L’impossibilità di poter vedere un’interessante progetto, proposto in un luogo quasi impensabile, che unisce terre lontane – per distanza, mentalità e tradizioni – ha spinto il mio istinto ad interessarmene.
Si tratta della mostra Ionian Anchaeological Archives di Marco Emmanuele, a cura di Daniela Cotimbo, allestita presso gli spazi della galleria Bivy situata ad Anchorage, la più grande città dell’Alaska rinomata per i siti culturali ed adagiata tra la Baia di Cook ed imponenti montagne artiche.
Il giovane artista Marco Emmanuele (Catania, classe 1986) dopo gli studi in architettura ha iniziato a dedicarsi prima alla produzione musicale per poi concentrarsi sulle arti visive di varia natura: ceramica, monete, legno, sintetizzatori, concetti.
L’esposizione, incentrata sul tema dell’archivio, si prefigge l’obiettivo di esplorare le possibilità di trasformare gli spazi della location in un fittizio Museo dello Ionio, depositario di testimonianze e storie collettive e private.
Per approfondire ho intervistato l’artista Marco Emmanuele.
Maila Buglioni: Il progetto “Ionian Anchaeological Archives” nasce dall’idea di esplorare la possibilità di trasformare uno spazio espositivo in un fittizio Museo dello Ionio – bacino marittimo che collega Italia, Grecia ed Albania –divenuto nei secoli teatro di attraversamenti e storie sommerse. Quando e perché hai iniziato a riflettere su tale tema?
Marco Emmanuele: Qualche mese fa, mentre ci confrontavamo in studio, Daniela Cotimbo si è subito accorta che molti dei miei lavori da circa due anni a questa parte hanno qualcosa a che fare col mare e la raccolta dei detriti lungo le spiagge come vetri e maioliche, quasi come fosse una pratica archeologica. Il tema del progetto lo abbiamo sviluppato insieme sin da subito.
M.B.: Obiettivo della mostra è creare un ideale un Museo del Archeologico dello Ionio basato su una serie di immagini private e collettive da te ritrovate e immesse all’interno delle impasto da cui nascono le tue sculture in ceramica. La tua attenzione verso i detriti, gli scarti prodotti dall’uomo e abbandonati sulle spiagge nostrane innescano una riflessione sulla memoria e su ciò che ognuno di noi ritiene importante o meno divenendo così “oggetto d’affezione” piuttosto che “rifiuto”. Numerosi artisti nel passato hanno utilizzato tale poetica creando opere di varia natura. Penso, ad esempio, al movimento del Nouveau Realismo, del Neo Dada, dell’Arte Povera, all’Eat Art di Daniel Spoerri ma anche alla poetica di artisti come Vik Muniz che recupera i rifiuti di qualsiasi genere per creare imponenti installazioni che riproducono opere d’arte famose come La morte di Marat di Jacques-Louis David. Come nasce questa tua propensione a tale pratica? Hai qualche riferimento storico?
M.E.: Ecco, con la parola Dada mi hai ricordato una delle più eccitanti lezioni scolastiche, nonostante al Liceo Classico le ore dedicate all’arte erano davvero poche. Per il dada utilizzare un rifiuto serviva a negare in qualche modo la società, a sorprenderla, mentre per il neo dada adoperare rifiuti significava assimilare il passato nel presente e conferire all’oggetto un significato anche sentimentale. Personalmente mi piace rimanere legato a quest’ultimo modus operandi. Questa pratica di adoperare lo scarto probabilmente è venuta fuori empiricamente, così come succede nella cucina povera del sud Italia, dove con gli scarti spesso si creano dei piatti incredibili. I miei riferimenti storici quindi spaziano facilmente da certi assemblaggi del periodo Fluxus a certe ricette dei miei nonni.
M.B.: L’esposizione s’incentra su una tematica legata alla nazione in cui vivi e al Mediterraneo. Perché allora hai scelto di presentarla un territorio così lontano e differente, per mentalità e tradizioni, dall’Italia come l’Alaska?
M.E.: In verità sto lavorando da parecchi anni a un progetto che collega la Sicilia all’Alaska, e che farò uscire allo scoperto non appena sarà maturo. Al cuore di questo progetto c’è la ricerca di un posto dove potersi sentire a casa. In un certo momento della storia la terra non era ancora stata ridotta ad una gigantesca mappa. Esistevano quindi delle mappe ideali nella testa di ogni viaggiatore o sognatore, tutte diverse. Nel “grande oltre” delle primissime cartografie, i confini terrestri erano solo abbozzati e poiché quello che immaginiamo l’abbiamo già visto o è un insieme di cose già viste, non è difficile pensare come una porzione inesplorata di mondo possa somigliare così banalmente a quella in cui abitiamo noi. Gli animali che ci portiamo dentro, non solo conoscono i luoghi in cui vivono, ma immaginano anche quei luoghi dove poter trovare cibo una volta finite le scorte, così a un certo punto partono e quel posto lo trovano davvero.
M.B.: Nella mostra hai presentato sculture in ceramica sospese su esili tubolari in ferro: alcune adagiate a terra, altre collocate sulle pareti ed altre ancora adagiate su piedistalli. Un allestimento che vuole proporre l’immagine di un ritrovamento ‘casuale’ degli scarti abbandonati ora arricchiti grazie alla loro incastonatura nella bianchissima ceramica. In questo modo dai vita al mutamento del valore dell’oggetto che da detrito diventa un opera d’arte e che include ricordi condivisibili con il prossimo generando un ritorno alle origini..
M.E.: Un tessuto morbido che serve a coprire le cose allo stesso tempo attira l’attenzione su quello che copre. Un tavolo? Un pavimento? Un cadavere? Una scultura?
I pesci di ceramica, modellati e posati come se fossero dei morbidi tessuti, o più semplicemente come pelli private del resto del corpo, oltre ai gioielli che portano addosso, tengono viva una storia ancora più preziosa che rimane in quel groviglio irrisolto di spine e carne: la storia di come si imbattono in queste pietre. Queste storie mi affascinano.
M.B.: Mentre su una parete hai disposto una serie di monete a forma di chiave – simbolo di possibili soluzioni ma anche dell’attraversamento geografico, delle identità nazionali, nonché oggetto comune che ognuno di noi custodisce nelle proprie tasche – culminanti in un cacciavite che, come scrive la Cotimbo, «allude forse ad un’attitudine umana al fare e al disfare»…
M.E.: Le cartoline (questo è il nome di questi lavori) sono fatte di monete che intendo come detriti, in quanto molte appartengono a coniazioni non più in circolazione. L’attitudine al fare e disfare appartiene per natura all’uomo. In questo panorama le cartoline ci regalano l’immagine di un oggetto chimerico, che non appartiene più a un ente come la banca centrale che conia il denaro e lo presta al popolo, bensì all’uomo che ne cambia la destinazione d’uso.
M.B.: Nel testo critico la Cotimbo scrive: «Lo stratificarsi di memorie storiche, private ed immaginarie trasforma il semplice ritrovamento in opera autonoma, un’archeologia fittizia a cui Emmanuele dà la forma di un archivio, traslando l’idea di Museo e collocandola in uno spazio ibrido ben lontano dalle sue coordinate geografiche, misurandosi così con lo sguardo d’oltreoceano nel tentativo utopico e un po’ goliardico di portare l’Etna in Alaska». A tal proposito ti chiedo: il progetto Ionian Anchaeological Archives potrà mai essere esposto in Italia? E perché?
M.E.: Ci sono state delle persone che si sono mostrate interessate, quindi verrà esposto anche in Italia.
Marco Emmanuele “Ionian Anchaeological Archives”
a cura di Daniela Cotimbo
dal 02 novembre al 14 dicembre 2018
Bivy
419 G Street, Suite 100 – 99501 – Anchorage, Alaska
orario: merc-giov-sab 17:00 – 19:00 o su appuntamento
info: tel. +1 907 891 5482
email: info@bivy.space
sito: https://www.bivy.space/