Considerato secondario all’interno del sistema dell’arte, a volte non considerato affatto, il pubblico è in realtà il custode più importante del valore interno delle opere, nonché l’esclusivo destinatario. Ma quando nasce la coscienza del pubblico, e quando essa inizia a contestualizzare il suo compito? In un racconto surreale, l’analisi di una lacuna e la probabile destituzione.
Vladimiro: “[…] qui, in questo momento,
l’umanità siamo noi,
ci piaccia o non ci piaccia […]”.
S. Beckett, Aspettando Godot
Federico da Montefeltro e la rinotillexomania. Un importante professore all’università stuzzicava spesso i propri studenti con domande curiose. Una delle più insolite, ma anche delle più profonde, fu questa: «Cosa fa il Duca di Urbino, Federico da Montefeltro, nel dipinto di Piero della Francesca, quando nessuno lo osserva?». Non erano degli enigmi originali, né insoluti. Tuttavia, nella mente dei ragazzi, successivamente a ogni punto interrogativo apparivano tante assurde immagini che nemmeno la fantasia di Rimbaud e Huxley insieme era mai riuscita a produrre. Andiamo avanti. In merito alla domanda suddetta, per un paio di muniti il silenzio ronzò tra le pareti zozze dell’aula, poiché il contenuto etico di molte delle ipotetiche risposte oscillavano tra l’impronunciabile e il pornografico. Poi, improvvisamente, uno studente fece breccia alla sua timidezza alzando la mano. Schiarita la voce con un paio di colpi di tosse, accompagnati da una decina di «Il Duca… secondo me… il Duca..», rispose che per l’appunto il Duca, nei momenti di quiete, era solito abbandonarsi a una delle più rilassanti attività meditative umane: trastullarsi con le dita nel naso. L’aula piombò per alcuni secondi in un clima agghiacciante. L’importante professore smise di carezzare la lunga barba, e puntò il dito diritto contro il suo alunno, esclamando: «Questa risposta segna la nascita del pubblico in arte».
Kant, “Sex and the city” e la pace nel mondo. Della vita sentimentale di Immanuel Kant sappiamo ben poco (nonostante tutti credano che dall’epistolario sia possibile ricostruirla). Ed è male, questo. Perché i gossip sono un utile corollario a ogni pensiero filosofico. Se sapessimo qualcosa in più del primo amore di Kant, per esempio, andremmo spediti come bimbi curiosi dietro le quinte della celebre intuizione che il filosofo di Königsberg ebbe riguardo a questioni di arte. Egli, e la seguente è una lettura personale che qualunque studioso metterebbe al rogo, sostenne che la vera scintilla all’interno del campo minato dell’arte non è la bellezza di un’opera, che è certamente basilare, quanto il pubblico e la possibilità che tale bellezza metta esso in relazione, componente per componente, facendogli provare lo stesso sentimento. Straordinario. Un asessuato avrebbe mai potuto esprimersi con una battuta così erotica? Valicando tutto questo, che ha anche poca importanza (dato che il mondo, bellezza o meno, sta comunque andando a rotoli), continuiamo a sostenere che i gossip sono un utile corollario a ogni pensiero filosofico. Una domanda è a mio avviso decisiva per scuotere un po’ la filosofia contemporanea, che affoga da tempo tra le sabbie mobili della precarietà della ricerca universitaria: cosa avrebbe pensato Kant dopo aver letto un libro di Candace Bushnell?
Pleonasmi utili, parti da recitare. Che il Duca di Urbino sia affetto di rinotillexomania non importa. Eppure la risposta di quel coraggioso studente, che indaga la presenza delle opere pur nella non presenza del fruitore, denuda uno dei significati intrinseci dell’arte, ovvero: se essa è, a chi è rivolta? Appare pleonastico affermare che l’arte è rivolta al pubblico; beh, il pleonasmo tramonta quando ci chiediamo che tipo di pubblico sta per rivolgersi all’arte, e quanto questo la influenzi (e addirittura cosa intraveda lì). Sì, perché la nascita del pubblico in arte, come lo conosciamo oggi, è davvero recente: stiamo parlando della fine del diciassettesimo e l’inizio del diciottesimo secolo, cioè esattamente quando una certa allargata borghesia sentì in sé la “facoltà” di avere accesso, emozionale e democratico, alle fonti culturali. (Ovviamente ci si chiede: prima l’arte cos’era? Non intendo rispondere.) E se lo sentì, quello era un pubblico che disiderava essere tale.
Il tè trascendentale. Coincide con la nascita del pubblico, che è poi la più pura coscienza dell’arte (e i teorici qui insorgeranno), la formazione di un organo chiamato “gusto”. Tra le più belle definizioni di “gusto”, belle perché semplici, senza fronzoli o concettualismi sterili, vi è quella annotata da Joseph Addison: «Ho conosciuto una persona dotata di quest’ultimo [il gusto, ndr] in così sommo grado che, dopo aver assaggiato dieci tipi differenti di tè, era in grado di distinguere la varietà particolare che gli veniva offerta pur senza venderne il colore; non solo, era anche capace di riconoscerne due varietà scelte a caso e mescolate insieme in proporzioni uguali; anzi, aveva perfezionato l’esperimento a tale punto che, assaggiando una miscela di tre tipi differenti di tè, era in grado di indicare i pacchetti dai quali erano stati presi i tre differenti componenti». Quello che qui Addison sta dicendo, traducendolo con le mie volgari parole, è che il “gusto” dovrebbe diventare una forma di acuta conoscenza. O mi sbaglio?
Il recensore addormentato. Il “gusto” del pubblico di oggi pare si sia assopito all’uscio delle gallerie, dei teatri, ecc. C’è, è presente con il corpo, il doppiopetto o il tacco a spillo. Psicologicamente però la sua attenzione è appesa al cappio, e a testimoniarlo sono i contenuti dell’arte, sempre peggio infarciti di pirotecniche esplosioni, che invitano alla partecipazione solleticando la noia. Ennio Flaiano, autore cardine della letteratura e della storia culturale italiane, nella recensione a “La buona moglie” di Carlo Goldoni, messa in scena da Luca Ronconi, tuona: «Gli insuccessi che più mi toccano sono quelli del pubblico. Un autore può sbagliare, è umano, una compagnia di attori può essere male assortita e mal diretta, succede ancora, ma quando queste condizioni non si verificano, anzi la fama dell’autore è indiscutibile e la compagnia è formata di attori eccellenti, tutti a posto nella distribuzione delle parti ben guidati, e varano uno spettacolo di rara perfezione stilistica, allora la colpa dell’insuccesso non può essere che nel pubblico. Ma come si fa a fischiare un pubblico? Sopratutto se non si fa vedere, se diserta lo spettacolo? Scoprite questo trucco e avremo risolto la crisi del teatro, che è un aspetto della crisi della cultura». Come Flaiano, immersi in un pubblico che non sa assaporare, a cui va bene qualsiasi cosa, che diserta per riempire il suo vuoto, viene da rabbrividire.
La morte del pubblico. Ogni volta che giudicheremo l’arte banale, sarà al pubblico che tale banalità rilanceremo: perché è del pubblico la responsabilità di tale decadenza. Per chi è questa arte, allora? Le opere non amano il narcisismo di coloro che dovrebbero oggettivarle, bensì il sadismo di sguardi lascivi. Solo quando l’arte sedurrà la pedagogia, le offrirà una tazza di tè ed entrambe proverranno gli stessi sentimenti, infatti, saremo in grado di concepire una evoluzione darwiniana del “gusto”. Fino a quel giorno, Lucy, l’australopiteco etiope, sarà custode del gradino più alto dell’astrazione cerebrale; e il pubblico, gregge privo di creatività, unicamente capace di farsi del male, risulterà un errore genetico, un insignificante fruitore di denaro, cosmetici e armi; un fruitore talmente insignificante da poterlo giudicare inesistente. Altro che umanità!
“Le sere del seduttore e le notti degli sposi
si uniscono come due lenzuoli per seppellirmi […]”.
P. Neruda, Uomo solo, Residenza sulla terra