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Màquines de Viure. Flamenco e architettura a Barcellona

Si è da poco conclusa, presso gli spazi de La Virreina Centre de la Imatge di Barcellona, la mostra Màquines De Viure. Flamenc i arquitectura en l’ocupació i la desocupació d’espais. 

Pedro G. Romero, María García Ruiz e Valentín Roma, commissari dell’esposizione, tracciano una “genealogia storica dei modi di situarsi nello spazio moderno, nell’architettura e nell’urbanistica, sviluppatesi dalla seconda metà del XX secolo ad oggi. La nostra epoca ha fatto del vivere una forma amministrata dell’abitare. È necessario capovolgere questa formula: rendere la vita un modo politico d’abitare il mondo”.

Il testo curatoriale introduttivo suggerisce, in maniera chiara, la genesi e l’idea alla base dell’esposizione:

Il titolo prende spunto da una frase di Federico García Lorca e Manuel de Falla registrata in Arquitectura del cante jondo (1932 circa) quando i due, passeggiando per le vie di Granada, udirono un cante antico, una voce e una chitarra, proveniente dall’interno di una casa. Accostandosi videro, attraverso la finestra, “una stanza bianca ed asettica, senza alcuna immagine, una macchina per abitare dell’architetto Corbusier”.

Lorca ha applicato a l’abitazione di un flamenco, la celebre machine à habiter di Le Corbusier, associando in una maniera libera, conflittuale e colonialista, il funzionamento della casa moderna a l’austerità obbligata della casa di un povero.

Nonostante questo, è nella distinzione fatta dal poeta tra vivere ed abitare, tra vita naturale e vita politica, tra zoe e bios, che risiede il progetto. Il divario tra questi significati fornisce un territorio fertile per tracciare una genealogia storica dei modi di situarsi all’interno dello spazio domestico, dell’architettura e dell’urbanistica, esplorando le reinvenzioni dei flussi circolari, della mobilità e della flânerie che sono iniziati nella seconda metà del XX secolo e che si sono sviluppati, in maniera complessa, nel presente.

Traduzione dallo spagnolo del testo curatoriale introduttivo.

Lo spazio espositivo è suddiviso in tre sezioni principali consecutive dalle quali emerge la linea sottile ed impalpabile che divide vivere ed abitare. Ogni sezione è un continuo accostamento tra la progettualità geometrica modernista e l’ondulato movimento del corpo, la linea retta della ragione e il flusso danzante del corpo libero, mostrati attraverso l’infinito utilizzo di materiali plurimi quali il video, la fotografia, la fotocopia, il disegno, la pittura, la musica, la poesia, la geometria, l’installazione, l’arredamento, i libri, le cartoline, i manifesti… assemblati e montati senza tener conto dell’originalità o della riproduzione della fonte storica. In questo modo troviamo un susseguirsi, senza distinzione, di originali, fotocopie, trascrizioni, foto, scannerizzazioni, digitalizzazioni…

La prima sezione è intitolata Spazio sociale. La città radiosa: gypsy, comunità flamenco e migranti tra costruzioni utopiche e il recinto delle aeree residenziali.

La volontà è quella di esplorare i vari progetti abitativi elaborati in Francia, Spagna e Portogallo per fornire una casa alle popolazione gypsy. La particolarità di questi progetti, gli antecedenti dei quali sono il falansterio ma anche i campi di concentramento, risiede   nell’essersi sviluppati a discapito delle particolarità identitarie e delle caratteristiche sociali quali il nomadismo, il commercio e i mestieri itineranti, forme di vita che, territorialmente parlando, si costituivano come instabili. Una secondo fase di questo modo di progettare si affaccia a seguito del fallimento di applicazione dei primi progetti e vede la popolazione rom venire assimilata, insieme ad altri gruppi marginalizzati, in vasti complessi residenziali per migranti provenienti dalle campagne e dal Sud. In tutti questi casi sia il flamenco che la nostalgia per i territori abbandonati divengono rivendicazioni e reinvenzioni poetiche del nuovo spazio nel quale dover vivere. 

Spazio radicale. L’Internazionale Situazionista, influenze e conseguenze tra l’abitare e le forme di vita è la seconda sezione che ricostruisce e sottolinea l’attenzione  dell’Internazionale Situazionista nei confronti delle componenti di occupazione e mobilità nei territori delle comunità Rom, gypsy e flamenco. Interesse evidente sin dal primo momento quando Pinot Galizio fu nominato “principe gitano”, oltre che nella particolare attenzione che posero le pratiche di Guy Debord e Alice Becker-Ho riguardo le genealogie culturali costituenti quali il nomadismo, il rifiuto del lavoro, l’utilizzo dello spazio urbano, la prevalenza del gioco e dell’anonimato criminale, il labirinto e la ruota, la bassa produzione industriale e il détournement.

La terza sezione, intitolata Spazio teatrale. Il territorio nel nuovo teatro rituale andaluso e lo spazio dei centri di produzione del lumpenproletariat, mostra la consapevolezza elaborata dai Rom e dagli artisti flamenco circa le modificazioni spaziali avvenute soprattuto all’interno del teatro che seguì, il più delle volte, le linee dettate dalla politica franquista e dalla transizione verso la democrazia. Consapevolezza che emerge evidentemente nella loro  volontà di sviluppare nuove modalità di dimora che richiedono una deterritorializzazione dei vecchi palcoscenici. Si veda ad esempio il Teatro Estudio Lebrijano di Juan Bernabé e il suo Oratorio (1968), La Cuadra a Siviglia, il teatro gitano andaluso di Mario Maya, oppure le nuovi produzioni di spazio teatrale quali la Reunión de Cante Jondo nel La Puebla di Cazalla, con l’attivismo sui generis di Francisco Moreno Galván e il Cortijo Espartero di Morón de la Frontera.

La mostra nella sua totalità riabilita magistralmente, e in maniera visibile, il corpo e la sua componente poetica in quanto potenzialità per la riformulazione del tessuto urbano, per la riappropriazione dello spazio comune e in quanto istanza invisibile che separa vivere ed abitare.

“Iguales pero separados”, è una frase che appare nel video di Lorenzo Soler Gitanos sin romancero del 1976 a sintetizzare le condizioni di vita di una comunità che non perde il suo modo di vivere nemmeno quando viene forzata all’interno di un reticolato modernista che la ingloba architettonicamente, ma vuole escluderla socialmente. Una comunità dissidente, non dominante, che vede al suo centro un sapere locale e minoritario articolato nel corpo, nel canto e nella danza. Un corpo non oggettivato, non normalizzato resistente alla messa a profitto e ingovernabile dalla macchina. Un corpo e una comunità che insieme riescono a parlare, ad affermare e a rivendicare la propria identità, creando una frattura all’interno del discorso egemonico che vorrebbe identificarli come umanità superflua. 

È allora necessario prendere in considerazione le parole scritte da Raoul Vaneigem nel suo testo Desmontar la máquina hábitat poético y autogestión, presentato durante il periodo dell’esposizione: 

Necesitamos una rehabilitación del cuerpo y del hábitat poético que este exige. Necesitamos una arquitectura que cante y baile. Y esta arquitectura no existirá sin una voluntad individual y colectiva de deconstruir el hombre máquina, construyendo el ser humano.

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