«Fin dal 1910», scrive Giulio Carlo Argan, «De Chirico aveva opposto al tumultuoso avvenirismo futurista l’idea di un’arte al di sopra della storia, metafisica, o di una classicità assoluta, al di fuori del tempo. Non v’è ombra di nazionalismo, ma soltanto il desiderio di una dimensione interiore irragiungibile dal fragore delle officine, dei traffici, delle guerre. L’arte, insomma, non vuole avere niente a che fare con il mondo presente, non battersi per nessuna causa, non spostare alcuna ideologia, vuol essere soltanto se stessa, anche se la sua manifesta assenza darà ad un mondo fin troppo vivo un senso di morte». Per Argan «De Chirico non si oppone al Futurismo […] per paura del nuovo, ma per una diversa poetica che potrebbe chiamarsi “della negatività”. L’arte è pura metafisica, non ha legami con la realtà naturale o storica che sia, neppure per trascenderla. Non ha fini conoscitivi né pratici, non ha funzione. La sua presenza è ambigua, inquietante, contraddittoria. Colloca forme senza sostanza vitale in uno spazio vuoto e inabitabile, in un tempo che non è eterno, ma immobile. Come una sfinge, agli uomini che credono di saper tutto pone enigmi facilissimi e insolubili. È un elemento di disturbo, che disambienta ed estrania: senza un gesto, può compromettere tutto». E ancora: «Tra il 1916 e il ’20 l’opera di De Chirico costituisce, nell’arte europea, il vero fatto nuovo: non rivoluzionario, tuttavia, anzi decisamente anti-rivoluzionario, contraddittorio rispetto alle “avanguardie” che volevano inserirsi nel processo di trasformazione della società, ed affrettarlo».
Ad oltre un secolo di distanza dall’epifania del futurismo (1909) e della metafisica (1910) non si può dire naturalmente che i termini entro i quali si svolge l’arte italiana contemporanea siano ancora quelli legati a questi due così antitetici movimenti, non fosse altro perché lo stesso concetto non solo di arte nazionale, ma proprio di nazione, di fronte al montare della globalizzazione – e malgrado la sua crisi – è diventato quanto meno problematico. Non di meno per il dualismo futurismo-metafisica passa tanta parte dell’arte prodotta da italiani da allora fino almeno agli anni ottanta, ed ancora l’eredità dei due movimenti non si può dire dilapidata. Persino nel ventennio fascista tale binomio non solo ha un ruolo, ma le continuità dell’uno e dell’altra – opportunamente piegate ad esigenze differenti e spesso in tal modo impoverite – rappresentano una traccia irrinunciabile per comprendere le sue vicende artistiche. Se dai primi anni sessanta, inoltre, la via italiana alla pop art è a dir poco intrisa di metafisica, alla fine dello stesso decennio gli scritti teorico-propagandistici di Germano Celant intorno all’arte povera possiedono non superficiali echi marinettiani. Anche, a partire dalla fine degli anni settanta, nella transavanguardia – ultimo tentativo italiano, ma anche francese, spagnolo, tedesco… di fondare un’arte nazionale, peraltro nel segno del significativo paradosso del nomadismo, che ammette in pratica a se stesso l’anacronismo di tale tentativo – tanto il futurismo, quanto la metafisica hanno un ruolo di primo piano, in quanto repertori di linguaggi cui attingere tra citazione e profanazione, riconducendo però il tutto ad un alone generale che parla della superficialità senza fine del senso. Le riconoscibilissime citazioni dell’avanguardia non solo italiana, ma anche europea ed americana, sono come altrettante merci vetrina ove il valore d’uso è completamente evaporato – potremmo dire ispirandoci ma rielaborando un pensiero del critico ottobrista Benjamin Buchloch, strenuo, irriducibile oppositore di ogni transavanguardismo -, ma sono – oggi possiamo averne coscienza più lucida di allora – specchio di una società in cui appunto l’economia si avvia ormai a perdere definitivamente il contatto con i beni materiali.
Tutt’oggi nostri contemporanei ritengono che il futurismo o la metafisica non hanno ancora esaurito il loro discorso e, in modalità diversissime, cercano di riprendere l’uno o l’altra per mezzo di opportuni aggiornamenti. Per quanto riguarda il futurismo è il caso – tra gli altri – della cooperativa Avanguardia 21, che «si propone la diffusione e la valorizzazione del pensiero e dei progetti d’avanguardia», intendendo per avanguardia «non solo l’avanguardia artistica e letteraria […], ma ogni espressione, progetto, prodotto tesi a re-interpretare e re-inventare la realtà contemporanea», obiettivi che in Italia finiscono abbastanza facilmente – almeno in un primo momento – per condurre a privilegiare il futurismo sulle altre avanguardie storiche. Per quanto riguarda la metafisica è il caso – tra gli altri – di Nando Crippa (Merate – LC, 1974) – si noti innanzi tutto come naturalmente una ripresa del futurismo avvenga per mezzo di un progetto collettivo così come una ripresa della metafisica non possa che provenire invece da soggettività individuali. Ripresa che, qualora ci fossero dubbi, è dichiarata fin dal titolo, La metafisica della mitezza, dal quale traiamo anche un indirizzo per confrontare dialetticamente le tangenze e le distanze con il De Chirico arganiano. Sicuramente Crippa, come quest’ultimo è contro il fragore, che nel 1910 poteva essere quello delle officine mentre oggi è forse un fragore della vista più ancora che dell’udito – per decenni Jean Baudrillard denuncia la sparizione della realtà in favore di una a dir poco prepotente iperrealtà, ma questo processo, con l’avvento dei social network, che cominciano ad emergere proprio nel momento in cui, poco più di dieci anni fa (2007), il filosofo francese scompare, si eleva all’ennesima potenza. Gli abbigliamenti e le espressioni dei suoi personaggi sono sobri e standardizzati, benché sempre caratterizzati da un piccolo tratto divergente che li rende unici nella apparente similarità, rasentante appunto la produzione in serie. Le ambientazioni sono costituite da geometrie elementari – solide per le sculture, piane per i dipinti -: il parallelepipedo, la sfera, la semisfera, il cilindro, il rettangolo, il cerchio; al massimo oggetti dalle forme semplici come una scala o delle macchine da cucire. Le varietà cromatiche non sono numerosissime, ma soprattutto il colore è steso mirando alla piattezza tipica dell’imbianchino.
Consideriamo quella che è probabilmente l’opera più rappresentativa dell’intera mostra, Le Cucitrici (2018), ove tali forme e tali colori si manifestano materializzando serialmente un gruppo di donne che compie una produzione seriale, ma anche sabotando la serialità tanto della produzione materiale delle statuine che tessono quanto del prodotto tessuto dai personaggi a statuina: ogni donna cioè indossa la stessa divisa, possiede lo stesso colore dei capelli, si serve dello stesso modello di macchina da cucire e lavora con essa un panno bianco; tuttavia ogni donna assume una posizione ed una espressione leggerissimamente divergente l’una dall’altra, sfoggia un’acconciatura differente dei capelli e si cimenta con un tessuto dalla misura sempre variabile. Curioso constatare come per il soggetto – il lavoro femminile in un’industria tessile italiana negli anni del primo boom economico – l’opera potrebbe coincidere con un’immagine cara al neorealismo, e dunque a qualche cosa di radicalmente antitetico dalla fuga dalle contingenze e dalle conflittualità del mondo così come interpretata dalla metafisica – nel testo in catalogo Luigi Fassi non manca di ricondurre l’opera a prestigiosi esempi letterari come Tempi stretti (1957) di Ottiero Ottieri, Memoriale (1962) di Paolo Volponi, o ancora La vita agra di Luciano Bianciardi -, senonché l’obsolescenza del paradigma produttivo fordista relega già di per sé questo soggetto, un tempo motivo di denuncia sociale, nell’ulteriorità dei tempi e negli spazi tipici della dimensione platonica e poi dechirichiana.
Volgendo lo sguardo alle altre opere presenti intorno alla principale, ci si potrebbe domandare inoltre se valga anche per Crippa – come per De Chirico – il discorso dell’enigmaticità delle composizioni. Senza dubbio quelle del primo sono assai più semplici, assai più povere di elementi e prive di incongruenze dimensionali. Non sono tuttavia espunte – anche se non si registrano in maniera troppo marcata – incongruità concettuali: non è che si veda proprio tutti i giorni una donna abbracciata ad un cilindro grigio che non arriva ad essere una più elaborata colonna, né un uomo che traccia un cerchio perfetto su di una piattaforma altrettanto grigia ma rettangolare! Rispetto a De Chirico – è vero – manca ogni senso di inquietudine e di lutto; è una metafisica appunto mite, ove l’improbabile non esclude paradossalmente il senso di ferialità.
In seguito alle «altezze della metafisica», scrive infine Argan, De Chirico ripiega «su una pittura ricalcata su temi e modi, perfino sul costume, dei vecchi maestri; De Chirico, “pictor optimus”, si è persuaso che, negando il presente, non può esserci arte che nella storia dell’arte». Certo Crippa non si fa né “pictor optimus”, né “sculptor optimus”, anche perché quest’ultimo caso avrebbe richiesto l’assenza del colore e magari materiali aulici come il marmo e il bronzo. La terracotta – tanto più poi se dipinta – è piuttosto simile alla pittura – come ci insegna Michelangelo Buonarroti – in quanto scultura ottenuta “per via di porre” e “per via di levare”. Eppure anche la terracotta dipinta, nel mondo dell’iperconnessione e dell’iperdematerializzazione, appare a buon diritto una tecnica deliberatamente anacronistica.
Nando Crippa
Galleria Il Milione
Via Pietro Maroncelli, 7, 20124
Milano
Mostra vista il 31 marzo 2018