Domenica 6 dicembre, al Palazzo Sforza-Cesarini di Genzano di Roma, si è tenuto il finissage di Lunghezze d’onda. La mostra, inaugurata il 31 ottobre, è la seconda delle tre che compongono il progetto di Giovanna Dalla Chiesa (curatrice di tutte e tre le mostre) che, come lei stessa ha affermato, è mirato «fare del Palazzo un laboratorio culturale che ne valorizzi la caratteristica di cerniera tra città e paesaggio». Questa specificità dell’edificio, trae origine dalla sua storia poiché fu edificato inglobando l’antica porta che consentiva l’accesso al centro abitato, venendo a rappresentare un reale punto di contatto fra l’uomo e la natura, tra la città e il paesaggio appunto.
Ognuna delle tre mostre è stata pensata per indagare aspetti diversi di questa peculiarità. Così, mentre la prima era incentrata sulla relazione tra mito e scienza e la terza affronterà il tema del linguaggio, la seconda, come suggerisce il titolo, indaga i flussi invisibili di energie presenti tanto sul nostro pianeta quanto nel cosmo.
In questa mostra sono stati coinvolti due giovani artisti italiani, romani d’adozione: José Angelino (Ragusa, 1977) e Serj (Bergamo, 1985). Le loro ricerche, per quanto distanti da un punto di vista tecnico, formale ed estetico, hanno un elemento di contatto, le lunghezze d’onda che la maggior parte dei lavori esposti rendono manifeste. Angelino e Serj lavorano infatti rispettivamente con la luce e con il suono.
L’artista siciliano, laureato in fisica, forte delle sue conoscenze scientifiche, crea dei lavori che pongono lo spettatore di fronte a scenari insoliti e molto interessanti. Egli realizza delle strutture in vetro di forme diverse che, dopo esser state messe sottovuoto, vengono riempite di argon e collegate alla corrente. L’elettricità, attraversando l’ambiente pieno di gas, diventa visibile, assumendo una particolare colorazione azzurra che varia di intensità a seconda della concentrazione del gas stesso. Le sue opere dialogano con lo spazio e ne diventano protagoniste perché la luce che sprigionano irradia l’ambiente circostante, regalando allo spettatore un’esperienza molto suggestiva. Uno degli aspetti interessante di queste opere è il rapporto tra la struttura e la luce poiché la prima è ben visibile soltanto quando l’interruttore è spento: una volta acceso, infatti, la struttura sembra scomparire lasciando spazio al fascio luminoso. Quando l’elettricità attraversa il gas, cerca la strada più breve per raggiungere il punto di uscita: sfruttando questa proprietà, Angelino realizza dei veri e propri disegni luminosi, a volte ponendo degli ostacoli nelle strutture, altre creando dei rigonfiamenti in concomitanza degli angoli, lasciando all’energia la libertà di scegliere il percorso da seguire.
Risulta difficile inquadrare i lavori di Angelino in una definizione unitaria perché pur mantenendo una coerenza concettuale e stilistica, hanno forme variegate e modalità espositive diverse: alcune opere possono essere ammirate attaccate al muro come un quadro, altre posizionate su un piedistallo come una scultura e altre ancora appese al soffitto e lasciate scendere all’altezza dello spettatore come un’installazione.
Le opere presentate da Serj sono installazioni e sculture di grandi dimensioni. Esse si presentano in forme piuttosto eterogenee, ma sono accomunate dall’interesse che l’artista pone nei confronti del concetto di punto. In ognuno di questi lavori c’è un punto preciso per cui si tengono in equilibrio, mantengono quella forma, vibrano ed emettono un suono: l’assenza di quel punto provocherebbe la distruzione dell’opera o il suo mancato funzionamento.
Due dei lavori esposti nella mostra sono legati al suono e alla vibrazione e in entrambi, questi due elementi si manifestano grazie all’unico punto di contatto che c’è tra una barra di metallo e lo speaker della cassa attaccata allo stereo con cui esse vengono in contatto. Un’altra coppia di lavori è invece incentrata sull’equilibrio su cui si reggono e si tratta di strutture fragili e precarie realizzate entrambe in ferro e vetro. Una delle due presenta, però, al suo interno, anche un piccolo blocco di cera gialla piuttosto informe, caratteristica che crea un forte contrasto con la precisione assoluta con cui gli altri materiali sono stati lavorati. L’ultimo lavoro realizzato dall’artista bergamasco è una sorta di scala-trappola i cui pioli sono di vetro e su ognuno di essi troviamo scritta una parola che, se si osserva l’opera dall’alto forma una frase: “pochi riti utili salvano.” Nonostante si tratti di un’affermazione chiara e quasi perentoria che sembra non ammettere repliche, essa si fa portatrice di un messaggio piuttosto criptico che induce lo spettatore a porsi domande tanto sulla frase quanto su ogni singola parola che la compone: che cos’è un rito? chi salva? e da cosa? e cosa vuol dire “utile”? e, soprattutto, utile a chi?