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Novanta giorni per smontare Farm

Marchio di fabbrica. Il mio è un territorio difficile. Non solo artisticamente. Tanti angoli, qui, o ricordano un morto ammazzato o recano i fori dei proiettili e gli aloni di un’esplosione, accanto ai quali sorge spesso una stele commemorativa, una targa, un albero, la speranza di un cambiamento. La maggior parte degli edifici pubblici, delle strade, delle aule universitarie, sono state dedicate a donne e uomini assassinati dalla criminalità organizzata. Almeno un giorno al mese, nel corso di un anno solare, è dedicato alla memoria di un magistrato, di un agente della scorta, di suicidi, di martiri, i cui corpi sono stati straziati o non sono mai stati addirittura trovati. Da bambino mi ero convinto che il paesaggio siciliano fosse, in fondo, un cimitero diffuso, le cui terre, oltre a covi nascosti e nascosti latitanti, custodisse le spoglie e le gesta di persone straordinarie. Cosa ha portato tutto ciò? A un marchio di fabbrica, impresso sulla fronte; riconoscibile all’estero. E a un appellativo fastidioso che completa il luogo di origine. Un appellativo che sa di colpo allo stomaco appena pronunci la proposizione: “Sono siciliano”.

Il clima estetico. Anche se nell’ultimo decennio, in Sicilia, ci si è gloriati del mutamento climatico con assurde rivoluzioni politiche che son durate uno spumante stappato, non è difficile osservare (anche il meno dotato di gusto lo comprende) la portata “ossessiva” della bruttezza in un territorio di infinita bellezza. Cosa voglio dire? Che, come al solito, l’arte storica racconta -similmente a un termometro- patologie in corso. Fatevi un giro e lo noterete: in Sicilia c’è stato un passato di cui vantarsi, un passato che ha espresso una qualità estetica unica al mondo, un passato che è possibile soltanto invidiare. E noterete anche, nel 90% delle cittadine siciliane, questa caratteristica, così definibile: “il prima” e “il dopo”. “Il prima” è la forma buona, armonica con le dolci linee naturali e l’esistenza di una popolazione dedita alla terra; e poi, soprattutto, una commistione di stili, anche religiosamente e geograficamente opposti, che se ne stanno in perfetto equilibrio in una ricchezza (immeritatamente) ereditata. “Il dopo”, da percepire con gli occhi gonfi di categorie del Terzo Millennio, è la lacerazione di quanto è stato costruito: una grossa e vergognosa esplosione di cemento. La congiunzione tra i due estremi estetici è ciò che nessuno ha mai indagato; oppure ha indagato, ma qualcuno ha messo a tacere. Con metodi convincenti; e qui diffusissimi, purtroppo.

Ultime notizie. Dentro questo brodo, dentro questa isola, marchiata e dal clima caldo, l’unica idea da intraprendere dovrebbe essere quella della ricostruzione, una seria ricostruzione. Qualcuno ci ha provato. E qualcun altro si è opposto. Non è necessario aggiungere altro che la lettera che conclude questo piccolo articolo, affinché si sia liberi di trarre le dovute conseguenze.

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Dario Orphée La Mendola

Nato ad Agrigento. Maturità scientifica. Laurea magistrale in filosofia. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione presso l'Accademia di Belle Arti di Agrigento e Progettazione delle professionalità presso l'Accademia di Belle Arti di Catania. Critico e curatore indipendente. Collabora con numerose riviste, scrivendo di arte, estetica, filosofia della natura e filosofia dell'agricoltura. Si sta occupando dello studio del sentimento, di gnoseologia dell'arte, estetica della natura e scienze naturali.