Con oltre ottanta opere, realizzate dal 1986 a oggi, Palazzo Grassi accoglie l’esperienza artistica di Luc Tuymans, fondata sulla pittura nel suo frustante rapporto con la rappresentazione. La Pelle è il titolo scelto dall’artista, citando l’omonimo romanzo di Curzio Malaparte, pubblicato nel 1949. Non certo per una condivisione ideologica con le posizioni di Malaparte, implicato con il fascismo, ma in nome dell’ambivalenza che l’artista belga assegna alla natura del suo dipingere.
Vocazione fatale per un mezzo, la pittura, che fa i conti oggi più che mai con la finzione e la manipolazione. Questione che Tuymans affronta da subito prelevando i soggetti da fotografie, analogiche o digitali, da giornali, da schermi di computer, di televisori, di smartphone o da specchi. L’immagine subisce ulteriori alterazioni, viene rifotografata oppure dipinta e quindi nuovamente fotografata, perdendo progressivamente definizione e leggibilità. La pittura interviene solo in ultima battuta quando il tipico effetto appannato è già in atto, quando cioè la materializzazione dell’ineluttabile distanza con il reale ha già irreparabilmente indebolito l’immagine. Ormai opaca, fuori fuoco ma in grado di centrare l’obiettivo primario della poetica di Tuymans, ossia dare forma a una “falsificazione autentica” della realtà.
Le opere in mostra non seguono un ordine cronologico, piuttosto confermano la deviazione concettuale della pittura contemporanea anche nell’unica opera realizzata in occasione della mostra, il mosaico di marmo che riveste come una nuova pelle l’atrio di Palazzo Grassi. Riproduce “Schwarzheide”, un suo dipinto del 1986 ispirato a sua volta a un disegno di Alfred Kantor, prigioniero del campo di concentramento tedesco che riprendeva la foresta intorno al lager,un sipario vegetale progettato per sottrarlo allo sguardo dei civili. Sulla violenza e sull’orrore Tuymans torna spesso, scavando nel passato e nella cronaca recente. Basti pensare al ciclo dedicato al cannibale giapponese Issei Sagawa, al nazista Himmler, fissati in una fisicità disperatamente annebbiata, in un’algida lontananza imposta dalla drammaticità della storia. La stessa nebulosità che riserva ai frammenti urbani del sontuoso Murky Water I, II, III, alle nature morte dipinte rieditando il copyright di Cézanne, o quello di Turner, quando si attarda nelle esplosioni di cupi tramonti.
La mostra, curata da Caroline Bourgeois e dallo stesso Tuymans, assai attivo anche in questa veste (di recente ha firmato Sanguine, alla Fondazione Prada a Milano, sul barocco storico e contemporaneo), individua due fasi della sua produzione, quella fino agli anni Novanta che appare gessosa e disturbante nei soggetti: gli occhi chiusi di Albert Speers in Secrets, il corpo fantoccio di Body (entrambi del 1990), l’insetto kafkiano di Superstition (1994) e altre tele di piccolo formato ad alta densità psicanalitica; e quella dal 2000 in poi in cui intervengono slavature e stesure ampie, come nel trittico Murky Water (2015), dove si fa più stridente lo scollamento tra immagine e reale. Pertanto, il visitatore è costretto a sanare la distanza tra ciò che vede e ciò cui l’opera rimanda, integrando l’esperienza visiva con i lunghi testi esplicativi. Narrazioni aggiuntive per una pittura intorbidata in cui la realtà tende a sottrarsi o a riemergere appesantita da aggiuntive problematicità e interrogazioni.
Luc Tuymans
Fino al 6 gennaio 2020
PALAZZO GRASSI
SAN SAMUELE 3231
30124 VENEZIA, ITALIA
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