Un eroico dialogo sempre aperto tra arte e musica
Mimmo Paladino: Sottolineo subito come la Transavanguardia sia stata una corrente artistica nata da una posizione di critica, sicuramente importante ma frutto di un’espressione creativa individuale e non di scambio dialettico, appartenente ad un preciso periodo storico, dove l’incontro reale, il confronto, avveniva solo sul piano delle mostre.
Lucio Dalla: Non esiste quindi un’identità comune?
M.P. – No, non c’è se non nel mezzo: come tu usi le parole io uso il pennello.
A. Rubbini: Lei, infatti, viene definito dalla stessa critica, anche all’interno di una precisa corrente artistica, Outsider.
M.P. – Suppongo che tutti gli artisti mirino a sostenere la propria individualità. Ci sono dei momenti storici in cui più artisti si incontrano sul piano del linguaggio ideologico individuale. Futuristi, Dadaisti, e vari movimenti storici si sono definiti così, ma con una volontà storiografica ben precisa. Negli anni Ottanta questa volontà non poteva esserci: il disastro ideologico che c’ era stato, stilisticamente e socialmente non si poteva riprendere in arte, c’era il desiderio invece di salvarsi: infatti il mio quadro “Mi Ritiro a Dipingere un Quadro“, è una vera dichiarazione. Il titolo è più importante dell’opera: la volontà era quella, ognuno si era ritirato a dipingere dei quadri.
L.D. – Magari dicessero di me che sono un Outsider: è il mio sogno. Ma mentre nell’ arte è quasi un “fenomeno collettivo”. nella musica è proibito a tutti essere Outsider. Nella musica, dove è proibito essere differenti, c’è molto meno fantasia che nell’arte figurativa. Esiste però molta più comunicazione, allargata, più diretta, più popolare. Noi realizziamo dei multipli, sempre: i dischi.
M.P. I dischi hanno un’incidenza a due tempi: una è immediata. Con l’acquisto del disco è immediato l’ascolto. E poi un’incidenza quasi come per la pittura, su tempi lunghi. Il momento della riflessione, il tempo che trascorre e il riemergeredella sonorità e dei versi: c’è un momento più vero, più artistico, con il vantaggio di un pubblico più numeroso, che poi inevitabilmente si perde.
L.D. – Io sono forse il “prototipo perfetto” di queste duplicità: gli ultimi tre anni della mia vita hanno visto con il mio disco Cambio il record credo delle vendite. Ho vissuto da una parte l’eccitazione per questo successo che è durata qualche giorno, e dall’ altra l’imbarazzo di sostenere tale successo: contemporaneamente quindi ho vissuto la necessità di ristabilire i miei piani, dal punto di vista del consenso, in modo diverso. Ci sono riuscito con Henna, disco che possiede una dimensione, come diceva Paladino, che avverte il bisogno di cercare un modo di essere diverso nelle cose. Non ho ricercato il riconoscimento ma la riconoscibilità, ovvero il segno che diventa immediatamente proprietà dell’inconscio collettivo di cui è comunque parte importante e allo stesso tempo espropria colui che lo crea poiché è la gente che se ne impossessa.
M.P. – Per te la riconoscibilità è quindi un dato fondamentale del tuo lavoro?
L.D. – Sì, perché ha origini estremamente non mercificabili: quando viene riconosciuto il segno, può anche accadere che non ci sia il prodotto. La televisione, ad esempio, nella sua ambiguità, ti offre questa possibilità. Vittorio Sgarbi, che non vende nulla e non ha oggetti da proporre crea invece una organizzazione” del pensiero e del contatto che al di là di quelli che la rifiutano o l’accettano è comunque un segno e un messaggio preciso.
M.P. – Personalmente, in pittura, ricerco la non riconoscibilità, nonostante alla fine mi riconoscano. Mi piace giocare questo ruolo sottile, questo sgattaiolare continuamente nel tentativo almeno di uscir fuori e di capovolgere sempre le situazioni creando dei trabocchetti visivi; e quindi non amo la ripetitività, l’artista che ripete la sua cifra all’ infinito, nonostante ci siano stati artisti importantissimi che hanno lavorato su questa tematica. Ma il reale problema “politico” di questo momento è quello di tentare di creare invece dei trabocchetti linguistici perché è l’unico modo per sfuggire, per non esserci, per cercare di essere sempre in un altro posto pur essendoci.
A.R. È quello che ha fatto Lucio Dalla in questo suo ultimo lavoro…
M.P. – Infatti. In quest’ultimo suo disco Dalla ha cercato di sfuggire ad una regola, di sfuggire alla regola che egli stesso si era creato. Secondo me, da spettatore, è la cosa più importante di questo disco.
L.D. Esiste anche un altro aspetto della situazione: l’individuazione di una società in trasformazione. Sono convinto che l’artista abbia un rapporto con I’ ambiente dentro il quale vive la sua opera estremamente diverso da quello del suo fruitore. L’incontro che ho avuto con Mimmo Paladino mentre stavo scrivendo il mio disco riflette in parte questa situazione: il mio umore era quasi premonizione di come stavano cambiando le cose, era come se un vento misterioso spirasse lieve, senza realmente sconvolgere nulla ed io non sapevo come dare uno spessore all’immagine.
A.R. Credo che il disegno di Mimmo Paladino, essenziale, racchiuda ed invii una serie di concetti che anticipano e descrivono la ricerca musicale contenuta in Henna. Il corpo di un uomo, rotato all’ indietro non si distacca ma si offre allo spettatore, aprendo un dialogo, forse amoroso, tra sé e il prossimo. Il disegno è la sezione di un corpo dove appare l’essenza di un sentimento, in un percorso ideale che va dal cervello (pensiero) al cuore attraverso un’unica grande arteria. Il cuore è grande, dominante, come spesso l’irrazionalità dei sentimenti!?
L.D. – Quando ho deciso di prendere il disegno di Paladino come visualizzazione di questo mio disco, il mio lavoro ha preso una svolta ulteriore. Da metà disco in poi ho lavorato in funzione di questa immagine che sintetizzava ancor prima della mia musica quello che io stesso pensavo di questa società e soprattutto dei suoi individui: la loro scomposizione interna da una parte, il loro proclamare in maniera antica la loro diversità, di umori e di sensazioni ma anche di contenuti. Questa figura mi ha in qualche modo accompagnato nel cambio dei ritmi e dei linguaggi, modificando quello che era il mio assetto. La pubblicazione della copertina nasceva assolutamente dalla casualità: tu mi mandasti il disegno della copertina quasi due anni fa…
M.P. Ti mandai una lettera dove dall’altra parte c’era il disegno: avevo ascoltato la canzone “Latin Lover” ed avevo colto una notevole valenza poetica. Era uno scambio epistolare tra due artisti, come a volte accade, volevo esprimere quello che avevo provato.
L.D. – Credo comunque che non avresti mai pensato di essere così influente proprio sulla continuazione del mio lavoro. Ho immaginato il protagonista del tuo disegno, inserito in una società come questa e l’ho trovato geosocialmente e geopoliticamente perfetto ed ho lavorato ancor di più per introdurlo dal punto di vista della forma.
M.P. – Come sono diverse le letture del proprio fare: ho immaginato invece Lucio Dalla estremamente calato in questa dimensione di visionarietà, di provocatore di racconti per immagini, per brandelli. E’ manifesta la ricerca di un suo ruolo nel sociale, mentre io trovo difficoltà nel dimostrarlo e dichiararlo. Non avverto più il significato, la valenza nel sociale di fare un quadro. Ho perso di vista questa meta, me ne sto allontanando, sento il ruolo dell’artista fuori dal contesto sociale. A cosa serve la nostra presenza, il nostro fare all’interno di questa moltitudine di esseri… è una domanda antica… è una perdita di vista che invece Dalla non ha subito.
L.D. – Perché è differente il confronto con il pubblico, un pittore ha la possibilità di un contatto personale.
M.P – Probabilmente sì, l’arte figurativa si muove in “territori” più ristretti, mentre nella musica c’è una moltitudine di persone che acquista un tuo disco e una moltitudine di persone che in quel momento guarda, pensa e sente la stessa cosa, poi il numero si perde per strada e rimangono in pochi. Ma il problema non è di quantità ma di rapporto tra artista e società e io me ne sono allontanato.
L.D. – La tua è una selezione di interlocutori: se la tua pittura mi ha coinvolto al punto di modificare, strada facendo, il mio progetto, è sicuramente perché ha assunto un ruolo guida.
M.P. – Ci sono dei gradi di incidenza….
L.D. – Sì, proprio sul piano della ricerca e del contatto. Ritengo che una mia canzone, anche la più popolare, viva per delle sostanze e delle circolazioni misteriose difficili da spiegare almeno quanto le tue. C’è sempre qualcosa nel magico intricarsi delle situazioni che spesso noi abbiamo, noi che conosciamo come comporre un arrangiamento o come scrivere una canzone, ed è quello il vero linguaggio: quello che crea la differenza tra capire o non capire una cosa, tra un sì o un no, o nel consenso semplicemente numerico. Tu, Paladino, come altri che hanno il tuo ruolo, potete permettervi di stare a vedere cosa succede scollegati dalle mutazioni, dai cambiamenti seppur partecipi, in maniera pubblica, ma con le intenzioni siete realmente all’origine dei cambiamenti stessi. Anche la pubblicità prende dall’arte figurativa con la sua similitudine ai multipli per quello che è la frequentazione quotidiana della grande massa.
A.R. – Considero l’arte figurativa il media principale, il tramite di una moltitudine di messaggi…
M.P. – Sicuramente, l’arte visiva è il tramite della medialità del quotidiano. Ma io temo sempre quando l’arte esplode e va a colpire con miriadi di schegge gli argomenti del sociale, quindi dall’architettura al design, penso non si debba mai vederla come un successo. Credo che l’ arte viva di segreti destinati a rimanere tali: un quadro dell’ antichità oggi continua ad essere intrigante, forte, importante per noi, non perché lo guardiamo con gli occhi della storia ma perché contiene un quid di mister che nessuno ha ancora svelato. Credo che l’opera d’arte sia enigmatica, complessa e completa quando riesce a contenere molti dettagli che si svelano con il tempo e comunque non si svelano mai completamente. Ecco perché possiamo ancora amare oggi una canzone di trent’ anni fa o un quadro di Caravaggio.
A.R. – Quindi, per lei l’arte è innanzitutto un continuo rinnovarsi?
M.P. – Lo è se è arte, e se ha spessore. Se, invece, sono già talmente chiare le componenti per costruire un oggetto di successo, sarà un successo relativo, consumabile e immediatamente irriproponibile. Anche in molta arte importante, vedi Duchamp, grande ed importantissimo autore, l’espressività è destinata a guardarsi all’interno di un percorso storico molto preciso. Seppur non andando oltre, egli è comunque creatore di un’arte estremamente rilevante. Quando l’artista è invece complesso, intenso, come Picasso, sempre diverso, nuovo, mutevole, è perché si è posto tutto questo come progetto di vita.
L.D. – Ritengo, però, che in alcuni momenti, quando la trasformazione diventa geopolitica, dei confini anche dell’anima, c’è una tale mescolanza di energie per cui spesso si invertono i ruoli. Le grandi trasformazioni sono molte volte alla radice di grandi “catastrofi” storiche. La condizione generale dei segni e dei ruoli dell’artista va a confondersi con le mutazioni dei tempi. Ma egli ha la possibilità di appartarsi e di aspettare o di modificare lo scorrere del suo tempo. E se tu, Paladino, da “appartato” hai modificato il mio segno con il tuo segno, forse i ruoli e i codici si stanno confondendo, o stanno cambiando.
M.P. Stavamo già parlando lo stesso linguaggio. Artisti che nello stesso momento parlano lo stesso linguaggio, inevitabilmente, anche alla lontana, si riconoscono. si “sentono”. Probabilmente anche il momento storico ci predisponeva a leggerci in un determinato modo.E’ evidente quindi che io ho riconosciuto nei tuoi versi ciò che tu hai riconosciuto nel mio segno. Magicamente e matematicamente, questa strana cabala ha funzionato.
A.R. – Nelle sue interviste Lucio Dalla ha usato spesso il termine contaminazione proprio per definire la situazione sociale, etnica, culturale attuale. Questo termine potrebbe identificare una “espressione” di movimento dell’arte nuova musicale dell’ immediato futuro?
L.D. – Credo lo sia, lo sia stata, anche nella musica che nel suo processo evolutivo ha un segno così preciso. Il più grande contaminato o contaminatore degli ultimi dieci anni, secondo me, è Prince, che in maniera categorica e definitiva utilizza ciò che musicalmente lo circonda per creare la sua grande musica, diversa, fuori dalle righe, che realizza una circolazione antagonista. Credo sia soprattutto importante l’energia: se la contaminazione non porta energia, questa diventa inutile: l’energia del sociale, dove è la società che si parla o che fa parlare altre società, o fa parlare un africano, oppure dà una batteria elettronica ad un nero di quindici anni che vive nel Bronx. Sicuramente per noi questa forma di tecnologia è già diventata un comfort e per lui uno sprigionare di novità, una continua scoperta. E credo che in pittura accada la stessa cosa.
M.P.- Infatti ‘appropriarsi di stili anche diversi è un po’ proprio questo: voler essere estremamente e totalmente libero da qualunque condizionamento dovuto alla propria cifra, potendo usare il segno tribale come quello sofisticato del computer contemporaneamente, ponendo sulla stessa valenza le due cose.
L.D. Sono comunque convinto che questa sia la società della contrapposizione definitiva che può sfociare, nella versione più pessimistica e negativa ad una conflittualità violenta. Esiste invece la speranza di una contrapposizione creativa artistica, che in questo momento vedo però surclassata dalla completa trasformazione dei codici. Ciò non è dato dalla vicinanza alla fine del millennio quanto alla grande e nuova guerra che stiamo vivendo: quella delle ideologie. L’ideologia in discussione pone una fine alla società della parola e dà un inizio a quella dell’immagine. Questo è un propellente pauroso, contemporaneamente a quello che sarà il vero scontro che vivremo da qui a pochi anni, ovvero la lotta tra le macchine e gli uomini. Nelle nostre città, sulle nostre teste, sono tornati a volare gli dei; non ce ne rendiamo conto, ma quello che noi consideriamo futuro, per i gestori della nostra coscienza, che sono i grandi telematici, è il presente. E dovremo difendere il nostro essere uomini o il nostro essere spirito o il nostro essere umani, di fronte a macchine che sono inventate da macchine, in una lotta impari. Dovremo rispolverare tutte le nostre possibilità di ricerca continua di umanesimo, di considerare l’ arte come un dono di Dio, di scoprirla, di vedere dove non c’è, di usarla come nostra difesa. La nostra è una civiltà grandemente a rischio, dove, secondo me, gli artisti dovrebbero schierarsi, nei loro stessi confronti, per essere testimoni delle ultime sacche di resistenza: quella dell’arte, dell’ anima, dello spirito, non ci si può vendere! Il mio pensiero è così, perché a 360 gradi ho degli stimoli e l’incontro con Mimmo Paladino è stato uno di questi.
M.P. – L’immagine che ne proietti è esattamente quello che dici ed è l’idea dello schieramento quella che mi attrae. Uno schieramento di pelle, misterioso, silenzioso. C’è una presenza, quindi si stia attenti, l’arte è sempre stata una presenza pericolosa.
A.R. Le loro parole sembrano quasi un ammonimento. Penso che questi due geniali artisti, il loro lavoro e la loro voce, siano l’esatta esposizione della forza dell’eroismo culturale attuale, inteso propriamente come tramite per un ritorno ai valori interiori dell’amore, della solitudine, della vita e della morte. Il riaffiorare della memoria delle esperienze, della conoscenza, è soltanto una parte, anche se dominante, delle caratteristiche che li accomunano. Nonché quindi, intimisti, individualisti, ricercatori di un messaggio artistico sociale e outsider, espressione sicuramente più giustificata nell’ arte figurativa che nella musica dove il pubblico e l’interesse che l’ opera deve suscitare sono estremamente diversi. In questo dialogo “sempre” aperto, si rivela il continuo e positivo porsi dei quesiti nei confronti dell’universalità e delle sue contradizioni: io credo infatti che proprio dalle contradizioni nasca, sempre, la domanda in più delle riposte che abbiamo in noi.
Da Segno 132 – aprile 1994