di Paolo Balmas e Lucia Spadano
Le borse di tela rossa con la scritta “Free Ai Weiwei” (l’artista cinese in carcere da sei mesi) sono state il filo di Arianna attraverso i padiglioni della 54esima edizione della Biennale di Venezia nei tre giorni super affollati riservati alla Stampa. Il Padiglione centrale, da cui parte la rassegna “ILLUMInazioni”, curata da da Bice Curiger, ci ha accolti col saluto della lunga fila di piccioni di Cattelan allineati sulla facciata d’ingresso. Il nucleo centrale della rassegna, come di consueto, si svolge ai Giardini per proseguire all’Arsenale. In un continuum ordinato e tranquillo che passa dallo stupore di fronte alle tre tele del Tintoretto, all’animazione di interventi come quello di Franz West (cui è stato assegnato il Leone d’oro alla Carriera), che nel suo “parapadiglione” ha accolto le opere di diversi artisti viennesi come Otto Muel e Rudolf Palanzsky, alla contemplazione della mastodontica scultura in cera di Urs Fischer (di cui alla fine della Biennale forse rimarrà ben poco visto che una fiammella la sta consumando poco a poco), alla riflessione di fronte all’opera The Clock di Christian Marclay (Leone d’oro per il miglior artista), un film capolavoro d’inventiva e di alta tacnologia. I Padiglioni nazionali quest’anno sono aumentati in maniera smisurata: sono 89 infatti le nazioni presenti e comprendono le nuove entrate come Andorra, Arabia Saudita, Bangladesh e Haiti. L’Argentina ha avuto finalmente il suo padiglione permanente all’Arsenale e lo ha inaugurato con le straordinarie opere di Adrian Villar Rojas. Della gran parte dell’offerta dei Padiglioni parleremo dettagliatamente nel prossimo numero della rivista, così come delle numerose mostre collaterali e non, allestite nei Palazzi, nei musei e nelle Istituzioni veneziani, che brillano per bellezza ed intensità come quelle di Jan Fabre, di Kiefer, di Marisa Merz, Pino Pascali, Calzolari, Pintaldi e tante ancora, passando per Palazzo Grassi e Punta della Dogana.
E discendiamo, infine, negli Inferi del Padiglione Italia curato da Vittorio Sgarbi. Se n’è parlato già tanto prima che si inaugurasse, ma ciò non è bastato ad attutire l’impatto! Un guazzabuglio di “opere” affastellate l’una sull’altra, abbarbicate ad un supporto (un reticolato semicircolare) come panni stesi al sole. Gli sguardi scorrevano alla ricerca di qualcosa di rassicurante su cui soffermarsi, ma anche le opere, che, viste da sole in altri contesti, abbiamo amato, perdevano di senso e di intensità. “L’arte deve essere di tutti e per tutti” afferma Sgarbi, ma di quale arte stiamo parlando? Qui non c’è rispetto per nessuno! “Una vergogna nazionale” secondo qualcuno, un “censimento senza senso” secondo altri, “Una fiera di campagna organizzata dal Prevosto” a detta di Philippe Daverio, “Una puta mierda” secondo la gallerista spagnola Oliva Arauna. Più preciso e dettagliato è il commento di Giorgio Viganò (collezionista e curatore): “ Se l’intento di Sgarbi era quello di rappresentare gran parte del peggio dell’arte italiana : c’è riuscito! Se l’intento di Sgarbi era quello di rendere ridicola l’Italia anche nel settore artistico : c’è riuscito! Se l’intento di Sgarbi era quello “che una partecipazione alla Biennale di Venezia non si nega a nessuno”: c’è riuscito! Se invece Sgarbi voleva rappresentare l’arte contemporanea italiana: ha miseramente fallito! (ma, vi prego, segnalatemi il nome di un artista – almeno uno, se lo conoscete – presentato da Sgarbi negli ultimi 30 anni, che abbia avuto un qualche riconoscimento a livello internazionale) – resto in attesa!-”
Concordiamo appieno con tutti ed in particolar modo con Adriana Polveroni che afferma: “Al di là dell’indignazione che giustamente suscita questo Padiglione, bisogna riflettere sulle conseguenze che una tale esposizione avrà a livello internazionale sia in termini di valutazione della nostra produzione artistica che in termini di mercato”. In conclusione, comunque stiano le cose, Sgarbi è stato innegabilmente e paradossalmente tradito dallo stesso espediente da lui escogitato. Rivolgendosi a scrittori, intellettuali e altre persone ritenute autorevoli per gusto e cultura ma, non compromesse con la “mafia” degli addetti ai lavori, pensava di poter finalmente esibire dinnanzi ad un pubblico stupefatto e plaudente, la più autentica produzione artistica italiana finalmente liberata da condizionamenti e deformazioni. Tutto quello che ha ottenuto è stato invece uno sgradevole coacervo di opere ascrivibili per la maggior parte ai soliti tardi epigoni rimasticatori di linguaggi esauriti, maldestri ibridatori di cose già viste, livorosi elaboratori di immagini aggressive, semplici dilettanti, inguaribili nostalgici e sprovveduti di ogni genere. Un groviglio non inestricabile, ma, al contrario assolutamente prevedibile da qualunque autentico esperto del settore, una urtante melassa che ha offeso e oscurato le poche opere di valore presenti. Un fatto inatteso tuttavia, il meccanismo innescato, l’ha dimostrato: la maggior parte delle stimabilissime persone interpellate, in fatto di arte contemporanea è, come minimo, poco informata. L’arte evidentemente non è cosa loro.