A Roma, presso il Centro Luigi Di Sarro, spazio dedicato dalla famiglia alla memoria e al lavoro del medico-artista prematuramente scomparso nel 1979, nonché alla promozione del lavoro dei più giovani, si è appena conclusa la mostra, a cura di Massimo Bignardi, “L’illusione di Dedalo: la pittura come reinvenzione dello spazio, che perde la sua definizione newtoniana per assurgere a pensiero”, prima personale romana dell’artista campana Mary Cinque.
All’interno delle tre sale espositive, circa venti opere di diverse dimensioni, realizzate tra il 2008 e il 2016, per lo più acrilici su tela e disegni su carta; un percorso che si muove tra città, palazzi, strade, finestre, tracce di una riflessione che l’artista conduce riguardo alla pittura quale strumento di riconfigurazione dello spazio.
«Adoro – suggerisce Mary Cinque nello scritto che accompagna il catalogo edito da Gutenberg Edizioni, con testi di Ada Patrizia Fiorillo, Massimo Bignardi e la stessa Mary Cinque – camminare le città. Preferisco le zone meno centrali, mi piace seguire il tracciato di una via e poi svoltare quando uno scorcio cattura il mio sguardo; il più delle volte è un’infilata di facciate a colpirmi e a costringermi a fermarmi e scattare una foto, riempiendo l’inquadratura di muri, finestre, tetti e una porzione di cielo più o meno piccola. Queste foto poi le stampo e le conservo in una valigia di pelle per tirarle fuori periodicamente, riguardarle e scegliere quale dovrà diventare quadro».
Camminare, osservare, fotografare, disegnare, dipingere diventano così per Mary Cinque gesti, espressioni di una nuova flânerie che, guardando ad esempio al lavoro di Stalker/Osservatorio nomade piuttosto che alle riflessioni sull’abitare dell‘ antropologo Franco La Cecla, s’interroga sull’urbano, sulle trasformazioni del paesaggio metropolitano tempo, guardando, poi, alla città come luogo dell’attimo, da consegnare alla memoria dello sguardo.
In questo senso l’artista, prediligendo l’uso di colori saturi, di campiture piatte e di una rigorosa trama geometrica, riduce le facciate dei palazzi a pattern cromatici, assecondando la griglia regolare e ordinata tipica dell’architettura razionalistica e dell’edilizia popolare che solitamente informa le sue foto, confrontando la città, la sua architettura con la sostanza ambigua dell’immagine.
Per Mary Cinque, difatti, «la pittura – suggerisce il curatore – trova nella città un ideale complice al suo destino di celebrare l’enigma della visibilità. È quanto registra questo ciclo di dipinti dedicati a scorci urbani, tema ricorrente nel suo lavoro, nei quali ella ripropone sulla piana dimensione della tela, del foglio, della tavola, sia la dimensione dello spazio, sia quella più complessa del luogo. In sostanza l’artista strappa a Dedalo, mitologico custode delle arti dell’architettura e della scultura, l’illusoria certezza dello spazio per affidarla alla atemporalità dell’immagine. Lo fa riducendo i volumi a piane geometrie di colori piatti nelle quale l’architettura, la città intera perde la sua definizione newtoniana per assurgere ad amalgama di tempo quindi di memoria e di futuro. La pittura diviene in tal senso un luogo altro del reale, carico di una valenza narrativa che è di chi prova a raccontare l’essere nel proprio tempo».
Pasquale Ruocco