensurabilità del lavoro mediale stesso. In tale situazione non ce la fa ne Geppetto e ne Harry Potter, anzi Harry Potter illustra benissimo i limiti stessi della situazione capitalistica  e la catastrofe del suo immaginario. Ancora una nota su Pinocchio o meglio: desiderare il desiderio è legittimo? Pinocchio dice: «Non mi picchiar tanto forte!», è la sua prima parola nel mondo. Il suo primo vagito invoca pietà e rispetto. Bisognerebbe riflettere su questo aspetto. Pinocchio è segnato. L’ascia che gli vuole dare una forma è tutta la realtà che lo vuole troncare, gli vuole spaccare il rizoma, lo vuole catturare. Geppetto ha un piano per Pinocchio, un’aspettativa: «Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno: ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino: che ve ne pare?». Ma soprattutto casi imprevedibili e fantastici, fino al finale ritrovamento di Geppetto nel ventre smisurato del pescecane da cui anche Pinocchio era stato inghiottito. Nello sfondo sta l’Italia povera dell’ultimo scorcio dell’Ottocento, nella quale anche il pane imburrato di sopra e di sotto appariva come una golosità preziosa e di cui Geppetto è tipico rappresentante. Una volta ultimato, il burattino – che Geppetto ha deciso di battezzare Pinocchio in onore di una famiglia di poveracci che gli sono simpatici – non si fa sfuggire l’occasione e scappa di casa. Per quanto riguarda Potter: non si tratta di usare i romanzi di J.K. Rowling per spiegare la filosofia, bensì di pensare con e attraverso una narrazione che è, letteralmente, un mondo: non un mondo di mera fiction, ma un mondo reale quanto quello in cui viviamo. La filosofia di Harry Potter esplora il romanzo-mondo creato dalla Rowling per affrontare, attraverso l’incontro con i suoi personaggi e le loro storie, questioni filosofiche capitali, o da Capitale Umano,  come il coraggio nel suo legame con l’atto etico, l’amore per la giustizia al di là della legge e una certa deriva strategica, il potere (magico) di fare cose con le parole, i limiti della ragione occidentale ma anche l’unica opportunità di questo stesso mondo, le minacce della logica del fascismo, l’amore come forma di eterno nel tempo. Ma comunque, rispetto a ciò – al di là di Potter e Geppetto -, nel nostro contemporaneo riemerge il Principe: l’autore che, più di ogni altro, rende evidente la natura fragile e ambigua del “medium è il messaggio” è Machiavelli. Entro questa ipotesi di lettura, il problematico rapporto che l’artista ebbe e deve avere con la storia e con la gestione della poetica, diviene forse più chiaro.

Qual è il difetto  migliore nell’artista di successo?

Quando si vede granparte della società contemporanea, coinvolta nel gioco delle finanze, fino alla crisi, al caos, e una autentica civiltà culturale, che pure vanta gloriose tradizioni, avvilita dalle incertezze, dalle pochezze, anche dalle ribalderie, non ci si può sottrarre ai moti istintivi del risentimento e a una intima ribellione, come di fronte a chi ci inquini le acque o ci tolga il respiro. Non esiste il difetto migliore o peggiore dell’artista di successo, esiste l’ontologia del successo che dipende dai “mondi dell’arte” più che dal mondo dell’artista: empirismo del successo sono dipendenti da ricezione,mediazione e produzione. Il discorso dell’altro da se tocca, ma quasi per aforismi, vari argomenti di attualità. Pur non evitando gli accenni polemici scoperti (con nome e cognome dei vari suoi interlocutori), l’ADS è deciso a portare avanti un ragionamento, che di fatto aiuta a capire LA POETICA più che i personaggi: non gli interessa, infondo, inveire quanto piuttosto spiegare il suo approccio alle ARTERITÀ ARTISTICHE, il perché del suo isolamento, nel momento in cui le sue ricerche hanno nel mondo un seguito.  La categoria del successo è stata esautorata dalla filosofia di Andy Warhol e dalla sua autoritaria cinicità che peraltro era una sorta di meccanismo difensivo: “E’ dalle idee e dalla personalità di ognuno che Warhol trae il materiale per la sua arte”: ed è reale tale definizione nel momento in cui Warhol fa del consumo e del commercio una forma d’arte, rendendo quest’ultima a sua volta un oggetto di consumo e di costume, esponendo, per esempio, sculture come le scatole di detersivo Brillo sugli “scaffali” dei musei; proponendo figurativamente, in modo ripetitivo il sortilegio consumistico. Lui stesso affermava che lavorare alla Factory era come lavorare in modo concettuale in una catena di montaggio, icone mediatiche, da Marylin Monroe a Mao Tzedong. Andy è “ordinale” nella sua trasgressività, come trasgressiva risulta essere la sua regolarità, esigenza di conformità; egli fa apparire la parte più banale dello scenario mediale. Invece, prendendo le mosse dal concetto benjaminiano di ‘immagine dialettica’, un’immagine al contempo opaca e trasparente, qualcosa che presenta e che rappresenta,  il Medialismo riflette sulla triade immagine, icona e opera d’arte. E’ come  la vena bizzarra del lettore che chiede l’arte come paradosso. La parola deriva dal greco parà e doxa e significa contrario all’opinione comune. Nell’accezione attuale, il termine paradosso assume una pluralità di significati e la sua accezione più generale è quella di affermazione o credenza artistica a quanto ci si aspetta o all’opinione accettata. Alcuni paradossi artistici sono profondi, altri banali. Molti sembrano essere fallaci, ma anche tale eventualità non necessariamente li rende banali. Si da spesso il caso che paradossi fallaci indichino la strada per una ricostruzione più precisa dei sistemi in cui essi si collocano. Intesa come tentativo di mostrare ciò che non si può vedere, l’immagine mostrando se stessa rimanda a qualcos’altro, diventando in tal modo icona dell’invisibile, si pensi che questo è anche il senso della metafora. Il mediale riflette a lungo su questa potenzialità dell’icona di lasciare apparire la traccia dell’invisibile: “in essa il visibile non apre a un altro visibile, ma all’altro del visibile”.

A chi “l’uomo del Monte” dice si? A chi dice no?

Sempre garbato, elegante, di bianco vestito e, nonostante le temperature equatoriali, mai bagnato da una sola goccia di fatica, è l’uomo Del Monte:”l’ebete di turno assoggettato al Capitale”. Una volta all’anno passa nel suo campo di ananassi guarnito dal copricapo in stile pusher Casablanca per spellare uno degli ananassi, masticare con tanto di buccia e dare un cenno mortalmente affermativo all’uomo sulla torretta, che a sua volta dà il via a un vero e proprio disboscamento industriale con miriadi di camion e macchinari che potrebbero distruggere in pochi minuti ciò che rimane della foresta amazzonica. Tutto questo per assicurarsi che l’intera piantagione di ananassi nel giro di sole 24 ore venga gustosamente rinchiusa nel barattolino di latta con il marchio Del Monte.Chi sarebbe del Monte, l’altra faccia di Trump o della Merkel? Nell’insieme di differenze irriducibili che formano la pratica critica mediale però si aboliscono le gerarchizzazioni di classe: non c’è alcuna ragione di distinguere e di gerarchizzare le forme di  classe in base ad una pratica tecnica ed espressiva. Le differenze salariali e di gerarchia sono con ogni probabilità l’ultimo appoggio che una visione capitalistica del mondo, opposta a quella di una continuità della teoria critica, poteva recriminare per conservare un minimo di ‘mercificazione’ dell’antisistemica massificazione amorfa. La  medialità critica e la sua elaborazione pedagogica, la sua  formazione permanente, si ‘esprime’, per mutuare ancora un concetto dissidente e clinico, nel collettivo: l’interattivo si presenta sotto forma di un’attività – e non come un risultato; si presenta sotto forma di un concatenamento, di una continuità aperta e non come una densificazione del controllo. Ovvio che l’espressione del comune, dell’algoritmo iperpop ha delle implicazioni sul reale: “Il diritto comune non è pensabile che a partire dalla distruzione dello sfruttamento – che questo sia pubblico o privato – e dalla democratizzazione radicale della produzione e ri-produzione.

“Alla mediocrità chi ci pensa?”, si domandava Carmelo Bene

Carmelo Bene è stato un grande “stolto(uso questa parola in senso di balordo, nel senso di ottuso alla Roland Barthes o di tonto alla sciamano (vedi J. Beuys per le arti visive)” del nostro Novecento. La sua figura irriverente e anticonformista e la sua opera di rottura  meritano oggi una più alta considerazione. Ma si sa che gli irregolari nel provincialismo e nel conformismo straripante non hanno mai avuto vita facile. Mai come in questo momento è utile tornare a leggere Carmelo Bene e magari il “Bene-stolto”(quello senza ali e con un grande entusiasmo per Democrito o Giuseppe da Copertino) che si incontra con le Sovrapposizioni di Gilles Deleuze.C’è  bisogno di antagonismo puro in questo tempo di servi sciocchi e conformati da social network; che confondono l’apologia della televisione con la critica mediale. Ci sono testi di Bene poco conosciuti e ancora male accessibili. Per esempio «Quattro conversazioni su tutto il nulla». È  una sorta di Summa Teologica di Carmelo Bene, significativa per quanto riguarda il suo itinerarium mentis,che ha il senso di una “filosofia poetata” “sposata” e “spostata”sulla ritmica di una prosa Poetica (proprio all’altezza della questione “artista no poetica sì”), menzionata nei discorsi precedenti. Carmelo Bene antistorico e antiumanista che colpisce il suo tempo e la dozzinale limitatezza di un pensiero incarcerato in un convenzionalismo di abitudine che tutto uccide: «Che miseria me vedo, che miseria. L’ostentazione risibile del così detto opinionismo… nella straripante società dello spettacolo, delle zuffe TV nelle tribune politiche elettorali, nei convegni accademici e negli studi audio-visivi intrattenimentacci dove ciascuno a turno è straconvinto di dire proprio la sua». Bene il polemista e il poeta che con la sua lingua rivoltosa (lorenzaccia) rompe gli schemi  e da grande mattatore dissacra tutto nella convinzione che la condizione prima  e ultima dell’arte è far il vuoto, allo stesso tempo dando al vuoto tutto la sua “lucentezza sciocca” e la sua potenza di genesi. Rispetto a tutto ciò: da una parte, la stampa e i media di massa ci cannoneggiano ossessivamente indicando nel capitalismo la forma “naturale” dell’organizzazione economica, dall’altra parte in maniera negativa, non si fa altro che identificare l’ineluttabilità del disastro presente cui non resterebbe che affidarsi, attraverso forme di pensiero irrazionali, mistiche e comunque passive. L’artisticità mediale diffusa deve, quindi, iniziare il suo cammino di liberazione proprio svincolandosi dalla paura della comunicazione dell’industria culturale e dal dominio della mistificazione intellettuale. Naturalmente la domanda chiave è: “come può l’azione del medialismo diventare politica? Come può il medialismo organizzare e concentrare le sue energie contro la repressione e l’incessante segmentazione territoriale della mediaticità confezionata e confezionabile? Poiché è in definitiva comunque vero ciò che Benjamin ha affermato circa la “seconda natura” dell’arte scaturita dalle moderne tecnologie, ma questa seconda natura piuttosto che appartenere al mondo della ricerca artistica , tende a fare il suo ingresso in un sentiero i cui meandri oscuri forse l’arte tradizionale aveva saputo meglio illuminare con la lucidità dell’esperienza individuale, il sentiero che conduce al campo ben più vasto del sogno e dell’ inestricabile legame che esso intrattiene con la realtà, per quanto tecnologica e disincantata essa si voglia mostrare.

Predicare bene e razzolare meglio….un trend?

Se il mito dell’immediatezza e della spontaneità è una tentazione cui  la critica mediale non sembra poter resistere, Ella non può evidentemente cedere a esso senza condizioni:  il mediale critico, la pittura schermatica,la fotografia scriptografica, la videoarte rimediale, invocano “una forma superiore di spontaneità, più dominata, più controllata, più misurata”, rispetto a uno spontaneismo che finisce per tradire se stesso, quando si abbandona a quel qualcosa che la spontaneità ha in sé, per sua natura, “di caotico, di agitato, di febbrile, di falsamente selvaggio e di abbozzato, in cui essa si perde invece di raggiungere se stessa”. È per questo che la spontaneità rischia di ritrovarsi “incapace di produrre”, e dunque muta, inespressiva, smarrita nel caos che essa stessa ha contribuito a scatenare. Lo spontaneismo è sempre regressivo (la pittura mediale conosceva troppo bene i meccanismi della dialettica hegeliana per non saperlo): la forma di spontaneità cui  Ella pensava “ha bisogno che operi in essa, intimamente, la resistenza della misura, della regola, del caso e del caos”. È solo nel contrasto con i modelli ereditati che la spontaneità può esprimere quella forza critica ed espressiva capace di superarli: non nel loro brutale annullamento. Questa contrapposizione però deve essere sempre ripresa e ricominciata dall’inizio: il gesto vivente può (e deve) rimetterla in moto ogni volta, ma non potrà mai risolverla e placarla, definitivamente, in una mitica innocenza ritrovata. L’arte, come la filosofia, ciascuna con gli strumenti a sua disposizione, è incessantemente chiamata a ripensare questa sfida, a risemiotizzare il “giro tondo delle Muse”. L’“altro cominciamento” non smette mai di cominciare. Nel momento stesso che ogni aspetto della vita artistica entra nel rapporto di produzione è chiaro che a tutti va riconosciuto un ruolo nella produzione di ricchezza. Infine, l’azione più importante: la riappropriazione, non più o non solo dei mezzi di produzione materiali, ma di quelli immateriali: conoscenza, cultura, tecnologia. Riappropriarsi di questi mezzi significa rivendicarne l’accesso democratico a tutti, significa rendere disponibile alle capacità espressive della soggettività gli strumenti linguistici appropriati.

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