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Made in America. Le mille luci di New York alla Galleria Open Art

Il primo vero confronto fra l’arte europea e quella americana risale al 1913 quando, nell’ambito dall’«Armory Show» di New York sono esposte opere che non lasciano dubbi sul condizionamento che l’arte del Nuovo Mondo subiva nei confronti di quello Vecchio. Tuttavia, è in quella storica mostra che iniziano a tracciarsi i contorni di quella che sarà, negli anni Quaranta e primi Cinquanta del Novecento, decretata come la prima forma d’arte puramente americana, storicizzata in seguito come la corrente dell’Espressionismo Astratto.

Quel Made in America è il tema della mostra che oggi la galleria Open Art rivisita e ripercorre, attraverso lo sguardo curatoriale di Mauro Stefanini e un approfondimento critico nel catalogo bilingue edito da Carlo Cambi Editore, di Beatrice Buscaroli. Quel Made in America, composto di una polifonia di voci e artisti di cui ora, a distanza di quasi ottant’anni, è possibile leggere i comuni presupposti con maggiore chiarezza, si concentra, nella proposta di Open Art sulla figura di Martha Jackson e sul suo pionieristico lavoro di gallerista, con oltre trenta opere di artisti che hanno esposto nel suo spazio newyorchese contribuendo alla definizione e al successo all’abstract expressionism. In mostra si osservano i lavori di Paul Jenkins, Sam Francis, James Brooks, Norman Bluhm, Michael Goldberg e Fritz Bultman, ai quali si affiancano anche quelli di John Ferren, John Grillo e Conrad Marca-Relli, le cui opere, anche se non direttamente rappresentate dall’etichetta Martha Jackson, sono fondamentali alla comprensione di quel fermento culturale che ha segnato il passaggio del primato artistico internazionale dall’Europa all’America. Made in America. Le mille luci di New York si pregia anche, oltre che di opere provenienti dal fondo Martha Jackson, di altre provenienti dal MoMA di New York, che testimoniano il prestigio e l’alto valore culturale sotteso a questo spaccato espositivo.

Per comprendere il clima artistico elettrizzante della New York della metà del secolo scorso è, tuttavia, necessario fare un piccolo passo indietro. Il primo fatto da considerare è che, come già posto l’accento, l’originalità della proposta artistico-culturale americana, sebbene nata dalla tradizione delle avanguardie europee, affondi le proprie radici in linguaggi, considerati al tempo, diametralmente opposti e in contraddizione fra loro: l’Astrattismo da un lato – lirico o geometrico – e il Surrealismo dall’altro. La singolarità di questa improbabile unione di linguaggi espressivi si manifesta, in seguito, nella sintesi messa in campo dagli artisti della cosiddetta Scuola di New York: Pollok, Motherwell, Rothko e Gorky ad esempio, in seguito divisi in action painters e field painters, complice la presenza in città di Peggy Guggenheim, sostenitrice dei surrealisti che nella Grande Mela fonda nel 1937 il Museo di Arte Moderna e Arte Contemporanea, e poi di Leo Castelli, storico propugnatore di giovani talenti.

Agli inizi degli anni Quaranta, questa generazione di artisti, dà origine, per l’appunto, a una pittura d’azione e di pensiero, dove, secondo la visione di Rosemberg “nell’io dell’artista – si concentra – la crisi della società e dell’arte”. Ed è in quel decennio che avviene la formulazione della nuova pittura astratta americana. Formulazione che conduce, in seguito, all’enunciazione della locuzione abstract expressionism, data da Greenberg nel 1946, capace di raccoglie sotto una cornice comune artisti che, in precedenza, avevano rifiutato di riunirsi in una scuola o un’etichetta collettiva. Artisti che visivamente e concretamente producono opere dagli aspetti molto differenti, chi più versato a trattare la pittura con una gestualità intensa, chi presentando stesure di puro colore piatto, ma tutti convinti dell’importanza del contenuto che rimarcano nel categorico rifiuto del progetto preliminare, del disegno preparatorio o del bozzetto. È la spontaneità nei confronti della pittura: emotiva, tormentata o meditativa a guidare l’atto creativo degli artisti aderenti all’abstract expressionism, affermatosi con forza soprattutto tra il 1947 e il 1948, anni durante i quali proprio Motherwell e Rosenberg sostengono, attraverso le pagine dalla rivista «Possibilities», l’’importanza dell’“affluire nel presente con la forza di sopportare il mondo”. E in questo affluire del presente si avvicendano le prove pittoriche di Pollock, di De Kooning, di Motherwell, orientati all’accentuazione dell’elemento espressivo, di Rothko, di Gottlieb, di Tobey più a quello meditativo, di Gorky indirizzato all’assunzione del mito e di Rothko che punta sulla trasfigurazione luminosa del colore, cui guarda anche l’esperienza di Clifford Still, e di molti altri protagonisti del nascente movimento. Nodale, infine, in questa successione di eventi è l’organizzazione del MoMA nel 1950 della mostra Abstract Painting and Sculpture in America, cui nessuno del gruppo di giovani pittori che si stava formando in quel periodo fu invitato. Polemiche e proteste, sulla stampa e i media, non tardano ad arrivare e fra le pagine dell’«Herald Tribune» compare per la prima volta il termine – inizialmente dispregiativo – di Irascibili, identificativo di quell’irruenza emotiva, artistica e culturale – segnica, gestuale e materica – sottesa al dettato pittorico dell’abstract expressionism. La mostra del MoMa traccia una sorta di frizione quasi incompressibile, se si pensa che, solo un anno prima, nel 1949 nasce il “Club of Eight Street” fra gli artisti Conrad Marca-Relli, Franz Kline e Willem de Kooning che, nel successivo 1951 organizzano la collettiva Ninth Street Show, la prima vera rassegna dedicata ai pittori dell’ l’abstract expressionism.

In questo clima di fermento Martha Jackson, originaria di Buffalo, apre la propria galleria nel 1953, pronta ad accogliere quelle energie innovative che il sistema istituzionale dell’arte tardava a riconoscere. Nel suo spazio s’incontrano figure come il tedesco Hans Hofmann, rappresentativo di uno sguardo comunque orientato all’Europa e a una forma di pittura astratta che si declina in Tachisme, e lo statunitense Adolph Gottlieb nelle cui tele si rintracciano forti richiami all’arte giapponese. Non un caso per la Jackson, fra le prime galleriste in suolo americano ad accorgersi delle affinità fra l’abstract expressionism e il gruppo giapponese Gutai, cui ha posto grande attenzione nell’arco di tutta la propria carriera.

Ma da Martha Jackson sono soprattutto i nomi di Paul Jenkins, Sam Francis, James Brooks, Norman Bluhm, Michael Goldberg e Fritz Bultman ad avvicendarsi con maggiore frequenza, gli stessi che oggi animano la mostra Made in America. Le mille luci di New York.

Paul Jenkins matura il proprio stile ispirato dalla forza e potenza del colore. Attraverso esso l’artista risolve talune dicotomie sottese alla storia dell’individuo, inscenando composizioni che guardano trasversalmente alla cultura orientale e occidentale che si risolve in un dettato pittorico di segni in tensione e apparentemente in opposizione. Sul tema del contrasto si muove anche Sam Francis, la cui pittura si mostra simultaneamente drammatica e lirica, espressa nel bilanciamento fra gocce e spruzzi di vernice e fluide campiture di colore che, tuttavia, tendono più al versante estetico che psicologico. Ancora, in mostra incontriamo le opere di James Brooks che dell’abstract expressionism si distingue per dipinti le cui composizioni, sebbene realizzate con pennellate libere e fluide, mostrano un rigore di matrice quasi cubista, mentre Norman Bluhm all’opposto, si offre allo spettatore con poetiche combinazioni e mescolanze di schizzi e colature di colore che attraversano la tela irrompendo nello spazio della realtà, oltre i confini imposti dal supporto. Da Open Art si osservano anche le opere di Michael Goldberg che, sempre sulla scia dell’action painting ha, tuttavia, messo in scena, attraverso tale modalità espressiva, una particolare rappresentazione del paesaggio, certamente influenzato da molta arte Rinascimentale italiana, avendo vissuto per un lungo tempo della sua vita in Toscana. Infine, citiamo l’opera di Fritz Bultman, il quale, in particolare dagli anni Sessanta in poi, ha dato vita ad una personale declinazione della lezione pittorica del cosiddetto primo abstract expressionism, ideando dipinti accompagnati da collage e carte strappate e tagliate, unendo ed esasperando ancora di più l’aspetto segnico a quello materico. Ciascuno di questi artisti è accompagnato dall’inconfondibile etichetta arancione di Martha Jackson, un vero e proprio marchio di garanzia oggi come all’allora, identificativo del suo elegantissimo gusto e di una visione dimostratasi convincente e vincente tanto nel mercato dell’arte, quanto e soprattutto nella storia dell’arte. Made in America. Le mille luci di New York celebra per la prima volta in Italia le intuizioni, la tenacia e la caparbia di una pioniera dell’abstract expressionism, alla quale finora sono state dedicate importanti esposizioni soltanto in America, nella sua città natale Buffalo e Washington.

Dal numero 264 di Segno

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