MotorHead Art 2519. La sostanza che attiva lo sguardo vede coinvolte l’industria Caffè Guglielmo e l’Accademia di Belle Arti, nel comune intento di abbinare l’ancestrale funzione rituale dell’arte ad un altro rito importante, che si svolge giornalmente in ogni città italiana: l’atto del bere una tazzina di caffè come momento di socialità vissuta nello spazio conviviale. La mostra intende proporre un dialogo insolito tra riti differenti, che possono trovare terreno comune nell’esperienza estetica.
Il progetto coinvolge un nutrito gruppo di studenti dell’Accademia e Sten e Lex, artisti di chiara fama, che concepiscono in modo rigoroso la funzione dell’arte quale centro di aggregazione della comunità. Inesauribili sperimentatori, Sten e Lex sono alla continua ricerca di nuovi materiali da impiegare. Il loro lavoro si fonda su una constatazione teorica ben precisa che trova corrispondenza nell’opera finita: le materie dell’arte non sono intercambiabili, vale a dire che la forma, passando da una materia ad un’altra, subisce una metamorfosi. In questo caso fautore della metamorfosi è il caffè, protagonista in tutte le varietà processuali e materiche, che è forma e sostanza del lavoro site specific realizzato ad hoc per l’esposizione al MARCA.
Come curatore della mostra, insieme ai miei due colleghi co-curatori Giuseppe Negro e Raffaele Simongini, ho a lungo pensato a come utilizzare al meglio lo spazio espositivo posto al piano inferiore del Museo MARCA, un luogo ricco di suggestioni ed elementi architettonici pregnanti: dalla pavimentazione in cotto alle volte in pietra a vista sino alle nicchie in alcune stanze.
Discutendo sulle finalità dell’esposizione, partendo dal presupposto che mostrare per conoscere e far conoscere è il principio alla base di ogni esposizione e che il Museo è strumento di conoscenza, come suggerisce Le Corbusier, abbiamo deciso di dar vita, per MotorHead Art 2519, ad un percorso effimero e di breve durata, che fosse strettamente legato al disvelamento del mondo del caffè. E difatti il percorso si arricchisce di elementi fotografici-scenografici che ridisegnano l’interno dell’azienda Caffè Guglielmo, riproposizione ideale di un luogo che diventa lo sfondo che accoglie i diciannove lavori in mostra. Questo viaggio nel mondo del caffè si completa, anche, della temporalità temporanea dell’evento performativo (durante l’inaugurazione), proposto come momento primo, di grande impatto comunicativo e di immediatezza visiva.
Dopo China, l’installazione progettata nel 2008 per il MARCA da Flavio Favelli, environment della permormance Caffè Moderni, durante la vernice, lo spazio espositivo si apre a cinque ambienti: ognuno dei quali vive e della giustificazione di ogni opera per sé e dell’armonia nella coralità delle poetiche. Nel primo, il luogo è scandito da segni visivi che si muovono tra astrazione, geometrie e figurazione, in equilibrio tra lavori bidimensionali e sculture nello spazio: dal tappeto di caffè di Yana Kozhemyakina, che ha come precedente le sperimentazioni di Aldo Mondino, che già negli anni Ottanta affrontava i temi della globalizzazione con i suoi “tappeti-mandala”, alle geometrie perfette dei cubi di Caterina Rotella, traslazione tridimensionale di una ipotetica città del caffè deserta, alla visionarietà degli interni della fabbrica di Stefano Pullano, eccellente illustratore, che attraverso giochi di proiezione realizza un cortocircuito percettivo tra interno ed esterno, sino alle figurazioni di Giuseppe Longo che trasforma in icona pop un’immagine della memoria, quella di Guglielmo Papaleo, fondatore dell’azienda, e di Valentina Siniscalchi che, con una pittura irruenta e materica, reinterpreta la figura dell’operaio che raccoglie il caffè. Nella seconda stanza, la forma del chicco diventa emblema della trasformazione, che si compie nella sua moltiplicazione; impiegato quale pigmento per dar vita a nuove forme, lascia spazio a cerchi spiraliformi – di Vittoria Devona – in cui il colore veicola mediatamente il cambiamento di stato della materia, e – di Alessandro Donato – in cui la forza espressiva dell’iride si amplia in sei visioni distinte, ma interdipendenti, che nella loro totalità restituiscono il potere creatore della genesi. Dalle architetture extrapittoriche a quelle spaziali di Antonio Tolomeo, in cui trasparenza e opacità sono i due momenti che scandiscono i tempi della fruizione, che fanno sì che l’opera si dia parallelamente come durata da percorrere e totalità spaziale percorribile con lo sguardo. L’ambiente seguente si apre alla meditazione esistenziale con i lavori di Gianluigi Ferrari, che con la povertà dei mezzi sembra riecheggiare gli interrogativi pascaliani sull’essenza della vita, e di Nicola Bevacqua che arresta il tempo e sfonda lo spazio con una silenziosa edicola votiva; alla disgregazione della materia di Chiara Cannistrà, che mostra l’usura e la caducità della “finitudine”, soggetta alla durata. Dalla sacralità all’ironia attraverso le nuove tecnologie con il Coffèe in video-animazione 3D di Lucrezia Siniscalchi, che riporta il caffè alla sua funzione conviviale, e con l’opera partecipata di Carmen Fazio, che reintegra l’esperienza tattile, chiedendo la restituzione di un feedback – segnico – al fruitore, sino alla scomposizione del logo dell’azienda Guglielmo di Donatella Sestito, che diventa una composizione “fantastica”, che sembra riecheggiare uno degli improbabili personaggi teatrali di Fortunato Depero. Forma e materia del caffè tornano protagonisti nei lavori di Tyron Pironaci, che con grande virtuosismo e cura del dettaglio, mette in essere una sorta di grande ritratto, in cui perfino l’infinitesimamente piccolo si offre alla contemplazione, e di Maria Tarantino che ricostruisce, con un grande mosaico di varie gradazioni cromatiche, una maschera apotropaica, legandosi alla propria identità territoriale. Il percorso si chiude – per far poi un ritorno su se stesso – con l’attraversamento di un ultimo spazio in cui vivono installazioni site-specific, dal passaggio di Simona Massara che progetta un intervento con i sacchi di iuta, fascinazione delle grandi opere ambientali di stampo poverista, alla moltitudine in movimento dei ragni di Simone Fabietti, che disegna una geografia atipica che come una danza si espande sulle pareti del museo, sino alla pittura di Marco Ronda che mette in scena, come in un grande teatro, una labirintica catena di montaggio, in cui le macchine e gli oggetti creano giochi di forme, illusioni prospettiche attraverso contrasti di luci ed ombre.
La mostra si struttura così come uno spazio fotogenetico, nel quale il pubblico è indotto a inquadrare il proprio sguardo, a ritagliare angoli di visione e segmenti di significati, permettendo la manipolazione – ideale, nella sola fruizione – delle parti e l’adattamento conseguente di queste alle possibilità di movimento del pubblico. E così lo spazio-environment, dell’esposizione, si offre come un luogo indefinito e illimitato: un luogo che contiene tutte le cose.