A poche settimane dalla premiazione del concorso artistico Arteam Cup 2018 incontriamo il vincitore assoluto di questa quarta edizione, Angelo Marinelli. Un’intervista che racconta di natura, poesia e senso, l’arte di mettere in opera se stessi, ritornando alla radice attraverso la ricerca e la sperimentazione delle profondità dell’animo.
Primo premio assegnato all’unanimità da una giuria di esperti con una motivazione all’opera in concorso (Leaves of Grass – Roots and Leaves Themselves Alone #1, dittico 2017) che ben descrive e definisce non solo il lavoro in sé ma l’essere stesso dell’artista Marinelli. Un modus operandi, quello di Marinelli, che non può prescindere dalla vita e dall’intimità di un mondo fatto di chiaro-scuri romanticamente contemporanei. Perché in fondo oggi più che mai abbiamo bisogno di romanticismo. Ed è per questo che, lungi dalla superficialità, crediamo che questo scambio nella forma di domanda-risposta, possa essere spazio di riflessione e apertura alla profondità, perché solo scendendo negli abissi possiamo comprendere il senso della salita e della luce. Dunque, intraprendiamo questo viaggio tra arte e poesia con Angelo Marinelli, un percorso attraverso la natura, intima e immensa nei suoi lavori, il legame atavico con il mistero, l’uomo, l’essenza interiore e le tante osservazioni che l’opera dell’artista ci trasmette volendo ricondurci alla nuda poesia dell’umano.
Amalia Di Lanno In Leaves of Grass, opera vincitrice Arteam Cup 2018, come del resto nella tua ricerca artistica, si ravvisa la presenza costante della natura e, soprattutto, il legame uomo/natura nell’ottica di ritorno all’essenzialità e all’originarietà dell’essere. Quanto ritieni sia fondamentale, parlando di contemporaneità, il radicamento e il ritorno a uno stato, diciamo, ‘naturale’ dell’uomo?
Angelo Marinelli Canto me stesso, e celebro me stesso, | E ciò che assumo voi dovete assumere |
Perché ogni atomo che mi appartiene appartiene | anche a voi.
Walt Whitman, Canto di me stesso
Il discorso Uomo e quello Natura sono da sempre strettamente connessi. Come dice Whitman, ogni nostro atomo è connesso a quello di tutti gli altri esseri e questa connessione è da sempre percepita. È questa connessione e attrazione che gli artisti da sempre testimoniano, ognuno nel linguaggio e nella contemporaneità del proprio tempo. La natura da sempre genera nell’uomo dei sentimenti intensi che possono essere sia di pace che di paura. È la natura che determina i nostri umori e la sua forza, anche distruttrice, mista alla sua bellezza realizza in noi il concetto del sublime, lo stesso espresso dai romantici nelle loro opere. Ed è proprio con i romantici che l’artista contemporaneo, a mio parere, ha dei punti di vicinanza se pur vivendo in un’epoca dove tutto ci allontana dal loro pensiero. Romanticismo quindi che nasce in periodi di rivoluzioni. Rivoluzione industriale in prima battuta e tecnologica oggi. Entrambe, inoltre, rivoluzioni di un apparente benessere che ha come altra faccia della medaglia l’allontanare l’uomo dalla natura, non solo fisicamente ma anche spiritualmente, facendone perdere la connessione e quindi l’essenza vitale. Ad oggi sommersi da una tecnologia che ci segue ovunque abbiamo smesso di osservare il mondo, figuriamoci di indagare su quali sono le alchimie della natura e quelle energie, anche un po’ magiche, che la regolano.
A.D.L. Come la fotografia potrebbe, in tal senso, orientare e condurci Quasi altrove, richiamando il titolo di un altro tuo progetto, dove la realtà assume un significato effimero se rapportata al senso intimo della visione?
A.M. Il ritorno all’osservazione della natura e del suo sempre incredibile modo di sopravvivere all’uomo potrebbe riportarci ad un’indagine più approfondita del nostro essere.
La ricerca e la metodologia di molti artisti contemporanei si orienta sempre più verso gli spazi aperti e verso attività che sia in maniera installativa che performativa riconducano alla connessione uomo-natura e intraprendano anche un discorso di educazione ambientale.
In questi percorsi di analisi del rapporto con la natura, sia esso diretto o indiretto, la macchina fotografica costituisce, come spesso avviene, un filtro. Un filtro che offre all’artista una doppia funzione. La prima è quella di distacco dal “disastro”; l’uomo con la sua disillusione amorosa nei confronti della natura la avvelena e la sfrutta senza comprenderne le conseguenze; l’artista vive il bisogno di documentare e rappresentare questa disillusione con un necessario distacco. La seconda funzione che la fotografia offre, forse la più importante, è quella di creare immagine, frutto di una visione e di un immaginario. L’utilizzo di una determinata luce, la scelta di un preciso momento, riporta subito il racconto su piani diversi e può condurre lo spettatore Quasi altrove, un altrove dove il luogo può diventare irreale e lo spettatore, se pur cosciente di cosa sta guardando, si ritrova in una nuova dimensione che non gli appartiene più ma è parte della visione dell’artista.
Nel mio lavoro Quasi Altrove, che hai citato, lo scopo era quello di ricercare degli angoli di Roma, conosciuti ai più, che purificati e resi irreali sia dalla luna piena che dalla natura predominante, in grado di riprendersi quei luoghi, gli stessi che raccontano l’uomo e la sua storia, e renderli, nel racconto, simili a dei dipinti sospesi nel tempo. Una sola immagine per raccontare il presente, documentarlo per quando sarà passato e proiettarlo nel futuro togliendo così ogni sicuro riferimento per chi osserva.
A.D.L. Nelle tue opere si percepisce la volontà di messa a nudo e di esprimere se stessi attraverso la propria sensibilità, anche percorrendo varchi esistenziali oscuri dove malinconia e ripiegamento d’animo si trasformano unendosi in luminosa poesia. A riguardo, quanto importanza ha la poesia nella tua ricerca anche in relazione alla luce, elemento indispensabile in fotografia ma, al contempo, simbolo esoterico legato imprescindibilmente all’oscurità?
A.M. L’ispirazione poetica del mio ultimo lavoro è stato un incontro casuale ed illuminante. Ho sempre provato una profonda ammirazione per chi ha la capacità di creare immagini sia che lo faccia con le parole che con la pittura. Ammirazione, che si ritrova nella mia ricerca fotografica dove, da sempre, cerco di stabilire attraverso i toni e spesso con l’annullamento delle alte luci una connessione con la pittura. Quando visito i musei mi trovo a riflettere su quanto la patina del tempo sui dipinti costituisca parte del loro fascino. È in questo celarsi del dipinto alla luce, quasi a nascondersi, a ritrovare se stessi nel silenzio del buio. In fondo è qui, più che nella luce, che indaghiamo il nostro intimo.
A.D.L. In che modo il buio quotidiano/della vita può, se può, attraverso la fotografia, trasformarsi in luce, esiste una foto-sensibilità non solo tecnica?
A.M. Viviamo nell’era del bombardamento mediatico, della bulimia dell’immagine. Fare fotografia oggi dovrebbe essere un processo di visione per sottrazione. Immagino sempre uno scrittore all’interno del suo studio che crea il vuoto e il rigore intorno a sé prima di intraprendere una narrazione. Svuota la mente da suoni e parole per permettere al flusso dell’ispirazione, con le sue di parole, di giungere. Così, in fotografia si dovrebbe avere la capacità di spegnere ogni forma di luce intorno per attendere quel raggio stretto che permetta di tirare fuori il dettaglio.
Mi viene in mente il lavoro sulle sculture greco-romane di Mimmo Jodice, l’utilizzo del light painting e della lunga esposizione non fa altro che permettere al fotografo di ridare alle sculture un’anima vibrante che le restituisce vive al fotogramma. Il vero processo creativo però avviene al buio e nell’attesa, dove nulla è visibile ma tutto è ancora possibile.
A.D.L. In tal senso, quanto determinante/significante può essere, a tuo avviso, il lavoro dell’Artista nella trasmissione di un messaggio che conduca l’osservatore a riflettere sulla sua natura e/o non natura in termini di umanità nei concetti appunto di luce e tenebre?
A. M. Il privilegio e il dovere dell’artista sta proprio nel concedersi questo tempo di buio/silenzio e di sfruttarlo per allontanarsi dalla frenesia del mondo multitasking e concentrarsi sul proprio bisogno di uomo. Durante le sessioni fotografiche di “leaves of grass” chi ha deciso di posare per il progetto, in genere non modelli professionisti, era inizialmente restio all’idea del nudo fotografico. Lo stretto contatto con la natura però trasformava il rifiuto iniziale in un istinto naturale per cui l’essere nudo non aveva nessuna importanza e il piacere interiore che si provava nel ritrovarsi nel proprio “elemento” vinceva sul resto. L’essere lì, per mezzo mio, nudi, come in un rito di iniziazione, senza i filtri e le armature del mondo tecnologico li rendeva inconsciamente animali, parte biologica di un mondo fatto di istinti, bisogni e paure. Credo che nel lavoro tutti questi elementi affiorino e che sia importante per il pubblico ritrovarsi a sua volta nudo in una natura sconosciuta e sublime.
È importante che ogni artista ed ogni uomo ristabilisca il proprio contatto con la natura tenendo sempre a mente, come una formula magica, il suggerimento di Whitman nei versi che danno il titolo all’opera premiata ad Arteam Cup.
[…]germogli d’amore messivi innanzi, immessi in voi, ovunque
voi siate,
germogli che si schiuderanno secondo i modi d’un tempo,
se a loro recate il calore del sole si schiuderanno offrendovi
forma, colore, profumo,
se voi divenite alimento e umore, essi saranno fiori, frutti,
alti rami e alberi.
Angelo Marinelli è nato a Monteiasi (Taranto).
Dopo un percorso di studi ingegneristici, si trasferisce a Roma nel 2004 dove si laurea in disegno industriale. Eredita la passione fotografica dal padre e sin da piccolo si avvicina alla macchina da autodidatta. Durante i primi anni del 2000, oltre a studiare, Angelo lavora come grafico e fotografo, è in questo periodo che affina le tecniche di illuminazione e di post produzione. Tra il 2010 e il 2013 vive in Asia e da lì intraprende una serie di viaggi che lo porteranno ad ampliare il suo panorama artistico culturale e, al contempo, a rafforzare le sue origini. La ricerca fotografica di Angelo Marinelli si ripropone di ritrovare una nuova identità della visione attraverso scelte che di fatto si gettano all’interno della luce, riorganizzando anche le porzioni di tempo che determinano il formarsi dell’immagine. Le sue panoramiche monolitiche e silenti sulla società moderna rappresentano un nuovo modo di gestire le metafore della visione, senza incappare in luoghi comuni od inutili barocchismi. Nella poetica dell’abbandono e della ricerca del vuoto come punto perfetto di riflessione ascetica, l’artista riporta alla luce un universo costituito da movimenti minimi e dense stratificazioni architettoniche. Tali caratteristiche contribuiscono ad edificare una mitopoiesi perfetta e delicata, che si poggia sul tempo stesso come generatore di immagini. L’occhio di Angelo Marinelli è capace di ritrovare la bellezza attraverso un altro modo di vedere la realtà, riaccendendo quel gusto per l’enigma nascosto dietro le cose quotidiane. La sua ricerca ha qualcosa di omerico a cui si aggiunge una discreta dose di malinconia, ciò trasforma ogni fotografia in un ambiente metafisico fermo nella memoria ed anzi è proprio quest’ultima ad autogenerarsi nella mente dello spettatore che assorbe la visione facendola propria. La scelta dei colori e dei toni, molto spesso freddi e desaturati raggiungono un’impostazione strutturale e una tecnica linguistica morbide e sensuali che contribuiscono ad acuire il senso di curiosità e fascino per ogni fotogramma. Le immagini divengono così una forma privata di dialogo tra la formazione di tutte le cose e la retina che le osserva da ogni angolazione possibile. Un’onniscenza dettata dalla lente dell’obiettivo che ritrova il gusto di decidere e di stupire attraverso la bellezza ed un nuovo modo di vedere.
Angelo Marinelli, primo premio Arteam Cup 2018, otterrà la copertina di Espoarte Digital #102,5 e una mostra personale nello Spazio Arte di CUBO Centro Unipol BOlogna.
Per approfondimenti: www.arteam.eu
Gallery: Angelo Marinelli. LEAVES OF GRASS, series, 2017