A ben vedere, il tema del Freespace posto da Yvonne Farrell e Shelley McNamara nel loro Manifesto del 2017 appariva fin dall’inizio debole e ambiguo. Nel suo tentativo generico di comprendere un po’ tutti i caratteri disciplinari dell’architettura, evitava di spiegare fino in fondo da chi e da che cosa lo spazio dovrebbe essere reso libero. Senza aprire fronti polemici quindi, si è demandato ai singoli architetti la ricerca di una chiave di lettura, di una tematica da evidenziare, di un problema da risolvere.
Con altrettanta ambiguità e genericità gli architetti internazionali hanno interpretato il tema per parlare, grossomodo, di quello che volevano. Spunti interessanti – nel bene e nel male – non sono comunque e ovviamente mancati.
In un angolo a margine del percorso principale dell’Arsenale, di fronte al Padiglione delle Arti Applicate (PAA sulla guida), ci si può imbattere nella ricostruzione di una sezione a tre piani dei Robin Hood Gardens di Alison e Peter Smithson. Si tratta del rimontaggio (A Ruin in Reverse) di alcuni elementi costitutivi delle residenze popolari in calcestruzzo a faccia vista dell’edificio completato nel 1972 nell’East End di Londra. Progettato come “dimostrazione di uno stile di vita più piacevole… un modello, un esemplare, una nuova forma di organizzazione urbana”, può a pieno titolo incarnare – diremmo oggi insieme ai curatori dell’esposizione, Christopher e Olivia Turner – lo spirito del Freespace, di buona parte di quei principi elencati nel Manifesto di Farrell e McNamara.
Generosità di spirito e senso di umanità… capacità dell’architettura di offrire in dono nuovi spazi liberi a coloro che li utilizzano… capacità dell’architettura di trovare una nuova e inattesa generosità, anche nelle dimensioni più private, difensive, esclusive o commercialmente limitate… Si potrebbe continuare ancora, scorrendo quasi tutti i punti del Manifesto.
Nel 2017 l’intero complesso è stato demolito da una grossa società immobiliare che intende realizzare un programma di nuovi alloggi di social housing da 300 milioni di sterline. Il Victoria and Albert Museum di Londra, per preservare la testimonianza di uno dei più riusciti esempi di Brutalismo inglese, ha acquistato dei pezzi delle facciate (incluso un pezzo della famosa Sky Road) e alcuni elementi emblematici, portati a Venezia nel suo terzo anno di collaborazione con la Biennale. Una rovina al contrario.
Addentrandosi nel Padiglione italiano curato da Mario Cucinella, l’impressione crescente e sorprendente è quella del freddo. In un paese abituato ad essere considerato come o paese d’o sole, vedere le gigantografie di boschi, montagne innevate e paesaggi invernali nordeuropei può risultare un’esperienza davvero inattesa. La scelta infatti dell’allestimento intitolato Arcipelago Italia è quella di porre l’attenzione su otto itinerari alpini e appenninici della penisola, punteggiati di garbati e suggestivi interventi, oltre che su cinque aree strategiche scelte lontano dalle grandi città cui assegnare l’arduo compito di rappresentare gli strumenti decisivi di rilancio dei territori italiani, rimettendo l’architettura al centro della nostra cultura e del dibattito pubblico.
Al piano superiore dell’installazione dei Vector Architects (Cina) al centro del lungo corridoio delle Corderie, c’è un piccolo plastico della Seashore Library costruita a Qinhuangdao in Cina. Come affermano le stesse curatrici della Biennale, si fatica a credere che questo edificio sia stato davvero realizzato e che possa esistere nella realtà, su di una spiaggia deserta a ridosso del mare, senza evidenti connessioni con il resto del mondo: strade, parcheggi, recinzioni. Una personalissima quanto affascinante immagine di Freespace che appare come un ideale monastero medioevale isolato dal resto del mondo. Una forma estrema – e forse irripetibile – di occupare uno spazio in modo pienamente libero.
Tra i 35 allestimenti proposti nel Padiglione Centrale dei Giardini, il Bjarke Ingels Group (BIG) presenta il suo progetto per Manhattan, una BIG U che circonda la punta dell’isola newyorkese con una cintura verde a protezione dalle inondazioni e tempeste conseguenti il cambiamento climatico in atto e progressivo. Oltre che dell’amministrazione comunale, il progetto viene inteso dalle due curatrici irlandesi – con la presumibile approvazione dell’architetto olandese – come una commessa da parte del pianeta Terra. Una fonte di ispirazione per i molti luoghi del mondo che devono affrontare problematiche analoghe.
Come tenere insieme tutte queste proposte? Come attribuire un significato generale alle diverse letture dello ‘spazio libero’ (o del ‘liberate lo spazio’)..?
Un aspetto sembra emergere con una certa chiarezza.
Di fronte all’accordo internazionale nel voler cambiare sistema, nel voler invertire la rotta di uno sviluppo insostenibile, nessuna delle posizioni politico-culturali esposte sembra presentarsi con la necessaria forza dirompente, con la radicalità profonda e convinta che i cambiamenti epocali di cui tutti parlano avrebbero bisogno per essere innescati.
Traspare piuttosto una sorta di pensiero debole, anzi debolissimo in cui gli architetti fanno a gara nel citare, recuperare, esaltare, tradizioni artigianali e autocostruzione. Centri sociali, robivecchi, favelas e suk africani (anche nel Padiglione del Giappone..!), tutti in fila lì a mostrare quanto il progetto di architettura sia, tutto sommato, superfluo se non addirittura d’ostacolo rispetto allo sviluppo di uno spazio realmente libero. E forse, in termini assoluti, potrebbe non essere neanche sbagliato.
Dopo la stagione del Pensiero Debole che negli anni ottanta e novanta aveva portato gli architetti a crogiolarsi ipnoticamente nelle periferie disagiate e nei territori urbani liminari, questa volta, la dimensione ermeneutica di riferimento si accontenta del sapere artigiano degli intrecciatori di vimini sudamericani, dei piastrellisti amatoriali dei collettivi autorganizzati… Alla base di questa Biennale però non traspare nessuna teoria filosofica a sostenere l’impalcato teorico di questa debolezza al quadrato. Pure – sempre riguardo il tema della sostenibilità, dell’antropocentrismo e dell’antispecismo – molti pensatori sarebbero anche in attesa dell’architettura, sul vasto tappeto della riflessione epistemologica contemporanea.
La sgradevole impressione è che gli architetti – almeno quelli selezionati quest’anno a Venezia – stiano, piuttosto, recitando una grande sceneggiata internazionale in cui fingono di avere soluzioni e proposte realmente efficaci. Ben consapevoli del fatto che, per operare l’inversione sistemica di cui parlano e su cui si affannano ad essere d’accordo, avrebbero dovuto essere presentate proposte dirompenti, altrettanto sistemiche, radicali e rivoluzionarie, sul modello di quelle elaborate negli anni sessanta e settanta – anzi, ancora più ficcanti, visto il magro esito ottenuto all’epoca.
La sgradevolezza non sta tanto nella presa d’atto che il posizionamento culturale (e politico) dell’architettura sia al fianco del capitalismo internazionale (evitando, evidentemente e come detto, qualunque riflessione o proposta realmente radicale), così come, del resto e con soltanto qualche trascurabile eccezione, da una cinquantina di secoli a questa parte. Infastidisce semmai la dissimulazione estetico-mediatica allestita da una architettura ambigua che mente sapendo di mentire.
Infatti, non solo non c’è uno degli architetti in mostra che non aspiri alle commesse delle multinazionali, dei gruppi di investimento, banche d’affari e fondi sovrani nazionali ma, nasce addirittura il sospetto che rendersi piacevole al grande pubblico, paladini dell’ecologismo massmediatico, non sia altro che una strategia per offrire la propria firma alle più grandi (e anche indicibili) operazioni finanziarie e di trasformazione – con il valore aggiunto di un pedigree politically correct e di una reputazione a prova di conflitto.
È questa dunque la missione dell’architettura del terzo millennio? Non c’è davvero alternativa all’abbraccio artritico del potere (decisionale, economico, mediatico…) del capitale..?
C’è qualcuno che abbia la lucida follia di provare a rendere il nostro pianeta un posto migliore e più sostenibile, lavorando oltre, di lato e all’interno delle logiche del capitalismo?
Quest’anno, a Venezia, sembrerebbe proprio di no.
Articolo pubblicato sul n. 268 di Segno
Biennale Architettura 2018
Venezia
26/5 – 25/11/2018