Il potere si nasconde e gioca continuamente nella penombra. Il “Re Sole” si è ormai spento ma nel buio avanzano i suoi cavalieri.
Appena entrati al PAC ci si trova davanti a un monumento. Vi sono incisi i nomi dei figli migliori della patria assieme al loro ruolo sociale e alla città di provenienza. Sono i Souvenir d’Italie (Fondamenti della Seconda Repubblica), una successione di relazioni, contatti, vicinanze all’interno della loggia massonica P2. Leggendo la lista, l’occhio crea spontaneamente una tessitura di collegamenti associando i vari elementi trascritti. Queste relazioni involontarie, intraviste nello scorrere, sembrano una materializzazione mentale delle possibili connessioni esistite realmente all’interno della loggia. Vi è sicuramente uno scarto d’immaginazione, ma la peregrinazione incessante che si attiva ci fornisce un esempio della frenesia dell’operato di questo insondabile potere. Chi è collegato a chi e in quali termini?
Al di sopra di tutto, opera sempre l’Occhio della Provvidenza. La memoria visiva della loggia viene sintetizzata da questo simbolo tratteggiante un occhio inserito all’interno di un triangolo raggiante. Ci si sente come osservati a distanza e con fine discrezione quando si scopre questo silenzioso segno posizionato alle nostre spalle. È Lapide, un secondo Souvenir d’Italie che affronta il discorso delle rappresentazioni. Il marmo viene normalmente impiegato nella costruzione di edifici e monumenti ufficiali. È storicamente la rappresentazione della storia ufficiale, ma Vitone lo impiega in un monumento al potere occulto, informale e che brama nel buio.
Come in un libro della vita, nascosta dietro il muro del monumento, si apre un’altra pagina. Una sola parete allestitiva divide anarchia e massoneria. Ci troviamo così nella seconda stanza, aggiungendo al confronto con la Storia quello con noi stessi. Nulla da dire solo da essere (2004) esalta il nomadismo, il popolo Sinti e la sua ruota simbolo del movimento e della peregrinazione continua. Una serie di bandiere si distendono dall’alto e se ne riconoscono i colori nero e rosso dell’anarchia. A sventolare non è la rappresentazione dello stato sovrano, ma il pensiero anarchico del suo rifiuto. I suoi motti si susseguono, “Ognuno per sé, la terra per tutti”. Un trenino gira su binari circolari, rendendo futile il suo fine, ma vitale il suo movimento.
Imperium è l’odore del potere diffuso in una stanza del PAC. Nell’impossibilità della vista, siamo costretti a seguire il nostro olfatto. Come dei segugi annusiamo la scia dell’odore fino a risalire al suo centro d’emanazione. Il nucleo e i suoi sobborghi mantengono la medesima intensità, a sottolineare la presenza di un potere diffuso e sospeso nel suo non mostrarsi. Esso si nasconde nei vuoti, mentre si sottrae anche a se stesso. Tuttavia il suo odore permane. Ne sono intrisi quei luoghi cerimoniosi visitabili, previa prenotazione, alcune domeniche primaverili. In quelle situazioni, i corpi del potere si ritraggono, ma a persistere sono le tensioni delle scelte, l’andirivieni delle persone, le disquisizioni e le sospensioni degli sguardi. È emblematico il bruciore dato al naso dalla fragranza: esso è nullo se esalato con respiri ponderati, ma esplode nel momento di un aumento forzato della respirazione.
Le pareti bianche del padiglione sono state tinteggiate con un acquerello mischiato al pulviscolo raccolto all’interno delle stanze. Scarti provenienti da ogni dove che quotidianamente vengono raggruppati per poi essere gettati. Vitone ne fa invece una pittura, riconsiderandoli come la materia prima di produzione di un luogo, tracce della peculiarità della vita che in esso si consuma. Invisibilità senza tempo che scompaiono nel nulla. Manifestazioni visibili dell’inconsistenza dei luoghi. Il medesimo procedimento viene adoperato per realizzare i tre quadri Raüme, frutto delle polveri provenienti da differenti sedi museali tedesche.
Al piano superiore una serie di fotografie mostrano la scultura pubblica per eccellenza, nata per mano della natura: l’albero. Esso si erge nel mondo, ma sempre privo di una valenza simbolica e celebrativa della società. L’artista pone, al di sotto delle immagini, diciture che aprono a vagabonde interpretazioni. Questi anagrammi incuriosiscono perchè attribuiscono nuove letture e significati all’immagine. Viene allora da chiedersi se l’albero diventi monumento celebrativo o rimanga vivente a se stante? Si scopre che le parole sono anagrammi di artisti/amici o conoscenti di Vitone, così che ogni fotografia sembra tramutarsi in nient’altro che un messaggio, un dono, una cartolina, uno scritto di vicinanza e di intima amicizia.
Sonorizzare il luogo. Europa è la sonorizzazione di quindici regioni europee abitate da altrettante minoranze etniche che vengono rappresentate attraverso canti e musiche tradizionali. Un enorme coro disorganizzato nel quale è difficile individuare le singolarità. È forse una riflessione sul potere normativo e totalitario dello Stato che impone un’unica voce a soggetti differenti che in questo modo rimangono esclusi dalla raffigurazione ufficiale. In questa confusione emerge però il potere delle minoranze in grado di inventare suoni irripetibili e frequenze altere. La specificità di ognuna è comunque riascoltabile e rintracciabile ponendo attenzione nell’ascolto. Vale a dire che non vuole essere un’incauta amalgama, monopolizzazione delle diversità.
Presso il Museo del Novecento è installata l’opera Wide city, un progetto del 1998 acquistato dal Comune di Milano. È una cartografia per immagini delle comunità “straniere” presenti a Milano. Scattando fotografie di luoghi o situazioni quotidiane, l’artista crea una mappatura personale e collettiva di circa 500 indirizzi tra consolati, centri culturali, ristoranti, associazioni… Il progetto proponeva una vera e propria presa di coscienza sulla città con una serie di itinerari ai quali ci si poteva inscrivere gratuitamente. Molti dei negozi ritratti hanno i nomi dei luoghi della colonizzazione italiana in Africa (Asmara), oppure presentano elementi imperiali e trionfalistici come l’insegna di un ristorante intitolato: “Il grande castello imperiale”. Un’estetica d’oppressione utilizzata a scopi commerciali dagli stessi oppressi emigrati in altri paesi.
Predisposte in ordine sparso sulle pareti della stanza, le fotografie si confrontano con un elemento centrale e verticale: la Torre Velasca, architettura simbolo e centro visivo di focalizzazione e riferimento della città. Si innesta così una comparazione tra il centro e l’insorgere di multipolarità disseminate. Questo tentativo di ampliamento della percezione della città è chiaramente inserito in un contesto di identità, comunità e multiculturalità. La necessità di andare oltre lo stereotipo della città, di una Milano da bere, della moda e del design, potrebbe essere uno stimolante punto di partenza per una riflessione sugli odierni accadimenti.
L’operare di Luca Vitone ruota a quella che lui stesso chiama una “perdita topologica”, ossia la perdita delle differenziazioni dei luoghi e delle loro culture a causa dell’omologazione capitalistica. Allora vi è una comunione d’intenti tra il far emergere i poteri che causano una tale società e le numerose topografie come interventi su geografie e non luoghi. Il centro comunica la perdita (1988) considera il non-luogo come un vuoto. Disposto a terra, un anello circolare è composto da ritagli di carte geografiche. Al suo interno, un vuoto nel quale cade dall’alto il pendolo in tensione verso il suo centro. Esso è lì per accompagnarci nel suo spaesamento, nel suo disorientamento.
Io, Luca Vitone è una considerazione politica basata sulla luce e il buio, il silenzio e il rumore: il buio della storia d’Italia e la luce del pensiero anarchico, il silenzioso odore del potere e le rumorose voci delle minoranze. Ricordando che, nel disorientamento del luogo/mappa, c’è sempre l’appiglio di un amico/albero.
Matteo Binci